
“Harry Styles ”l’ultima notte del “Love On Tour”
Scritto da Davide Mengarelli il . Pubblicato in Cinema, Musica e Teatro.
a cura Davide Mengarelli
Oltre 100.000 cuori a Campovolo per celebrare la fine di un’era: il concerto finale di Harry Styles è diventato un manifesto d’amore, gratitudine e connessione umana.La sera del 22 luglio 2023, il cielo sopra la pianura reggiana si tingeva di oro liquido, mentre la RCF Arena di Campovolo si preparava a diventare la culla di uno degli eventi musicali più attesi e iconici degli ultimi anni. Non era solo l’ultima tappa di un tour: era l’epilogo emotivo di un viaggio lungo due anni, fatto di musica, sudore, abbracci e sogni. Era il “Final Show” di Harry Styles, il saluto momentaneo di un artista che nel tempo è diventato simbolo di un’intera generazione, un catalizzatore di emozioni, uno scrigno di autenticità in un mondo spesso fatto di plastica.
Più di 103.000 persone si erano date appuntamento a Reggio Emilia per partecipare a quello che sarebbe stato molto più di un concerto. C’erano giovani e adulti, amici venuti da lontano, famiglie intere, coppie innamorate e perfetti sconosciuti che in quella sera si sarebbero scoperti anime affini. Tutti lì per Harry, tutti lì per suggellare un’esperienza che aveva attraversato continenti, attraversato vite. Il “Love On Tour” aveva toccato il cuore del mondo con le sue 173 tappe e adesso, finalmente, si chiudeva in Italia. Un cerchio perfetto, un ritorno a casa, per un artista che ormai parla la nostra lingua – con i suoi accenti dolci, i suoi congiuntivi precisi – e che ha scelto proprio l’Italia per dirci “a presto”.
Mesi di attesa, organizzazione, countdown, messaggi infiniti in gruppi WhatsApp, scambi su Instagram, TikTok, dirette salvate e riviste, outfit scelti con cura, friendship bracelets intrecciati a mano, uno per ogni tappa, uno per ogni legame nato grazie a lui. Chat diventate rifugi quotidiani, confessionali digitali, dove nascevano legami reali tra persone unite dalla passione per l’arte di Harry Styles. In quell’arena non c’erano solo spettatori: c’erano amici, sorelle, fratelli dell’anima, comunità intere che si riconoscevano nei testi, nei sorrisi, negli occhi pieni di lacrime e felicità.
Quando le luci si sono abbassate e la prima nota di Daydreaming ha tagliato l’aria, un’onda emotiva ha travolto tutto. Il pubblico ha gridato, pianto, cantato con una voce sola. Harry Styles è apparso con la sicurezza di chi sa di essere al centro di un amore immenso, ma anche con la vulnerabilità di chi si prepara a salutare qualcosa che lo ha cambiato profondamente. “Buonasera Reggio Emilia. Benvenuti allo spettacolo finale!”, ha detto in italiano, tra sorrisi e commozione. “Perdona i miei errori nella tua lingua. Gli ultimi due anni della mia vita sono stati un regalo meraviglioso ed è molto speciale concludere il mio tour qui, in un Paese che ha un posto speciale nel mio cuore. Amo questo posto e la sua gente con tutto il mio cuore.”
Quelle parole hanno fatto vibrare l’arena. Non era solo per cortesia che Harry parlava in italiano: era il frutto di studio, di rispetto, di dedizione. Durante la pandemia aveva deciso di impararlo, e ora lo usava per comunicare in maniera autentica con chi, come gli italiani, gli aveva regalato una parte della propria anima.
Poi il ringraziamento: sentito, personale, diretto. “So che mi ricorderò questa serata per tutta la vita. Grazie per averne fatto parte, grazie per avermi ascoltato e per essere stati dei meravigliosi amici. Tante belle cose. Grazie mille, buonanotte. Sono molto felice, sempre.” Ogni parola era una carezza. Ogni pausa, un invito a respirare insieme. Harry sul palco si è fatto umano, vulnerabile, riconoscente. Non dimentica mai chi lo ha aiutato a diventare ciò che è.
Tra il pubblico c’erano sua madre, gli amici più stretti, le persone che avevano creduto in lui quando ancora non esisteva “Harry Styles solista”, ma solo un giovane sognatore con la voce di un dio e la timidezza di chi non ha ancora capito quanto vale. A loro ha rivolto un pensiero speciale, in inglese, carico di emozione. “There are so many people here tonight who are incredibly important to me. I wouldn’t be on this stage without their love and support. Especially my mother—thank you for the way you’ve supported me these past thirteen years, for loving me the way you do.”
