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Firmare la soglia

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura Agostino Agamben

Un gesto di resistenza contro l’esclusione dei falsi democratici, un voto con riserva come atto di presenza e responsabilità in un paese che non si ama ma che si deve preservare, tra stizza, distanza critica e la tensione di un’evoluzione politica sospesa.

C’è nell’atto stesso del firmare la petizione, o meglio della raccolta firme, una soglia: non meno dolorosa, non meno decisiva, di quella che separa il dire dal non dire, l’azione dall’inazione. Ho percorso cinquanta chilometri per apporre la firma sulla lista di Italia Sovrana e Popolare — “anche di Marco Rizzo del Partito Comunista” — e già in questo spostamento fisico risiedono molte delle tensioni che oggi sembrano attraversarci, tutti noi, come un corpo sociale sospeso.

Firmare, in certi momenti, significa opporre resistenza: non una resistenza rituale, ma quella che nasce dall’esasperazione — “per stizza”, dici: contro i tentativi di esclusione operati dai falsi democratici che si erigono a baluardo del demokratismos, del regime democratico parolaio che si proclama ma al contempo discrimina, chiude porte, valuta appartenenze. Ecco che la firma diventa gesto politico che parla più forte delle parole, perché anticipa quel che potrebbe essere escluso, quel che viene messo al margine, quel che non ha diritto di cittadinanza nei discorsi ufficiali.

Non è, però, un atto di piena adesione. La stizza è ambigua, sorella di un’amarezza che non vuole dissolversi nella rassegnazione. La scelta — “non è detto che a settembre voterò questa lista” — si distende come una linea di fuga: restare, resistere, ma senza illusioni definitive; mettere in gioco, ma senza consegnarsi. E in questa spinta intermedia, in questo spazio liminale, si cominciano a intuire le contraddizioni.

Chi si astiene, dici: “deve poi non rompere le palle con le critiche”: una condanna morale, forse, ma anche una richiesta di coerenza in un’epoca che consuma la coerenza stessa come un residuo imbarazzante. Astensione come silenzio che pretende il diritto al silenzio, oppure come gesto radicale di rifiuto, ma che perde parte della sua forza se non si assume anche come responsabilità — responsabilità verso ciò che si lascia accadere, verso la quiete che succede al vuoto lasciato dalla mancata partecipazione.

E il voto: “probabilmente dovrò turarmi il naso ben bene”; non un giudizio morale, ma una constatazione di quel che oggi è divenuto inevitabile, la resa parziale di sé alla scelta minore del male. Voto non desiderato, ma metodico; votare per impedire, per quanto possibile, la spinta finale verso la dissoluzione — non di un ideale lontano, di un passato — ma del paese in cui si vive, con tutte le sue contraddizioni, con tutto il suo peso politico, storico, affettivo.

Questo “non lo amo ma mi tocca vivere” dice tutto: l’estraneità, la distanza, l’arrabbiatura, la custodia involontaria di qualcosa che non si è scelto ma che, in certo senso, si è ereditato. Non si ama, ma si sopporta; non si distrugge, ma si preserva quel che resta. Ma preservare non è conservare; è piuttosto non lasciare che si cancelli del tutto quel residuo che ancora può dire qualcosa, che può generare differenza.

Tra queste pieghe dell’indecisione, del ‘forse’, del ‘contro più che a favore’, si insinua però una domanda di evoluzione: non come progresso lineare — quello che ci hanno venduto e che ora appare logoro — ma come trasformazione della soglia, come mutamento dello spazio in cui ci muoviamo. Lo spazio politico come zona liminare, la soglia come luogo in cui ci si misura, ci si riflette, ci si guarda allo specchio di una storia che continua a mutare anche quando crediamo che tutto sia già deciso.

Evoluzione come parola sospesa: tra ciò che siamo, ciò che avremmo voluto essere, e ciò che temiamo diventeremo, se ci assegnamo un ruolo di spettatori, o di astanti. Evoluzione come responsabilità verso l’errante, la scelta incompleta, il gesto che non si risolve in adesione totale ma conserva residui di differenza, quasi di disaccordo interno.

Perché ciò che è in gioco non è la purezza politica, non è l’identità perfetta, bensì la tensione che continua a produrre senso, la apertura che non si chiude nella certezza, la domanda che non si risolve in risposta. Se voti — anche malvolentieri — non è per amore, è per trattenere, per frenare, per non lasciare crollare quel sotterraneo tessuto di relazioni, di diritti, di parole che ancora resiste.

La stizza iniziale diventa allora motore: non di odio, non di rivolta impulsiva, ma di vigilanza. Come se firmare fosse già un segno di presenza, e la presenza — anche quando non convinta — fosse più radicale dell’assenza; fosse più rischiosa, forse, perché espone al dubbio, al rimorso, alla contraddizione.

