Ente locale tra numeri e destino
Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in Economia e Politica.
a cura Agostino Agamben
I nuovi parametri di deficitarietà come rivelatori di una crisi più profonda, quando l’amministrazione cede, e la comunità vacilla
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È nel linguaggio normativo, apparentemente neutro, che si nasconde la più sottile forma di giudizio. Lì dove si definiscono i parametri della deficitarietà strutturale, non vi è solo misurazione ma destino. Il decreto del 4 agosto 2023 non si limita a elencare soglie e indicatori: costruisce una nuova grammatica del rischio, una forma di discernimento del vivente istituzionale. I numeri, apparentemente inerti, diventano atti di rivelazione: nominano l’ente che non regge più, lo disegnano come corpo fragile, esposto, pronto a cadere.
C’è in questa operazione una qualità che potremmo definire ontologica: perché l’ente locale non è soltanto una somma di conti o una macchina amministrativa. È piuttosto una forma di vita, una soggettività collettiva, un nodo di relazioni che tiene insieme bilancio e biografia, norma e vicinanza, politica e paesaggio. Dire che un comune è “strutturalmente deficitario” non è un atto tecnico, ma un gesto di disvelamento: come se all’interno della superficie contabile si manifestasse una verità più profonda, una frattura nella capacità di costituirsi come comunità.
Il decreto individua indicatori precisi: l’incidenza delle spese rigide che, superando il 48% delle entrate correnti, segnala un irrigidimento della struttura; la caduta degli incassi propri sotto il 22%, segno di un venir meno della capacità generativa dell’ente; anticipazioni chiuse solo contabilmente, che rivelano una sospensione del tempo finanziario; debiti finanziari insostenibili, sopra il 16%; disavanzo effettivo che eccede l’1,20% dell’esercizio; debiti riconosciuti e finanziati oltre l’1%; debiti in corso di riconoscimento sopra lo 0,60%; e infine una capacità di riscossione che scivola sotto il 47%: tutti questi segnali tracciano non tanto una contabilità, quanto un’economia del limite, un’esposizione alla crisi che ha il sapore dell’irreversibile.
Questa economia non è fatta solo di bilanci, ma di tensioni invisibili. L’ente che vive oltre la soglia vive in una forma sospesa, come chi sta sull’orlo e sa che basta un passo per cadere. La soglia del 50% – almeno la metà degli indicatori – come criterio per definire la deficitarietà strutturale, è più di un artificio giuridico: è la cifra di un equilibrio spezzato, di una soglia che separa la governance dalla fragilità, l’amministrazione dalla rovina.
In questo quadro, il linguaggio dei numeri si fa simbolico. L’indicatore 3.2 – anticipazioni chiuse solo contabilmente – mostra una temporalità distorta: qualcosa è stato speso, ma non è stato ancora chiuso; è il passato che continua a pesare sul presente, una ferita che non si rimargina. La voce “debiti riconosciuti” o “in corso di riconoscimento” non è solo un dato: è una colpa che chiede nome, un’ombra che insiste.
E se questo vale per i comuni, con soglie che scandiscono la caduta silenziosa nella crisi, per le città metropolitane la geometria si fa ancora più sottile. Le percentuali si abbassano: 41% per le spese rigide, 21% per gli incassi propri, 45% per la capacità di riscossione. È come se il corpo più grande fosse anche più esposto, come se la dimensione della metropoli – luogo della concentrazione, della velocità, della complessità – rendesse ancora più fragile il tessuto istituzionale. La città, con la sua architettura espansa, si regge su equilibri minimi: basta che quattro indicatori su otto crollino, e tutto vacilla.
Le comunità montane, invece, vivono una soglia diversa: 60% per le spese rigide, una percentuale apparentemente più generosa, ma che in realtà nasconde un’altra forma di vulnerabilità. Perché la soglia più alta non è segno di forza, ma di una condizione già al limite. La montagna, spazio marginale, remoto, vive già in condizioni di rarefazione: l’innalzamento della soglia è una forma di adattamento al rischio permanente, come se il legislatore sapesse che qui l’emergenza è la norma, la crisi è lo sfondo costante.
In ogni caso, la cifra minima è sempre quella: almeno metà degli indicatori deficitari. È una soglia che sembra ispirarsi a una logica binaria – uno spartiacque tra stabilità e crisi – ma che in realtà espone la natura ambigua dell’ente: perché che cosa vuol dire vivere esattamente a metà? Non ancora in crisi, ma non più stabile. Una condizione intermedia, liminale, dove l’ente non è né vivo né morto, né integro né dissolto. È il luogo della soglia, appunto, dove la politica si trasforma in gesto di resistenza, e l’amministrazione in esercizio di sopravvivenza.