Poi ha nominato la band: la sua “Love Band”, un gruppo coeso, complice, affiatato. “È la mia band preferita al mondo,” ha detto, sorridendo. Ma non solo: ha voluto ringraziare tutto lo staff, le decine e decine di persone che ogni sera montavano, smontavano, coordinavano luci, audio, sicurezza, comunicazione. “Sono stato in tour per dodici anni nella mia vita e questo è il più grande gruppo di persone con cui io abbia mai lavorato. Questo tour ha avuto 173 spettacoli. Fatevi sentire per le persone che l’hanno reso possibile ogni volta.”
E mentre il pubblico applaudiva, urlava, piangeva, la musica proseguiva come un fiume in piena. Golden, Adore You, Keep Driving, Daylight… ogni brano era un piccolo tempio, un momento sacro. Con Stockholm Syndrome Harry ha teso un ponte verso i suoi anni nei One Direction, riconoscendo le proprie radici senza nostalgia, ma con affetto. E ancora She, Little Freak, Matilda: canzoni che si muovevano leggere tra le emozioni, lasciando scie luminose negli occhi e nei cuori.
Il momento più intenso è arrivato quando Harry si è seduto al pianoforte. Nessuna parola. Solo il buio, il silenzio, e poi una melodia nuova. Una composizione inedita, struggente, lunghissima. Dieci minuti di pura poesia strumentale. Un regalo per l’Italia, un saluto dolce, quasi un addio sospeso, come una lettera d’amore senza destinatario. Tutto si è fermato. Non c’era più tempo, non c’era più spazio. Solo quella musica, il suo corpo in controluce, le sue dita che danzavano sui tasti, le lacrime del pubblico. Un momento che non tornerà, ma che resterà per sempre incastonato nella memoria di chi c’era.
Poi, l’energia è tornata potente: Satellite, Late Night Talking, Cinema. Con Treat People With Kindness, l’arena è diventata una gigantesca pista da ballo, dove ogni corpo si muoveva in armonia con gli altri, dove la gentilezza non era solo un invito, ma un fatto. Una realtà. La canzone era diventata una filosofia. Un codice morale. Una promessa.
E i classici dei One Direction? Sono arrivati. Best Song Ever, finalmente cantata per intero, ha fatto saltare la folla. What Makes You Beautiful ha riportato tutti indietro nel tempo, a quella prima volta in cui si sono innamorati di Harry, del suo sorriso storto, della sua voce calda. Poi è stata la volta di Grapejuice e Watermelon Sugar: brani freschi, leggeri, perfetti per una notte d’estate.
E ancora, il momento più atteso: As It Was. L’arena è esplosa in un unico grido: Leave America!, lo slogan che le fans europee hanno trasformato in un mantra affettuoso, quasi un richiamo a restare vicino. Dopo, Medicine, l’irrinunciabile, l’inaspettata. La canzone che non esiste ufficialmente, mai incisa, ma conosciuta a memoria. Quando l’ha intonata, il pubblico è impazzito: era come ascoltare un segreto sussurrato finalmente ad alta voce.
E poi Kiwi, l’urlo finale. Le luci impazzite, la chitarra che ruggisce, la voce che si fa fuoco. Un’esplosione catartica, il momento della liberazione. Balli sfrenati, lacrime e risate insieme. Nessuno voleva che finisse, eppure tutti sapevano che stava finendo.
E allora i fuochi d’artificio. Giganteschi, colorati, sincronizzati con le note di Sign of The Times. Era la chiusura perfetta, quella che ti spezza e ti cura allo stesso tempo. La notte diventava giorno, il cielo si incendiava, e tra
i coriandoli dorati c’era un unico pensiero che rimbalzava da cuore a cuore: “Grazie, Harry”.
Grazie per averci dato due anni di tour. Per averci insegnato che si può essere gentili e forti. Che la vulnerabilità non è una debolezza, ma un superpotere. Che l’amore non ha confini, né forma fissa. Che ballare, piangere e urlare può essere un atto di resistenza. Che essere se stessi è l’unico modo per essere felici.
Il “Final Show” non è stata solo la chiusura di un tour. È stata la celebrazione di una comunità, di un movimento, di una generazione che si è riconosciuta in un artista capace di guardare negli occhi ognuno dei suoi fan. È stato un arrivederci, non un addio. Perché lo sappiamo, lui tornerà. E noi saremo lì, ad aspettarlo. Con i braccialetti al polso, le mani pronte ad applaudire e il cuore aperto, come sempre.