
Gaza e il Ritorno degli Elohim Tra Mito e Tragedia Contemporanea
Scritto da Fulvio Muliere il . Pubblicato in Attualità.
a cura di Fulvio Muliere
Un viaggio tra le macerie della Palestina e le pieghe profonde della coscienza umana, dove il sacro si intreccia con la sofferenza, interrogando il destino del divino e dell’umanità.
La striscia di Gaza, oggi simbolo di un conflitto senza fine, si presenta come un crocevia drammatico dove si scontrano politica, storia, e spiritualità. In questo angolo del mondo, la devastazione materiale si accompagna a una profonda crisi esistenziale, che richiama antiche domande sulla natura del divino e sul ruolo del sacro nel destino umano.
Il termine “Elohim” – plurale di Dio nella tradizione ebraica – evoca una molteplicità di interpretazioni che vanno oltre la mera teologia, entrando nel territorio del mito, della filosofia e persino dell’esoterismo. In un contesto come quello di Gaza, dove la violenza e la distruzione sembrano dilaniare non solo corpi ma anche il tessuto stesso della speranza, la riflessione sul “ritorno degli Elohim” assume una valenza simbolica cruciale.
Non si tratta solo di un’ipotesi mistica o fantascientifica, ma di una domanda che attraversa l’esperienza umana più profonda: cosa significa che forze superiori tornino a manifestarsi in un mondo in cui Dio sembra essersi ritirato? E quale volto assume oggi la divinità in un’epoca segnata da tragedie senza risposte apparenti?
Questo approfondimento si propone di esplorare, in modo fluido e integrato, le molteplici dimensioni di questo tema, mettendo in dialogo mito e realtà, teologia e filosofia, attualità e memoria ancestrale. In questa tensione tra passato e presente, tra sacro e profano, si gioca forse la possibilità di un nuovo inizio, o il rischio di una definitiva caduta dell’umano.
Nel cuore infuocato di Gaza, dove la polvere si alza su macerie che sono insieme corpi e sogni infranti, si consuma una tragedia che sembra rispecchiare un dramma antico quanto la Bibbia stessa. La violenza, la distruzione e il dolore diventano non solo fatti storici e politici, ma anche segni di un conflitto metafisico, di una lotta più profonda e invisibile che si protrae nel tempo e nella memoria collettiva. In questo scenario lacerato, tra il ronzio insistente dei droni e il silenzio rotto delle sirene, si insinua una domanda che sfida la ragione e si spinge fino ai confini del sacro: e se la devastazione che stiamo vivendo fosse il segno di un ritorno degli Elohim?
Il termine “Elohim”, nella tradizione ebraica biblica, è un nome plurale che designa Dio in una forma che ha generato nei secoli molteplici interpretazioni. La sua origine è ambigua e misteriosa: da un lato può essere inteso come “plurale maiestatis”, una forma di rispetto che amplifica la grandezza e la maestà divina; dall’altro, come testimonianza di un’originaria concezione politeista e animistica, in cui forze superiori multiple – gli dèi – interagivano con il mondo umano, guidandolo, punendolo, abbandonandolo.
Questa duplicità si riflette anche nella letteratura apocrifa, gnostica e mistica, dove gli Elohim non sono semplicemente creatori benigni, ma entità ambigue, talvolta dominatrici e persino opprimenti. Nella cultura popolare e in teorie più speculative, come quelle di Erich von Däniken, gli Elohim vengono persino reinterpretati come esseri extraterrestri, ipotetici manipolatori della storia umana.
Al di là delle speculazioni, il motivo per cui gli Elohim tornano a farsi sentire nel discorso umano proprio nei momenti di crisi estrema è significativo. Quando l’umanità tocca il fondo, quando il senso sembra dissolversi, quando la speranza si fa esile, si riapre il bisogno di chiedersi: chi ci guida? Chi ci giudica? Chi ci redime? L’Elohim, nella sua pluralità e ambiguità, rappresenta forse proprio questo nodo irrisolto tra potere divino, giustizia e destino.
Gaza oggi appare come un simbolo potente e tragico di questa riflessione escatologica. Quel lembo di terra martoriato richiama l’immagine di un anti-Eden, un luogo dove il soffio divino sembra essersi ritirato e il caos primordiale si è ripresentato, reiterandosi come un’oscura profezia. Qui la distruzione non è solo fisica, ma simbolica: è l’annientamento dell’ordine creato, della speranza, della dignità umana.
