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Il debito e la nuova liturgia del pagamento

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura Agostino Agamben

Dalle carte ai flussi istantanei, tra algoritmi e credito programmabile: come l’evoluzione dei pagamenti ridisegna la relazione tra economia, tempo e soggetto

In un tempo in cui il gesto stesso del pagamento si fa invisibile, privo di peso, sospeso nel nulla del tocco su uno schermo, ciò che è in gioco non è più soltanto la trasmissione di valore, ma la configurazione stessa dell’agire umano in relazione al tempo, allo spazio, e al concetto di debito. Che cos’è un pagamento, se non una forma rituale del compimento, un sigillo posto a suggello di un’interazione che si presume chiusa? E tuttavia, mai come oggi questa chiusura pare illusoria: ogni pagamento digitale è l’apertura a una nuova dipendenza, a una nuova forma di esposizione, a una nuova visibilità tecnica dell’uomo nell’ordine algoritmico.

Nel rapporto redatto da Boston Consulting Group, la crescita dei pagamenti nel periodo 2017-2022 è stata dell’8,3%, con un fatturato globale di 1,6 trilioni di dollari. Ma il futuro sembra già appartenere a un tempo più lento: la previsione per il 2023-2027 parla di un rallentamento, un CAGR del 6,2%. Tuttavia, è nella natura stessa della previsione economica – come nella profezia – un paradosso: anticipare il futuro lo modifica. Proiettare una cifra nel tempo è un’operazione che lo distorce, lo cattura, lo istituisce come possibilità, più che come necessità. È questo il destino della finanza: prevedere ciò che ancora non è, per far sì che esso divenga.

Ma ciò che preme non è tanto la cifra, quanto la struttura che essa rivela. Se il pagamento smette di essere un atto discreto e si fa flusso continuo, se il valore non si trasmette più per mediazione fisica, ma come segnale, allora ciò che si dissolve è il corpo stesso del denaro. Il passaggio dalle carte ai pagamenti da conto a conto – cosiddetti account-to-account – non è un semplice mutamento tecnologico, ma una trasformazione ontologica. La carta, nella sua materialità residua, conserva ancora un’eco della sovranità, un’ombra del comando emesso dalla banca centrale o dall’emittente; ma nel pagamento istantaneo da sistema a sistema, ciò che resta è solo l’evento, il tempo puro della transazione.

Un tempo che, per la sua immediatezza, esclude ogni forma di mediazione umana. L’uomo non è più l’agente, ma l’occasione del processo: egli attiva, ma non controlla. È lo stesso problema che si pone con l’adozione dell’intelligenza artificiale generativa nel mondo dei pagamenti: siamo ancora in grado di distinguere tra decisione e automatismo? Se un algoritmo decide che una transazione è sospetta, o che un credito deve essere negato, a chi appartiene il gesto del rifiuto?

È in questa ambiguità che si gioca il nuovo regime del pagamento: tra l’istante e il differito, tra il controllo e la delega, tra la visibilità e la sparizione. Il pagamento, come il rito, si configura sempre come una soglia: ma se il rito segnava un passaggio riconoscibile – dall’impuro al puro, dal profano al sacro – la transazione elettronica non è più una soglia, bensì un’interruzione dell’interruzione. Un tempo senza inizio né fine. Un puro flow.

Lo stesso rapporto segnala che le entrate legate alle transazioni cresceranno del 7,1% entro il 2027, ma con margini in calo. Qui si intravede un secondo paradosso: la crescita non è più sinonimo di profitto, ma solo di movimento. Ciò che si valuta non è la ricchezza, ma la velocità. Come nelle macchine di Aristotele, la cui perfezione era data dal movimento perpetuo, così il sistema dei pagamenti si struttura come una macchina desiderante che deve funzionare anche a vuoto, indipendentemente dal valore che trasporta.

È in questo contesto che si colloca il fenomeno delle valute digitali delle banche centrali (CBDC). Più del 90% degli istituti centrali, secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, sta sviluppando monete digitali. Ma il significato di questa cifra non è tecnico: esso è teologico. Se la moneta fiat tradizionale era una promessa fondata sulla fiducia e sul potere statale, la moneta digitale istituzionale è la promessa che non ha più bisogno di essere mantenuta, perché può essere programmata. È il denaro che obbedisce, che si autodistrugge se usato fuori dal contesto previsto. È il ritorno dell’arcaico nel cuore del moderno: il denaro come talismano, come oggetto magico.

Così, mentre le fintech – oltre 5.000 a livello globale – si fanno spazio tra le pieghe del sistema bancario, portando con sé promesse di efficienza e innovazione, ciò che si dissolve è l’identità stessa del soggetto economico. Il homo oeconomicus non è più l’individuo razionale, ma una funzione all’interno di una rete. Egli non decide, ma è deciso: dalle metriche, dai punteggi di credito, dalle linee di codice che ne definiscono l’accessibilità al denaro.

