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Il cuore spezzato dell’Asia Centrale

Scritto da Ottavia Scorpati il . Pubblicato in .

                                                                                                                                                                        A cura di Ottavia Scorpati 

Dopo il ritorno dei talebani, una crisi umanitaria, sociale ed economica senza precedenti che mette a rischio il futuro di un intero popolo.

L’Afghanistan continua a essere uno dei Paesi più tormentati del mondo, teatro di una crisi complessa che coinvolge diritti umani, economia e geopolitica. Vent’anni dopo l’intervento occidentale e il ritiro delle truppe nel 2021, il ritorno al potere dei talebani ha segnato un drastico arretramento nelle conquiste sociali, soprattutto per le donne, e ha aggravato una situazione economica ormai al collasso. L’isolamento internazionale e le sanzioni, pur concepite per punire il regime, colpiscono duramente la popolazione civile, mentre potenze regionali cercano di esercitare la propria influenza in un fragile equilibrio. In questo contesto, emerge una silenziosa ma tenace resistenza di donne e giovani che custodiscono la speranza di un futuro migliore.

Afghanistan: un territorio che continua a vivere una delle crisi più profonde e complesse del nostro tempo, una ferita aperta nel cuore dell’Asia Centrale che racconta di un Paese abbandonato a se stesso, vittima di una guerra dimenticata e di un isolamento internazionale che rischia di precipitarlo in un baratro senza fine. Dopo vent’anni di presenza occidentale, culminati nel ritiro delle truppe statunitensi e NATO nell’agosto 2021, l’Afghanistan ha assistito al ritorno al potere dei talebani, una formazione integralista che ha imposto con durezza un regime autoritario basato su una visione estremista e retrograda della legge islamica. Questo ritorno non è stato semplicemente una ripresa del potere, ma una cancellazione sistematica delle conquiste sociali, politiche ed economiche raggiunte nei due decenni precedenti, con conseguenze devastanti per l’intera popolazione.

Il regime talebano, che fino a quel momento si era presentato come moderato o più pragmatico, ha rapidamente imposto una stretta autoritaria senza precedenti. In particolare, la popolazione femminile è stata brutalmente esclusa dalla vita pubblica. Le donne sono state cancellate dallo spazio lavorativo, con la chiusura delle ONG femminili e la proibizione per le donne di lavorare in molti settori, specialmente quelli che coinvolgevano contatti con uomini. Le ragazze sono state escluse dalle scuole superiori e dalle università, costrette a rimanere in casa, obbligate a coprirsi completamente con il burqa e a non uscire senza un accompagnatore maschile. Questa forma di segregazione non ha solo un impatto immediato sulla vita quotidiana, ma distrugge le basi stesse per un futuro migliore, privando metà della popolazione di diritti fondamentali come l’istruzione e la partecipazione sociale.

Le conseguenze sociali di questa esclusione sono devastanti e durature. La società afghana, che nei vent’anni precedenti aveva visto una crescente partecipazione femminile in diversi ambiti — dall’istruzione al lavoro, dalla politica alla cultura — si ritrova a fare un salto indietro di decenni. Questo non riguarda solo una questione di diritti umani, ma ha un impatto diretto sul tessuto economico e sociale. Secondo la Banca Mondiale, l’esclusione delle donne dal mercato del lavoro potrebbe costare all’Afghanistan oltre il 50% del suo potenziale di crescita economica nei prossimi dieci anni. Non è soltanto un danno economico, ma una perdita per l’intera società: le donne rappresentano metà della popolazione, e senza il loro contributo attivo, il Paese perde risorse umane vitali per la ricostruzione e lo sviluppo.

