Francia in crisi spread OAT-Grecia al record, BCE tra scelte politiche e mercati instabili
Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in Economia e Politica.
A cura di Agostino Agamben
La crisi politica di Parigi agita i mercati finanziari europei, con rendimenti dei bond francesi che superano quelli ellenici e lo spettro di un voto di sfiducia imminente; mentre la BCE si trova davanti al dilemma di sostenere un governo fragile o lasciare che la pressione dei mercati imponga l’austerità, segnando un punto di svolta per l’Europa tra stabilità economica e sovranità democratica.
L’economia politica dell’Europa contemporanea si rivela per quello che è: un teatro di apparenze in cui il valore dei titoli di Stato diventa misura non tanto della fiducia economica quanto del consenso politico. Non è un caso, dunque, se oggi la Francia si trova paragonata alla Grecia — un tempo paradigma dell’insolvenza mediterranea — e che il mercato, come corpo senz’anima, dia segni di disorientamento, come se avesse smarrito non solo il lume della ragione, ma la memoria stessa dei meccanismi di cui è parte. Eppure, nulla è più razionale della paura quando si insinua nel cuore della rappresentazione sovrana.
Il fatto che i bond francesi (OAT) abbiano toccato rendimenti superiori a quelli dei titoli greci non è un’anomalia: è l’epifania di un’equivalenza storica che fino a ieri era impensabile, ma che oggi si impone come verità politica. Non esiste infatti mercato “puro” che possa disgiungersi dalla forma di governo che lo sostiene: i rendimenti non mentono, ma parlano un’altra lingua, quella della sovranità monetaria e della sua crisi.
Nel cuore dell’Eurozona, dove la sovranità è stata svuotata e delegata a istituzioni post-statali come la BCE, ogni crisi nazionale diventa automaticamente una crisi continentale. Tuttavia, la Banca Centrale Europea, che ha piegato le regole contabili in favore dell’Italia, si mostra ora fredda nei confronti di Parigi, quasi a voler tracciare un confine tra i popoli salvabili e quelli da abbandonare. Perché? Forse la risposta risiede non nelle cifre del debito o del deficit, ma nella grammatica del potere che distingue tra “governabili” e “ingovernabili”.
La crisi francese, esplosa con le elezioni anticipate di Macron e degenerata nella nomina di Michel Barnier — un commissario europeo travestito da premier nazionale — mostra il volto paradossale della democrazia rappresentativa: un potere che sopravvive solo nella forma dell’eccezione. Il governo di minoranza si è rivelato un simulacro, un’interruzione del normale flusso parlamentare, il cui unico sostegno reale era il meccanismo costituzionale del 49.3, una sospensione della discussione, una decisione che si pretende neutrale ma che è in realtà profondamente autoritaria.
Marine Le Pen, con l’ultimatum annunciato e poi adempiuto, non fa che riprendere una liturgia ormai classica: quella della sfiducia istituzionalizzata. Ma il suo gesto, più che politico, è sintomatico. È il corpo del popolo che rientra in scena come spettro, come forza che non vuole più essere rappresentata ma che pretende di essere presente, qui e ora. Il “voto di censura” non è solo un atto parlamentare: è un rito funebre, che seppellisce l’illusione della continuità democratica.
Nel frattempo, i mercati — che non sono altro che il volto economico del biopotere — reagiscono. Ma non reagiscono all’insolvenza tecnica. Reagiscono alla perdita di controllo. La finanza non teme il debito in sé, ma l’ingovernabilità. Il popolo che parla troppo, che si esprime in forma radicale, sia essa lepenista o mélenchonista, è un rischio maggiore per gli investitori del semplice deficit. La Francia non è diventata Grecia perché è povera, ma perché è divenuta pericolosamente instabile. È l’anomia che spaventa.
Che oggi gli OAT francesi siano ritenuti più rischiosi dei bond greci significa che la normalità è rovesciata. La Grecia, che aveva toccato il fondo della crisi, è ora considerata una forma di ordine, una stabilità restaurata. La Francia, al contrario, incarna il disordine. Il fatto che Atene sia “più sicura” è un paradosso solo apparente: è la logica della governance che premia la docilità e punisce l’insubordinazione. Atene ha accettato tutte le condizioni, ha subito la Troika, ha trasformato la politica in tecnocrazia. Parigi, oggi, resiste.
Nel fondo, ciò che si svela è la natura differenziale della sovranità nella zona euro. Non esiste un’Europa unita, ma una gerarchia mobile tra Stati: l’Italia, con un governo “stabile”, si vede premiata, i suoi BTP vengono sostenuti — non si sa bene fino a quando — da un favore implicito della BCE. La Francia, invece, perde credito perché perde governo. La stabilità non è più una categoria della politica, ma una condizione del credito. È la finanziarizzazione dell’ordine.
La manovra da 60 miliardi proposta da Barnier, con tagli e tasse, era il prezzo da pagare per rientrare nei parametri europei. Ma nessuno, né a destra né a sinistra, è stato disposto ad accettarla. Perché è proprio lì che si mostra l’insostenibilità del modello: si chiede austerità a un corpo sociale già stremato, senza offrire in cambio alcuna forma di rappresentazione reale. Il “popolo”, ormai ridotto a cifra statistica, si vendica non nelle piazze, ma nei rendimenti, nella caduta dell’euro, nell’allargarsi dello spread.