In questo contesto sorge la domanda inquietante: se gli Elohim dovessero tornare, quale volto assumerebbero? Sarebbero redentori, portatori di un nuovo inizio, o giudici severi, destinati a condannare l’umanità per la sua arroganza e violenza?
Questa domanda richiama immediatamente una delle più famose riflessioni filosofiche sul destino di Dio nella modernità: Friedrich Nietzsche e la sua celebre formula della “morte di Dio”. Nietzsche descrive la scomparsa della fede tradizionale come un momento di liberazione, ma anche di vertigine. Nel vuoto lasciato da Dio, tutto diventa possibile – sia il bene che il male, ma soprattutto il male assoluto. Gaza è forse la cartina di tornasole di questo abisso: un luogo in cui l’assenza di Dio si traduce in una realtà caotica, priva di bussola morale, senza Logos.
Eppure, proprio nella dimensione del vuoto e dell’assenza si nasconde una possibilità profonda. La mistica ebraica insegna il concetto di Tzimtzum, il ritiro volontario e misterioso di Dio per lasciare spazio alla libertà dell’uomo. È in questo spazio di “niente” che può emergere l’umano e che si consuma la tensione tra libertà e responsabilità.
Se Gaza è un luogo di distruzione cosmica, allora quella distruzione può essere anche un grido, un appello che chiede il ritorno di Dio o almeno di ciò che ne rappresenta la presenza: la giustizia, il sacro, la misericordia incarnata. Il “ritorno degli Elohim” potrebbe non essere un evento miracoloso o soprannaturale, ma un cambiamento ontologico, una riscoperta di quei valori profondi che ci rendono umani e capaci di resistere al male.
Se accettiamo questa lettura, Gaza si trasforma allora in una nuova Betlemme – non quella della nascita di Cristo, ma il luogo simbolico di un parto doloroso, di una rinascita possibile. Non si tratta di guardare a Dio nelle nuvole o in figure divine astratte, ma di cercarlo nel volto umano, nella coscienza collettiva, nella solidarietà che riesce a fiorire anche tra le macerie.
Emmanuel Levinas e Jacques Derrida ci insegnano che Dio può essere riconosciuto nel volto dell’altro, nel volto di chi soffre e chiede aiuto. Ogni bambino che muore a Gaza è un Elohim che muore, ogni madre che piange è una preghiera vivente. Il ritorno degli Elohim è quindi un processo che si compie nella resistenza alla disumanizzazione, nei piccoli gesti di cura, nella volontà di non cedere alla violenza come destino inevitabile.
Nel silenzio delle notti di Gaza, tra il fragore delle sirene e il silenzio assordante dei luoghi sacri, si insinua una domanda che riguarda tutta l’umanità: quale Dio stiamo evocando con le nostre scelte, con le nostre armi? Se gli Elohim stanno davvero tornando, lo fanno per salvare o per giudicare?
Questa riflessione ci pone di fronte a una scelta radicale: essere creatori di pace, riflesso di una divinità che costruisce e ama, o perpetuare la decadenza e la distruzione. La teologia ci ammonisce: Dio non torna mai come lo immaginiamo, e la filosofia ricorda che l’eterno ritorno è una responsabilità e non una ricompensa. Gaza non è più solo un luogo geografico, ma il volto ferito della nostra coscienza collettiva, sospesa tra redenzione e giustizia.
Per comprendere fino in fondo il dramma contemporaneo di Gaza e il senso del “ritorno degli Elohim” come simbolo, è utile collocare questa riflessione all’interno della storia più ampia del rapporto tra religione, società e potere, con particolare attenzione al Cristianesimo e alla sua evoluzione.
Sin dalle origini, il Cristianesimo introduce un elemento di originalità nel modo in cui il religioso si rapporta con il potere politico. Il famoso insegnamento di Gesù “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mc 12,17) stabilisce una distinzione importante, seppure non priva di ambiguità, tra l’autorità terrena e quella spirituale.
Nei primi secoli, i cristiani spesso si tengono lontani dalla polis romana, rifiutando la partecipazione alle pratiche pagane e all’idolatria, ma mostrando allo stesso tempo un forte senso di responsabilità etica e sociale. Questo atteggiamento genera sospetti e persecuzioni, ma anche una forma di testimonianza che afferma la dignità umana e la solidarietà come valori fondativi.
