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Il Dominio che abita il Quotidiano

Scritto da Ottavia Scorpati il . Pubblicato in .

A cura di Ottavia Scorpati

“la violenza sulle donne come struttura del mondo”

Oltre l’indignazione: perché la violenza contro le donne non è un’emergenza isolata, ma il sintomo di un ordine sociale da rifondare. Dall’Italia all’Iran, tra linguaggio, potere e geopolitica, serve una risposta strutturale che coinvolga uomini, istituzioni e generazioni.

Nel cuore della transizione digitale, mentre l’Europa corre verso obiettivi di sviluppo sostenibile e l’Occidente rivede le proprie politiche di sicurezza e crescita economica, la violenza contro le donne emerge come un nodo strutturale che trascende qualsiasi confine geografico, sociale o culturale. Non si tratta di un fenomeno sporadico o esotico, ma di una frattura sistemica che interessa tutte le società, dal più ricco al più povero, dal più avanzato al più autoritario. La violenza di genere è parte integrante del sistema che governa le nostre vite, radicata tanto nei meccanismi culturali quanto in quelli economici e politici.

Dati recenti, come quelli del Ministero dell’Interno italiano relativi al 2021, non fanno che confermare l’entità del problema: 289 omicidi volontari, di cui 116 vittime donne, 100 delle quali in contesti familiari o affettivi. Eppure, nonostante gli sforzi, le cifre rimangono stabili, segno di una paralisi piuttosto che di un progresso. Ogni numero, ogni vita spezzata è il fallimento di un sistema che si rifiuta di riconoscere la propria complicità. La violenza contro le donne non è solo una tragedia personale; è un sintomo di un malfunzionamento sociale che colpisce l’intera collettività.

Il costo economico di questo fenomeno è immenso. La violenza contro le donne ha un impatto diretto sul PIL, con miliardi di euro persi ogni anno in spese sanitarie, assistenza legale, supporto psicologico, perdita di produttività. Le donne che vivono nel timore di essere vittimizzate si ritirano dalla vita sociale, limitano la loro libertà, rinunciano a opportunità professionali. Il risultato? Un “economia della paura”, che sottrae risorse vitali e penalizza un’intera metà della popolazione. Le disuguaglianze strutturali, alimentate da questo sistema, sono incompatibili con qualsiasi visione di sostenibilità economica o sviluppo umano.

Ma la violenza di genere non riguarda solo il piano economico; è anche un fenomeno geopolitico. I regimi autoritari, come quello talebano in Afghanistan o quello iraniano, si nutrono della repressione delle donne come strumento di consolidamento del potere. In Afghanistan, le promesse di diritti umani fatte dalla comunità internazionale sono state tradite con la reclusione delle donne, negate di qualsiasi forma di autonomia. In Iran, la morte di Mahsa Amini ha scosso le fondamenta di un regime patriarcale, trasformando il corpo femminile in un simbolo di resistenza e ribellione. Eppure, nonostante l’indignazione globale, questi regimi non sono una anomalia, ma il riflesso di un sistema che utilizza la violenza per mantenere il controllo, che considera le donne non come esseri umani ma come strumenti da manipolare a proprio piacimento.

Anche a livello geopolitico, la violenza di genere viene trascurata dai grandi attori internazionali. Cina e Russia, pur criticando l’Occidente per la sua presunta ipocrisia, non si preoccupano della sorte delle donne afghane o iraniane se non in funzione dei propri interessi economici e strategici. La Cina, in particolare, applica la dottrina della “non interferenza” anche quando si tratta di difendere i diritti fondamentali delle donne. La Russia, dal canto suo, usa la “difesa dei valori tradizionali” come strumento di propaganda, legittimando una visione patriarcale e repressiva della società. In Occidente, invece, la discussione si concentra spesso su questioni superficiali come la declinazione dei titoli professionali (sindaca, ministra, avvocata), ma il problema strutturale non trova mai una soluzione adeguata. La divisione ideologica e l’assenza di una visione strategica comune paralizzano l’azione politica.