La BCE, silenziosa, osserva. Non interviene. Come il sovrano di Carl Schmitt, decide lasciando fare. Il suo potere è nella sospensione: sostenere o non sostenere i titoli francesi è già una forma di giudizio politico. Parigi, dunque, non è salvata, non perché non possa essere salvata, ma perché non deve esserlo. È un monito, un avvertimento agli altri: senza governo non c’è salvezza. La moneta, ancora una volta, diventa uno strumento di disciplina politica.
La rivincita della Grecia è solo apparente. Non è la gloria dell’autonomia ritrovata, ma il premio per l’obbedienza. Non si è vinti se si cede tutto, anche la forma-Stato. Per questo anche l’Italia può oggi mostrarsi forte, nei numeri: perché ha accettato, con il governo Meloni, un modello di “normalizzazione” compatibile con le esigenze del capitale finanziario. Ma è una forza fittizia, fondata sull’equilibrio instabile di una volontà governante che si piega, ma non osa più spezzare.
Il disfacimento dell’autorità in Francia è specchio del destino europeo. Anche la Germania, un tempo locomotiva, oggi arranca. La crisi del governo Scholz, le elezioni anticipate, mostrano che anche l’ordine tedesco, da sempre eretto come modello, si dissolve. Nessuno più governa. Solo si amministra, si galleggia, si attende. Ma cosa si attende? Che la BCE parli? Che il mercato “rassicuri”? Oppure che tutto, lentamente, venga lasciato cadere, come in un teatro dove gli attori hanno smesso di recitare?
La mozione di sfiducia, la discussione parlamentare, gli articoli della Costituzione francese, le dichiarazioni di Barnier, tutto si accumula come frammenti di un discorso che non ha più un centro. È il linguaggio del potere senza decisione, della crisi permanente elevata a metodo. E, in questo contesto, anche il tempo diventa un alleato della disgregazione: una nuova manovra richiederà mesi, un nuovo governo non potrà essere eletto prima dell’estate. È l’interregno, dove ciò che resta è solo l’economia del vuoto.
Gli analisti lo sanno: non c’è speranza di stabilizzazione a breve. Gli spread non si richiuderanno. La fiducia non tornerà. E non perché manchi il capitale, ma perché è venuto meno il fondamento politico che rende quel capitale credibile. Si teme che il debito cresca al 118% del PIL, ma si dimentica che la vera insostenibilità è quella della narrazione che lo giustifica. Nessuna cifra basta a governare, se il simbolico si rompe.
In ultima istanza, ciò che accade in Francia non è solo un evento politico. È un’epifania. Mostra che l’architettura europea non è costruita sulla solidarietà, ma sulla selezione. I paesi si alternano nel ruolo di modello e di monito. La Grecia fu l’esempio negativo, oggi è la cartina di tornasole dell’obbedienza. La Francia, ieri al centro, oggi si trasforma in una minaccia, non solo per sé stessa, ma per l’intero sistema euro-atlantico.
Non si tratta più di una semplice crisi di debito o di bilancio, ma di un conflitto tra due concezioni antagoniste di sovranità e di democrazia. Da una parte, la gestione tecnocratica e centralizzata dell’Unione Europea, che impone rigore e disciplina attraverso il vincolo finanziario, dall’altra la rivendicazione popolare di una politica che torni a essere autenticamente sovrana, capace di rappresentare e di incidere sul reale.
In questo scontro, la BCE non si limita a svolgere un ruolo neutrale o tecnico. Essa diventa agente di una scelta politica che sacrifica la Francia sull’altare dell’“ordine europeo”. Non più custode dell’unità, ma giudice che decreta l’esclusione. Non più banca centrale di tutti, ma strumento di un governo dell’Eurozona che fa selezione tra paesi “meritevoli” e “colpevoli”.
La lezione è dura e chiarissima: la salvezza economica è condizionata alla resa politica. Si salvano i governi che si conformano al dogma europeo, si abbandonano quelli che osano sfidarlo. Non è un fatto nuovo, ma oggi appare in tutta la sua cruda evidenza. Per questo la Francia, con la sua crisi di governo, rappresenta il segnale di un declino che potrebbe essere inarrestabile.
La domanda che resta aperta è questa: che Europa sarà, se non esiste più spazio per una pluralità politica che sia autenticamente tale? Se l’Eurozona diventa una gabbia per governi esecutivi e popolazioni mute? Se la moneta unica è il monito, la minaccia, la leva del potere disciplinare?
Forse, allora, la vera crisi non è quella dei mercati o dei bilanci, ma quella della stessa idea di Europa. Un’Europa che non sa più riconoscere i suoi popoli, che li riduce a meri soggetti economici, che trasforma la sovranità in un tabù e la politica in un paradosso. In questo senso, la Francia di oggi non è solo un paese in difficoltà, ma il sintomo di un malessere profondo, che investe il cuore dell’Unione.
Ecco perché la BCE non salverà Parigi come ha salvato l’Italia. Perché, in fondo, non si tratta più solo di economia, ma di politica: di quale politica siamo disposti a vivere, e quale Europa vogliamo abitare.