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Gorbacev e il Dispositivo del Potere

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura Agostino Agamben

Dall’URSS alla Russia di Putin e all’Ucraina

Una riflessione figura di Mikhail Gorbacev come soglia tra la fine della sovranità novecentesca e l’ascesa della governance neoliberale globale, attraverso il crollo dell’URSS, la mutazione della soggettività politica, l’emergere del management come nuova forma di dominio e la crisi irrisolta che esplode oggi nella guerra in Ucraina.

Nel momento in cui un ordine si sfalda, non sono i soggetti a inaugurare l’epoca successiva, ma i dispositivi che li attraversano. L’azione, in tale frangente, non è mai pienamente attribuibile all’intenzionalità individuale, ma si colloca in quella zona grigia in cui l’umano diviene interfaccia di processi anonimi, impersonali, strutturali. Gorbacev non fu il riformatore di un impero, ma il catalizzatore di una crisi ontologica del potere sovrano. La sua figura non rappresenta tanto un protagonista quanto una soglia: quella attraverso cui il moderno si scopre incapace di riformarsi senza autodistruggersi.

Con Gorbacev, la politica si dischiude in tutta la sua paradossalità: tentare di riformare il potere senza più credere nel potere. La glasnost e la perestrojka non sono politiche in senso classico, ma dispositivi di disattivazione, sospensione, apertura. In esse risuona l’eco di una volontà di sospendere l’efficacia dell’ordine vigente senza necessariamente sostituirlo. È in questo gesto – apparentemente debole, ma filosoficamente radicale – che si intravede la forza di un’altra forma del potere: non più comando, ma possibilità; non più controllo, ma uso.

Agamben ha insegnato che ogni dispositivo produce soggettività. L’homo sovieticus fu il prodotto più riuscito del potere sovietico, non tanto nella sua efficacia produttiva, quanto nella sua interiorizzazione della norma. La fabbrica, il partito, il sindacato, il piano quinquennale: ogni elemento dell’architettura sovietica era, in fondo, un laboratorio di produzione antropologica. Con la crisi del modello, ciò che si frantuma non è soltanto il potere statale, ma il tipo umano che lo rendeva operativo.

Nel collasso dell’Unione Sovietica, la vera tragedia non è la perdita del territorio, ma la crisi di soggettivazione. Il soggetto post-sovietico si ritrova esposto, spogliato, gettato nella nuda vita. Le categorie precedenti – classe, popolo, lavoratore, compagno – si dissolvono. Ciò che resta è un individuo senza protezione simbolica, esposto al mercato come unica forma di riconoscimento. La biopolitica non viene meno, ma muta volto: dalla disciplina collettiva al self-management individuale. Non più pianificazione centralizzata, ma libertà neoliberale, ovvero obbligo di competizione.

Gorbacev, in questo quadro, appare come l’ultimo uomo politico e il primo manager dell’epoca globale. Le sue decisioni, spesso lette come debolezze, sono invece i sintomi di un passaggio strutturale: quello dalla sovranità statuale alla governance economico-finanziaria. La dissoluzione dell’URSS non apre a un nuovo ordine politico, ma alla dominanza dell’economico sul politico. È l’inizio di una fase in cui la democrazia cede il passo alla gestione, il dibattito alla consulenza, la volontà generale alla performance.

Non è un caso che la Russia post-sovietica non abbia conosciuto una reale fase democratica. Il breve interregno di Eltsin non fu un’apertura ma un reset sistemico, una privatizzazione della sovranità. Il potere non fu redistribuito, ma ricollocato: dalle mani del partito a quelle degli oligarchi. Questi non sono semplicemente capitalisti, ma figure liminari, operatori della transizione, incaricati di gestire lo smantellamento di un dispositivo ormai disattivato. Il manager diventa così il nuovo soggetto sovrano, ma la sua sovranità è puramente funzionale: non decide, ma ottimizza.

Nel pensiero agambeniano, il potere si mostra nella sua forma più pura quando si ritrae. La sospensione della legge, lo stato di eccezione, il campo, il dispositivo: questi sono i luoghi in cui il potere si manifesta nella sua nudità. In questo senso, la Russia post-Gorbacev è un caso esemplare. L’architettura formale dello Stato è mantenuta, ma la sua sostanza è svuotata. Il potere agisce, ma non si dichiara. Governa, ma non rappresenta. In tale contesto, Putin emerge non come restauratore dell’ordine sovietico, ma come gestore del caos sistemico.