In Italia, ad esempio, il dibattito sulla lingua riflette un’incapacità di affrontare la violenza strutturale contro le donne. Le polemiche sulla corretta declinazione femminile di cariche professionali come “sindaca” o “ministra” non sono una questione triviale. Rivelano una visione del mondo in cui il linguaggio stesso diventa uno strumento di invisibilità per le donne, un segno di una cultura che ancora non accetta la piena parità di genere. Dove le parole mancano, anche lo spazio per esistere si riduce, e la rappresentanza femminile rimane relegata ai margini.

Il cambiamento culturale non può essere demandato esclusivamente alle donne. Deve esserci una corresponsabilità maschile attiva e concreta, che inizia dalle relazioni quotidiane. Non basta evitare la violenza, bisogna diventare alleati. Uomini che ascoltano, che parlano, che denunciano. Uomini che insegnano ai figli a non confondere la forza con il dominio. La tecnologia, se inserita in un contesto relazionale sano, può essere uno strumento di protezione: il gesto del “Signal for Help”, un semplice movimento della mano per chiedere aiuto, è un esempio di come anche un atto apparentemente insignificante possa salvare una vita. Ma, affinché ciò avvenga, deve essere riconosciuto e diffuso come pratica comune.

Purtroppo, milioni di donne vivono ancora in una condizione di costante paura. Ogni giorno, valutano dove parcheggiare, a che ora rientrare, come vestirsi, con chi parlare. Ogni momento è un rischio calcolato, e a farne le spese è il loro diritto a vivere liberamente. Gli spazi pubblici, progettati principalmente per l’uomo, continuano a non rispondere alle esigenze di sicurezza femminile. Le panchine, le strade, i sottopassaggi, la scarsa illuminazione: tutto sembra pensato per garantire la sicurezza maschile, non quella femminile. È tempo di ripensare le città in una chiave inclusiva, dove la sicurezza di tutti e tutte sia al centro della progettazione.

La violenza non si consuma solo nelle strade o nelle case, ma anche nei messaggi quotidiani, nei social, nei luoghi di lavoro, nei banchi di scuola. Un cambiamento culturale profondo deve iniziare fin da piccoli, con un’educazione emotiva che coinvolga non solo i bambini ma anche le madri, le cui azioni sono determinanti nel rafforzare o nel decostruire i modelli di mascolinità tossica. È necessario un nuovo patto educativo, in cui la parola “forza” non significhi “non piangere” e il rispetto non venga confuso con il possesso.

C’è una generazione, quella Z, che sta cercando di cambiare le regole. I giovani parlano di consenso, sfidano gli stereotipi e costruiscono relazioni più orizzontali. È un capitale sociale che va riconosciuto e sostenuto. Non solo con slogan o campagne di sensibilizzazione, ma attraverso incentivi economici, riforme educative e modelli aziendali che premiano la parità di genere. Promuovere la parità non è un gesto ideologico, ma una strategia economica fondamentale per il futuro di qualsiasi paese.

Anche il giornalismo ha un ruolo centrale da giocare. I titoli morbosi che riducono la violenza contro le donne a un “raptus” o a una “relazione finita male” sono dannosi e ingannevoli. La violenza di genere non è un evento improvviso, ma un processo che cresce nel silenzio. Raccontarla con complessità, dando spazio alla dignità delle vittime e al contesto in cui si inserisce, è un passo fondamentale per comprendere la vera natura del problema e per non lasciare che ogni storia non raccontata diventi una possibilità perduta di cambiamento.

La violenza contro le donne non è una deviazione dal sistema; è una manifestazione visibile di quanto il sistema stesso sia fallace. E quel sistema va smontato e ricostruito. Non basta una legge spot o un’indignazione momentanea. Serve un progetto politico, economico e culturale che rimetta al centro la libertà, la sicurezza e la piena partecipazione di tutte e tutti. In gioco non c’è solo la vita delle donne, ma la tenuta del patto democratico, la qualità della nostra civiltà e la forza del nostro tessuto economico. Chi oggi guarda altrove è parte del problema. Chi agisce è già parte della soluzione.

 

 

 

 

 

 

 

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