Non so ancora per chi voterò: questa frase contiene un incontenibile spazio di libertà. Libertà che però è gravata dalla storia del presente. Libertà che pesa, che non può ignorare il passato né chiudere gli occhi davanti alle alternative offerte, né fingere che tutte le opzioni siano uguali. Votare e non votare — entrambe azioni, entrambe decisioni. E forse è lì la soglia decisiva: nel riconoscere che ogni scelta è contaminata, ogni opzione inquinata, ogni scelta mediate da ciò che si teme, da ciò che si spera, da ciò che si rifiuta.

Il “voto contro”, dunque: non gesto negativo, non pura negazione, ma forma di contrasto, di sottrazione, di protezione contro l’eclissi possibile. Quando dici “contro”, dici anche “per”, benché in negativo, per preservare qualcosa: un diritto, un’aspettativa, una memoria, un’idea di comunità che non abbia ceduto del tutto alla dissoluzione.

Perché dissoluzione non è solo abbattimento esterno, è lenta dissoluzione di quella trama fragile che chiamiamo democrazia, società civile, coesione sociale — dissoluzione quando si accetta che chi detiene il potere definisca chi è dentro e chi è fuori, chi è degno di manifestarsi, chi deve scomparire, chi non passa il filtro della legittimità.

E questa lista — Italia Sovrana e Popolare — diventa così simbolo: non necessariamente come compimento di una scelta ideale, ma come nodo in cui confluiscono dubbi, rabbie, resistenze, speranze; al limite come possibile rampa, luogo di passaggio, di sperimentazione; o come ricettacolo di ciò che non vogliamo più tacere.

Evoluzione intesa come spinta verso una politica che non si riduca all’illusione della rappresentanza pura, alla liturgia dei simboli, ma che sappia ritrovare uno spazio in cui la voce conti, in cui l’essere presenti — pur con riserve — possa imporsi come atto di trasformazione. Non trasformazione a priori, né adesione totalitaria a identità predefinite, ma metamorfosi lenta, incrinata, che accetta il conflitto interno, la frattura, il non-allineamento, perché da lì forse nasce qualcosa che non abbiamo ancora il nome per definire.

In questo lento evolversi, il non astenermi appare come un principio etico: non restare fuori, non lasciare che la vita politica, il conflitto, la decisione, il diritto alla contesa vengano confinati agli spettatori. Ma nemmeno restare dentro come chi non ha dubbi, come chi crede che tutte le risposte siano già date. Rimanere dentro: con disagio, con sospetto, con distanza.

E la distanza, lungi dall’essere fuga, può diventare misura, lente di ingrandimento, dispositivo per vedere le rovine del presente, le rotture già avvenute, le promesse non mantenute, le ferite accumulate. Quanto pesa il linguaggio democratico quando chiude, quando esclude. Quanto pesa chi si proclama difensore dei valori ma al contempo struttura la propria forza sull’assenza dell’altro, sulla silenziosità di chi non rientra nei registri consentiti di appartenenza.

La firma: gesto minuscolo, ma necessario, gesto di testimonianza che dice che non tutto è perduto; che la soglia è ancora percorribile, che la differenza — anche se sottratta, anche se marginalizzata — ha ancora diritto alla scrittura, alla visibilità. La stizza che motiva la firma è già indicazione che il presente non è sopportabile, che non ci si rassegna, che ci si ritrova costretti a misurarsi con ciò che ci circonda, anche se ciò che ci circonda è fango di parole ingannevoli, retorica istituzionale, silenzi complici.

E mentre percorrevo quei cinquantacinque chilometri (cinquanta, hai detto), tremava sotto le ruote non solo l’asfalto, ma la percezione che l’Italia sia “già accaduta”, che la sua cornice politica sia una gabbia composta, finita, definita. No: l’Italia è ancora soggetto — soggetto incerto, conteso, sospeso — e ogni scelta, anche minuscola, anche irritata, è modo di restare interrotti, di restare inquieti, di restare in attesa di quel che potrebbe avvenire.

Quale nazionalità, quale sovranità, quale solidarietà, quale forma di popolo — questi interrogativi non sono affatto astratti: sono i monconi che sanguinano sotto la democrazia commissariata degli apparati, sotto l’egemonia dei partiti mediatici, delle istituzioni chiuse, delle decisioni prese altrove, degli esclusi. Italia Sovrana e Popolare — il nome stesso richiama una ricomposizione di questi elementi: la sovranità che è negata, il popolo che è disperso, il vincolo che si è lacerato. Firmare, votare, non votare: tutte scelte che fanno uscire dalla ruggine del discorso pubblico, che pretendono che ci sia ancora qualcosa da difendere non perché ideale, ma perché concreto, vivente.

E in questa concretezza, in questa materialità del gesto — firmare, votare contro, sopportare il naso tappato — c’è anche il limite della scelta: non sempre le forme offerte sono buone; non sempre chi offre lo spazio offre verità; ma se non prendi lo spazio, lo spazio ti prende. E quando lo spazio ti prende — vuoi per omissione, vuoi per silenzio — ti paragona all’oblio.