La governance putiniana non è il ritorno del totalitarismo, ma la sua evoluzione postmoderna. Essa unisce dispositivi di controllo verticale con una narrazione nazionale mitopoietica. Il potere si esercita attraverso la soft surveillance, la propaganda algoritmica, la redistribuzione selettiva. Ma al fondo, resta la stessa logica: la produzione di soggettività governabili, adattabili, addomesticate. L’ideologia è sostituita dal marketing identitario. La forza non è più nell’utopia, ma nella gestione della nostalgia.

In questo scenario, la guerra in Ucraina assume un significato che va ben oltre la geopolitica. Essa rappresenta il ritorno della sovranità armata come teatro simbolico della crisi globale. Laddove il sistema neoliberale mostra la sua impotenza nel gestire la molteplicità, si assiste al ritorno del paradigma della forza come strumento di visibilità politica. La guerra non è tanto uno scontro tra Stati, quanto un tentativo di riattivazione del potere nella forma della decisione, dopo decenni di governance priva di centro.

Tuttavia, questo ritorno della sovranità è fittizio. È uno spettacolo, un sintomo, non una soluzione. Come nella logica dello stato di eccezione, la guerra viene dichiarata per mantenere l’ordine, ma in realtà ne svela il fallimento. Il conflitto russo-ucraino diventa così un campo in cui si sperimenta il limite del potere contemporaneo: né l’Occidente, con la sua economia della finanza, né la Russia, con il suo nazionalismo militare, riescono a offrire una forma di soggettività condivisibile.

L’Ucraina stessa è il luogo della frattura. Non solo geopolitica, ma ontologica. È qui che si manifesta il corto circuito tra dispositivo economico e dispositivo politico. L’Occidente vi proietta le sue aspettative di liberalizzazione e democratizzazione; la Russia vi inscena il ritorno della grandezza imperiale. Ma entrambe le letture falliscono, perché ignorano la realtà materiale e simbolica di un popolo che non può scegliere tra due ordini già falliti.

Gorbacev, con la sua apparente impotenza, ha indicato una terza via: non il dominio del mercato né il ritorno dello Stato, ma un campo di possibilità ancora inedito. Le sue riforme non furono strumenti, ma sospensioni. Non impose un nuovo ordine, ma aprì lo spazio per una nuova politica del possibile. È questa la sua eredità più radicale e incompresa: aver mostrato che il potere può essere sospeso, che il dispositivo può essere disattivato, che la macchina può essere resa inoperosa.

Nella managerialità contemporanea, questo gesto trova un’eco ambivalente. Il manager oggi è investito di un potere immenso, ma anonimo. Egli decide sulla vita dei lavoratori, sulla distribuzione del reddito, sulla configurazione dei territori – ma non in nome di una comunità politica, bensì della redditività dei flussi. La sua autorità è postpolitica, ma i suoi effetti sono eminentemente politici. È in questa ambiguità che si gioca la sfida del nostro tempo: chi governa, e per conto di chi?

Il pensiero agambeniano ci ricorda che ogni potere si legittima nella sua capacità di produrre una forma di vita. Se il potere manageriale non è più capace di pensare la vita, ma solo di ottimizzare la performance, esso diventa un potere vuoto, privo di senso. Gorbacev, nel suo fallimento, ci mostra che ogni trasformazione deve partire dal pensiero – non per astrarre, ma per disattivare ciò che ci imprigiona. La tecnica, da sola, non basta. Occorre una nuova etica del potere, capace di interrogarsi sulle proprie condizioni di legittimità.

La dissoluzione dell’URSS, dunque, non è un capitolo chiuso della storia,

ma una frattura ancora aperta. Il mondo che ne è nato – fatto di emergenze gestite, crisi permanenti, algoritmi decisionali, finanza globale – è il prolungamento, non la soluzione, di quella crisi. La soglia attraversata da Gorbacev resta il nostro presente: un tempo in cui le forme del potere non coincidono più con le forme della vita. E finché questa distanza non sarà colmata, ogni governo sarà incompiuto, ogni soggettività parziale, ogni politica insufficiente.

Il compito del pensiero non è chiudere, ma tenere aperto. In questo, Gorbacev non è stato un uomo del passato, ma un pensatore senza tempo. Il suo gesto politico – fragile, incompiuto, intempestivo – ci obbliga a pensare ancora, e di nuovo, che cosa significa governare, che cosa significa vivere insieme, che cosa significa essere liberi in un’epoca in cui tutto è già stato previsto.

E forse è proprio in questo spazio di indeterminazione che può sorgere una nuova forma di politica: non più fondata sul dominio o sull’ordine, ma sulla capacità di abitare il disordine con responsabilità. Non più sovranità, ma uso; non più eccezione, ma esperienza.
Gorbacev, in fondo, non ci ha lasciato un’eredità da amministrare, ma un vuoto da comprendere. E nel comprendere quel vuoto, possiamo forse riscoprire la possibilità stessa della politica.

 

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