La Lettera a Diogneto, testo fondamentale di quel periodo, descrive i cristiani come “anima nel mondo”, capaci di convivere con gli altri pur mantenendo una identità distinta, fondata su una concezione radicale di fraternità e condivisione, superando le barriere sociali e culturali. Questa esperienza anticipa il modello di società plurale e inclusiva che ancora oggi rappresenta un ideale.
Con l’avvento di Costantino e la fine delle persecuzioni, la Chiesa passa da essere una minoranza perseguitata a religione ufficiale dell’Impero romano. Questa trasformazione segna l’inizio di un complesso rapporto di compromesso tra potere spirituale e temporale, che durerà per secoli.
La Chiesa diventa istituzione con funzioni di governo e amministrazione, intrecciando il suo destino con quello dei poteri politici. Questo processo è segnato da tensioni interne e da critiche – come quelle di Ilario di Poitiers – che denunciano i rischi di compromissione morale derivanti dall’accumulo di ricchezza e potere temporale.
Tra il V e l’XI secolo, la Chiesa assume ruoli di governo concreti in un’Europa frammentata e vulnerabile. La separazione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio si fa spesso sfumata, dando luogo a conflitti di autorità e crisi di legittimità.
Questa epoca, pur con i suoi limiti, è anche un momento di grande fioritura culturale e spirituale. Le università nascono, le arti si sviluppano, la teologia si struttura come disciplina. Tuttavia, la convivenza difficile tra potere spirituale e temporale genera tensioni che sfoceranno nella Riforma e nelle rivoluzioni moderne.
La Riforma protestante e le guerre di religione in Europa portano a una nuova consapevolezza della necessità di distinguere i diversi ambiti della vita umana. La scienza, la politica e la morale cominciano a rivendicare la loro autonomia dalla verità rivelata e dall’autorità ecclesiastica.
Nasce così il principio della laicità, intesa come separazione tra Stato e Chiesa, che tuttavia si realizza in modo diverso a seconda dei contesti nazionali. In Francia la laicità diventa una rigorosa esclusione della religione dalla vita pubblica, mentre in Italia e Spagna il cattolicesimo mantiene un ruolo più influente e controverso.
L’attualità di Gaza e la sua drammaticità ci riportano anche all’essenza più universale e condivisa della condizione umana: il riconoscimento dei diritti, della libertà e della dignità come fondamenti imprescindibili.
Già nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 si afferma con forza che “gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti” e che “le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune”. Questo principio è stato rafforzato dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, che sottolinea come tutti gli esseri umani siano dotati di ragione e coscienza e debbano agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.
Anche il magistero cattolico, con il Concilio Vaticano II e documenti come Gaudium et Spes (1965), ribadisce la fondamentale uguaglianza tra tutti gli uomini, creati a immagine di Dio e redenti da Cristo, con una vocazione comune e un destino divino condiviso.
Questi principi universali rappresentano il terreno etico su cui si gioca la sfida di Gaza: una terra dove la negazione di questi diritti fondamentali si traduce in una violazione tragica e quotidiana della dignità umana.
Gaza non è più solo una regione geografica contesa, ma diventa il volto stesso della nostra coscienza collettiva, ferita e lacerata. Qui si intrecciano mito, teologia, filosofia e politica, dando forma a un racconto complesso e doloroso che chiama ogni persona a confrontarsi con le proprie responsabilità e speranze.
Il ritorno degli Elohim, più che un evento soprannaturale, può essere letto come la chiamata a riscoprire il sacro dentro di noi, a rialzare la domanda sul senso, sulla giustizia e sull’umano, a cercare nel volto dell’altro la presenza del divino.
L’umanità è posta davanti a una scelta cruciale: essere creatrice di pace e speranza, o perpetuare un ciclo di violenza e distruzione. La storia ci ha insegnato che la separazione tra sacro e profano, tra fede e politica, è delicata e complessa, ma indispensabile per costruire una convivenza autentica e giusta. Alla fine, Gaza ci sfida a guardare dentro di noi, a rispondere al dolore con l’amore, alla distruzione con la ricostruzione, alla disperazione con la solidarietà. E forse solo così il ritorno degli Elohim sarà quello della salvezza, e non del giudizio.