Puoi turarti il naso — atto che umilia, atto che segnala che tutta la purezza è perduta — ma è morale che certi nasi vengano tappati, perché altrimenti il respiro stesso si ferma, o peggio che diventi vano, che resti solo gesto abituale, inconsapevole, abitudinario. C’è un respiro che si tiene col fiato sospeso: bisogna decidere quando inspirare e quando espirare, quando gridare e quando tacere, quando firmare e quando astenersi, ma sempre rimanendo consapevoli che ogni atto è gesto di trasformazione, anche se piccolo.

Chi critica dall’esterno, o giudica chi partecipa pur con riserve, chi pensa che non votare sarebbe più “puro” — questi ignora che la purezza politica, la purezza dell’astensione, è spesso una forma raffinata di fuga, un lusso che solo chi non ha voce, chi non ha subito esclusione, chi non ha sentito la soglia del suo essere politico annichilita può permettersi. Tu — che hai percorso 50 km — hai praticato la distanza, ma hai scelto la prossimità; hai scelto di esserci, seppure zozzato, seppure dolorante, seppure compromesso.

E quella distanza che si sente — tra ciò che sei, ciò che credi, ciò che temi — è essenziale. Perché se perdi l’estraneità verso le proprie convinzioni, se dici “io credo, io seguo, io appartengo” senza restare criticamente separato persino da te stesso, allora la tua appartenenza diventa identità repressiva, dogma, maschera. Il dissenso interno — che non sai ancora per chi votare — è energia viva, è solco aperto, è apparizione della possibilità.

Così la politica non è volontà di potere puro, né rivendicazione astratta, ma pratica della soglia: camminare verso la soglia del possibile, delle alternative che non stanno già scritte, delle forme che non somigliano a quelle che abbiamo conosciuto. Sovranità non come sovranità del leader, non come sovranità dei gruppi che si sentono migliori, ma come soglia condivisa, come incontro tra estraneità, come spazio di molteplicità, di differenza, di conflitto reso necessario.

Popolare — non come parola retorica, ma come problema: chi è popolo? Chi è compreso? Chi è escluso? E chi decide l’appartenenza? Quando i falsi democratici dicono di essere democratici, stanno forse già decidendo che qualcuno debba stare fuori, che qualche voce non conti, che qualche vita non sia ammessa; ed è esattamente lì che la stizza contro di loro prende significato: non come rabbia cieca, ma come rifiuto dell’esclusione.

Il cammino politico oggi sembra tutto fatto di muri interiori, di contrapposizioni tra identità, di recinzioni morali, di partitologie che pretendono di parlare a nome del tutto mentre lasciano ampi spazi di invisibilità. Tu percorri distanze, firmi; e queste distanze diventano visibili: tra te e i falsi democratici, tra te e le istituzioni che pretendono la fedeltà, tra te e la retorica che parla di popolo senza chiedere chi lo costituisce.

Non so ancora per chi voterò: lo ripeti, ma questa incertezza cresce in te come fondamento, non come debolezza. È ciò che ti salva dall’illusione: chi è sicuro, chi ha tutte le risposte, chi promette l’unità perfetta è già catturato dal potere, già dentro il meccanismo che nega la soglia, che elimina la domanda, che storia dopo storia trasforma la divisione in silenzio.

E ogni volta che voti contro, ogni volta che “turarsi il naso”, ogni volta che la stizza ti muove, apri la possibilità che qualcosa, forse, si rompa: la promessa del discorso credibile, la tutela delle differenze, la polis diversa, la comunità non omogenea ma plurale. Non è evoluzione rassicurante, non è trasformazione ordinata, non è progresso riconoscibile; è evoluzione come sopravvivenza, come irrequietezza, come possibilità che resiste dentro l’ombra dell’oggi.

Perché tutto ciò — la firma, il voto, la stizza, il naso tappato, il paese che non ami ma in cui ti tocca vivere — non è microscopico, non è marginale. È il nodo che tiene insieme il teatro del possibile politico. Se perdi il nodo, la trama si disfa, resta solo l’indifferenza, resta solo l’eco vuota dei discorsi ufficiali, delle buone parole messe a norma, dei valori proclamati nei convegni, nei talk show, nei comunicati stampa.

E in questa zona, sospesa, tra ciò che sei costretto a sopportare e ciò che vorresti rovesciare, tra ciò che ti irrita e ciò a cui non rinunci, tra l’atto del firmare e il gesto del votare, si misura il confine di ciò che resta umano — la solidarietà, la cura, la parola, la responsabilità — e la linea sottile che rischia di essere sfumata dall’abitudine, dallo scoraggiamento, dalla resa silenziosa.

E allora, cammino, firma, decido; anche con riserva; anche con rabbia; anche con naso tappato, con voce incerta; ma decido. Perché decidere è prendere parte: a ciò che siamo e a ciò che temiamo diventeremo. E in questo interstizio, in questo tra, in questa sospensione, forse qualcosa evolve — non come promessa certa, non come compimento, ma come possibilità che non voglio che mi sfugga.

 

 

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