Nel frattempo, il campo si riconfigura: gli acquirer, cioè coloro che processano i pagamenti per i commercianti, vedranno una crescita annua del 6,9% fino al 2027. Ma gli emittenti, cioè le banche che forniscono carte e crediti, rallenteranno. Il messaggio è chiaro: non è più la concessione del credito a generare valore, ma l’organizzazione della sua circolazione. Non si tratta più di chi possiede il denaro, ma di chi ne orchestra il flusso.

In questo scenario, la crescita dei prestiti – +19% per i finalizzati, +15% per i personali – non è che una manifestazione della crisi. Prestare non significa più investire, ma contenere: il credito è il dispositivo attraverso cui si assorbe l’urto dell’instabilità sociale, si diluisce la domanda, si procrastina il conflitto. Ma a che prezzo? La forma Buy Now, Pay Later (BNPL), cresciuta del 78% in un anno, è l’incarnazione perfetta di un’economia della promessa differita. È il pagamento che viene dopo, ma il consumo che avviene ora: un’interruzione della causalità, un’anticipazione del godimento che chiede, silenziosamente, di essere pagata in un altro tempo.

Il credito si fa così tecnica del presente. Ma è un presente eternamente sospeso. La BCE, alzando i tassi d’interesse, cerca di regolare il battito di questo cuore artificiale. Ma ciò che traspare è il tentativo di governare l’ingovernabile: la spirale inflattiva, la crisi della casa, la fragilità del debito sovrano. I tassi aumentano, e con essi la pressione sulle famiglie, ma la domanda non cala: si sposta, si trasforma. È il mercato che si adatta, non la politica monetaria che regola.

A Sud, le richieste di mutui crescono del 53%, a Napoli del 126%. Cosa significa questa febbre immobiliare? Non è soltanto bisogno di casa: è desiderio di radicamento, ricerca di stabilità in un mondo che dissolve ogni legame. Eppure, anche qui, l’eccesso rivela la sua ombra: l’aumento del 31% degli importi medi richiesti nel Sud è sintomo di una realtà in cui l’accesso alla proprietà diventa sempre più oneroso, sempre più dipendente dal credito. Ci si indebita per avere un luogo, come un tempo ci si sposava per fondare un nome. Ma entrambi, nome e luogo, vacillano sotto il peso della mediazione finanziaria.

E tuttavia, nonostante tutto, i giovani – gli under 26 – chiedono più mutui. Forse non è incoscienza, ma disperazione lucida. Chiedere un mutuo in un tempo che non promette futuro è un atto di fede paradossale. È scommettere su un avvenire senza garanzie, su una stabilità costruita sul debito. E questo è forse il segno più profondo del nostro tempo: l’economia si fonda non più sulla produzione, ma sull’attesa. Attesa che il sistema non collassi, che la rata sia pagata, che l’algoritmo non neghi il prestito.

Nel frattempo, i prestiti personali crescono del 25% rispetto al mese precedente, e del 15% rispetto all’anno passato. Gli importi aumentano: +22% per i finalizzati, +12% per i personali. Eppure, questo aumento è senza gioia. Si tratta, piuttosto, di un’espansione della necessità, non del desiderio. Si chiede credito non per espandere la vita, ma per mantenerla. Il denaro serve a sopravvivere, non a vivere. Il debito non è più leva, ma zavorra.

Nel Nord Ovest, l’importo medio dei prestiti finalizzati cresce dell’84%, toccando 3.820 euro. È il prezzo di una necessità normalizzata. Anche qui, però, la logica si svela nel dettaglio: aumentano i prestiti per automobili – nuovi e usati – mentre calano quelli per elettrodomestici e telefoni. Il consumo si riconfigura come strategia, non come capriccio. Si consuma ciò che è necessario per mantenere la mobilità, non più per aggiornare il proprio status. È la crisi che educa.

E tuttavia, ciò che resta intatto – e forse incorruttibile – è il desiderio umano di scambio. Il gesto del dare in cambio, del restituire, del promettere: è in questo che il pagamento conserva ancora, malgrado tutto, una dimensione antropologica irriducibile. Anche nel clic dell’app, anche nel QR code, sopravvive – come una brace sotto la cenere – l’antico atto del dono e del contro-dono, del vincolo, della reciprocità.

E forse, proprio in questo sta la vera posta in gioco: non tanto nella crescita o nel rallentamento del settore dei pagamenti, non nei trilioni che scorrono ogni giorno tra un server e un wallet, ma nel modo in cui questi gesti minimi riconfigurano il nostro modo di abitare il mondo. Ogni pagamento è una scelta, una preferenza, una dichiarazione: non solo di potere d’acquisto, ma di relazione. Di ciò che si ritiene dovuto. Di ciò che si è disposti a restituire.

Nel mondo che viene, la moneta sarà programmabile, il credito sarà algoritmico, e il debito – forse – non sarà più vissuto come colpa, ma come condizione originaria. Ma resta da domandarsi se, in questo nuovo ordine, ci sarà ancora spazio per la grazia: per il dono senza ritorno, per il perdono del debito, per il gesto gratuito che non produce margine, ma senso.

Forse è questo che la finanza, nella sua ossessione per la crescita, dimentica: che ogni sistema si fonda non sul calcolo, ma sull’eccedenza. Non su ciò che è dovuto, ma su ciò che eccede

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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