Questa regressione va di pari passo con un collasso economico senza precedenti. Prima del ritiro delle forze occidentali, l’Afghanistan dipendeva fortemente dagli aiuti esterni, che finanziavano fino al 75% del bilancio statale. Con la presa di potere talebana, gran parte di questi fondi sono stati congelati o sospesi, in particolare le riserve della banca centrale afghana, pari a circa 9 miliardi di dollari, bloccate all’estero. Questa decisione, presa per mettere pressione sul nuovo regime, ha avuto l’effetto collaterale di paralizzare l’economia e di spingere la popolazione in condizioni di estrema povertà. Il PIL del Paese è crollato di oltre il 30% in pochi anni, mentre l’inflazione ha raggiunto livelli incontrollabili.

Le banche hanno imposto restrizioni sui prelievi, i salari pubblici vengono pagati con mesi di ritardo o non vengono corrisposti affatto, e il settore agricolo, che rappresenta la spina dorsale dell’economia e il principale sostentamento per milioni di persone, è in crisi a causa di siccità sempre più severe e della mancanza di infrastrutture moderne. I contadini non riescono a coltivare i campi, i raccolti scarseggiano, e la fame si diffonde in molte aree rurali.

La crisi umanitaria in Afghanistan è tra le più gravi al mondo. Oltre il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, con oltre 28 milioni di persone — circa i due terzi della popolazione totale — che dipendono dall’assistenza umanitaria internazionale per sopravvivere. Questa dipendenza riguarda soprattutto i bambini, con tassi di malnutrizione acuta tra i più alti del mondo: centinaia di migliaia di piccoli rischiano la vita ogni anno per mancanza di cibo e cure mediche. Gli ospedali sono privi di farmaci essenziali, e le scuole sono spesso chiuse o frequentate da un numero limitato di studenti, soprattutto nelle zone rurali, dove la presenza talebana è più rigida.

Il regime talebano, inoltre, ha messo un bavaglio severo sulla libertà di stampa e di espressione. Prima del ritorno al potere dei talebani, in Afghanistan operavano centinaia di testate giornalistiche, radio e televisioni indipendenti, nonostante le difficoltà. Oggi più della metà di queste testate ha chiuso, e molti giornalisti hanno dovuto lasciare il Paese o lavorare nell’ombra, sotto minacce continue. La censura è totale, e ogni voce critica viene repressa con violenza. I social media, che erano diventati uno degli ultimi spazi di libertà, sono severamente monitorati e la diffusione di contenuti contrari al regime è punita con arresti o peggio.

La repressione non si limita alla stampa, ma colpisce in modo sistematico tutte le forme di dissenso politico e sociale. Non esistono più partiti politici, non ci sono spazi di dibattito pubblico, e qualsiasi forma di protesta pacifica viene rapidamente e duramente repressa. Inoltre, le minoranze etniche, in particolare gli hazara, una comunità sciita spesso discriminata, sono bersaglio di violenze e persecuzioni mirate. Questo clima di terrore e isolamento rende l’Afghanistan una delle società più chiuse e oppressive del pianeta, lontana anni luce dai valori di pluralismo e libertà che si vorrebbero promuovere.

Dal punto di vista geopolitico, l’Afghanistan si è trasformato in un campo di battaglia per le potenze regionali e globali, ognuna delle quali persegue i propri interessi strategici. La Cina, ad esempio, ha intensificato i suoi rapporti con il governo talebano, firmando accordi per lo sfruttamento delle ricchissime risorse minerarie del Paese. L’Afghanistan è infatti un vero e proprio scrigno di materie prime preziose e rare, come il litio, il rame, il cobalto e le terre rare, risorse fondamentali per la produzione di batterie, tecnologie avanzate e infrastrutture energetiche, settori strategici nella competizione globale tra potenze. La Cina, attraverso la sua ambiziosa Belt and Road Initiative, sta investendo miliardi in infrastrutture in Afghanistan in cambio di un accesso privilegiato a queste risorse, e lo fa senza porre condizioni sul rispetto dei diritti umani o sulla natura autoritaria del regime.