Ciò che emerge, dunque, è un paesaggio istituzionale segnato dalla precarietà. I parametri non sono meri criteri di valutazione: sono sintomi. Dicono di una crisi che non è episodica, ma strutturale. Non è un incidente, ma un paradigma. Non è un’eccezione, ma una forma di governo. Il comune deficitario è figura di un più ampio disfacimento della rappresentanza politica, dell’idea stessa di ente locale come luogo di autonomia, di prossimità, di decisione condivisa.
Eppure, l’insistenza sulla soglia produce un paradosso. Se l’ente è considerato “in crisi” solo quando la metà dei parametri collassa, allora si ammette implicitamente che la crisi è già in corso prima. Quattro indicatori su otto in rosso non sono ancora deficitarietà strutturale – e tuttavia già mostrano una sofferenza profonda. È come se si ammettesse che una parte dell’ente può essere in agonia, purché l’altra metà resista. Ma quanto a lungo può durare questo equilibrio precario? Fino a quando la parte “sana” può reggere il peso dell’altra?
Nel pensiero della soglia, si annida una concezione tragica della politica. Non come gestione efficiente del reale, ma come capacità di stare sull’orlo, di abitare il confine. In questo senso, l’articolo 242 del Tuel – nel suo stabilire la metà come punto critico – assume una valenza simbolica: dice che la crisi non si dà tutta d’un colpo, ma si diffonde, si insinua, si stratifica. Il deficit non è una frattura, ma una lentezza. Una deriva.
E allora si comprende che ciò che viene chiamato “fallimento dell’ente” non è evento improvviso, ma esito di una lunga erosione. Il fallimento amministrativo è come una ruggine: lavora silenziosamente, consuma i margini, sfibra le strutture. Quando si manifesta, è già tardi. La soglia era stata superata molto prima, ma non vista.
Nel testo del decreto si parla anche di “sostenibilità del debito”. Ma che cosa significa “sostenere”? È forse un’immagine architettonica: come una colonna che regge un peso. Ma se la colonna è stanca, se il peso cresce, se il materiale si consuma – allora la tenuta diventa impossibile. La sostenibilità non è solo un calcolo: è una scommessa sul futuro, è fiducia che domani l’ente potrà ancora reggere ciò che oggi lo opprime.
Tutti questi parametri – 1.1, 2.8, 3.2, 10.3, 12.4, 13.1, 13.2+13.3 – sembrano costituire un alfabeto segreto della crisi. Una lingua arcana in cui si scrive la diagnosi dell’ente. Eppure, chi li legge? Chi sa davvero ascoltare ciò che dicono questi numeri? Essi parlano, ma in una lingua che solo pochi sanno decifrare. E tuttavia il loro significato riguarda tutti: perché ogni volta che un comune cade, cade un pezzo di democrazia,
cade un frammento di vita collettiva.
Le province, pur non esplicitamente menzionate nella parte centrale del discorso pubblico, seguono lo stesso destino. Anch’esse sottoposte a soglie, ad indicatori, ad analisi di tenuta. Anch’esse organismi intermedi, spesso trascurati, eppure fondamentali nel disegno istituzionale. Anche per loro vale la logica della metà: quando il bilancio riflette un volto spezzato, l’ente si ammala. E la malattia non è soltanto finanziaria – è simbolica, politica, esistenziale.
Forse, allora, il vero compito del pensiero non è tanto quello di proporre nuove soglie, ma di meditare sulla soglia in sé. Su ciò che accade quando si è sull’orlo, quando si vive nella prossimità del collasso. Il pensiero della soglia è pensiero del possibile: dice che si può ancora tornare indietro, ma anche che si può essere già oltre. È lo spazio in cui il politico e il tecnico si incontrano, in cui la contabilità diventa etica, in cui la gestione si trasfigura in cura.
Ed è in questo senso che l’ente locale – pur segnato dal disavanzo, dal debito, dall’incapacità di riscossione – continua ad essere figura del comune, del comunitario, del vivere insieme. Anche quando è “strutturalmente deficitario”, conserva una possibilità: quella di essere ancora luogo di decisione, di memoria, di ricostruzione. Ma questa possibilità esige attenzione, vigilanza, ascolto. Esige un pensiero che sappia stare sul crinale.
Il decreto ha tracciato le soglie. Ora spetta al pensiero abitare lo spazio tra i numeri, nominare ciò che essi non dicono: la precarietà come condizione, il deficit come forma, la soglia come destino.