Parallelamente, la Russia continua a mantenere una presenza influente nella regione, pur non riconoscendo ufficialmente i talebani. Mosca vede l’Afghanistan come un elemento chiave per la sua strategia di influenza in Asia Centrale, un’area tradizionalmente legata all’ex Unione Sovietica, e cerca di mantenere rapporti pragmatica con Kabul per contrastare la presenza occidentale e i movimenti estremisti come l’ISIS-K. Anche l’Iran, pur essendo storicamente ostile ai talebani, adotta una politica ambigua, oscillando tra sanzioni e cooperazione tattica per evitare che l’instabilità si riversi lungo i propri confini e per proteggere le proprie minoranze sciite in Afghanistan.

Il Pakistan è probabilmente il più influente tra i Paesi vicini. Da sempre accusato di aver sostenuto i talebani durante la loro prima ascesa al potere negli anni ’90, Islamabad continua a mantenere un rapporto stretto e complesso con il regime. Il Pakistan esercita un controllo strategico sui flussi migratori e sulla sicurezza lungo la frontiera, e gioca un ruolo chiave nel bilanciare la presenza delle potenze regionali, anche attraverso attività di intelligence e di mediazione diplomatica.

Questa rete di relazioni crea un delicato equilibrio multipolare, in cui le potenze autoritarie e pragmatiche dell’Asia e del Medio Oriente competono con le democrazie occidentali, spesso indebolite da divisioni interne e da una crescente stanchezza verso interventi militari esterni. L’Occidente si trova così in una posizione paradossale: da un lato rifiuta di riconoscere formalmente il governo talebano, dall’altro mantiene canali di comunicazione e collaborazione, soprattutto per garantire almeno una minima assistenza umanitaria, necessaria per evitare una catastrofe umana ancora più grave.

Le sanzioni internazionali, i congelamenti delle riserve e l’isolamento diplomatico, sebbene concepiti per indebolire il regime, hanno spesso l’effetto di aggravare la situazione della popolazione civile, senza riuscire a intaccare il potere talebano, che si finanzia con vie alternative, spesso illecite, come il narcotraffico e i rapporti con gruppi jihadisti. Questa situazione crea un circolo vizioso di povertà, repressione e conflitto che rischia di durare a lungo, con effetti destabilizzanti anche per i Paesi vicini e per la sicurezza globale.

In questo scenario di disperazione e oscurantismo, emergono però segnali di speranza e resistenza. Nonostante la repressione, molte donne e giovani afghani stanno tentando di mantenere viva la cultura, l’istruzione e la voglia di cambiamento, spesso in clandestinità. Scuole segrete per ragazze si nascondono nelle case private, iniziative culturali e artistiche cercano di rompere il silenzio imposto dal regime, e la diaspora afghana in tutto il mondo svolge un ruolo fondamentale nel mantenere viva la memoria di un Afghanistan diverso e nel fare pressione a livello internazionale per il rispetto dei diritti umani.

Questa resistenza, sebbene fragile e spesso invisibile, rappresenta la vera forza nascosta dell’Afghanistan, la scintilla che potrebbe accendere un cambiamento futuro. Non è solo una questione locale, ma un monito globale: la situazione afghana mette in crisi la capacità della comunità internazionale di intervenire con coerenza e umanità, ponendo domande fondamentali su come affrontare le crisi di Paesi segnati da regimi autoritari e conflitti prolungati.

Ignorare Kabul significa accettare non solo la regressione di un’intera nazione, ma anche compromettere la stabilità di una regione cruciale dal punto di vista geopolitico e la credibilità stessa di un ordine mondiale fondato sui diritti umani, la giustizia e la cooperazione internazionale. La sfida è enorme: è necessario un nuovo approccio che unisca assistenza umanitaria con un dialogo politico reale, una pressione internazionale mirata che non colpisca solo la popolazione civile, e un coinvolgimento diretto della società civile afghana.

Solo così si potrà evitare che l’Afghanistan rimanga una terra dimenticata, condannata a una povertà senza fine e a un destino di violenza e isolamento. Solo così si potrà coltivare la speranza di un futuro in cui il Paese possa rinascere, diventare un attore stabile e positivo nella regione e contribuire a costruire un mondo più giusto, pacifico e inclusivo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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