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“Il Jazz che si insegna in Italia”

Scritto da Davide Mengarelli il . Pubblicato in .

a cura Davide Mengarelli

Dalle prime sperimentazioni didattiche ai corsi nei conservatori, dai seminari internazionali ai percorsi post-laurea: come l’Italia ha costruito un sistema formativo jazzistico originale, aperto al mondo ma radicato nel proprio tessuto culturale.La formazione jazz in Italia si intreccia continuamente con la storia musicale, culturale e sociale del paese, segnando tappe, protagonisti, istituzioni e innovazioni che hanno mutato profondamente l’approccio all’arte improvvisativa. Nasce a metà Novecento un nucleo di pionieri che percepiscono il jazz non come fenomeno folkloristico, ma come linguaggio da studiare, da decostruire, da rielaborare. I primi impulsi ufficiali si sviluppano nei conservatori: negli anni ’60 Roma, Milano, Palermo, Torino, Bologna iniziano ad accogliere corsi intorno alla cultura Jazz, anche se spesso ancora confinati in percorsi “accessori”. Gli insegnanti, spesso autodidatti o con esperienze professionali maturate direttamente sul palco, si confrontano con il gap teorico: come trasporre in istituzioni accademiche forme musicali che nascono dall’oralità, dalla pratica collettiva e dall’improvvisazione?

Il metodo didattico si struttura attorno a concetti essenziali: analisi armonica, ascolto, sviluppo delle abilità improvvisative, lettura, storia del jazz, ear training. L’orecchio diviene strumento centrale: ascoltare registrazioni di Davis, Coltrane, Parker, Monk significa interiorizzare melodie, fraseggi, dinamiche ritmiche. Si organizzano seminari, masterclass, clinic con ospiti internazionali: arriva da New York un trombettista come Roy Hargrove, un sassofonista come Joe Lovano; è l’incontro con la fonte originaria, diretta, viva. Si moltiplicano festival come Umbria Jazz, Siena Jazz, Clusone, Trentino in Jazz: veri e propri laboratori all’aperto in cui altissimi livelli artistici si fondono con la didattica, in jam session che coinvolgono giovani e maestri. Accade un cortocircuito creativo: il jazz si appropria del contesto italiano, delle sue tecniche e sensibilità, mentre l’Italia diventa teatro dove il linguaggio americano si proietta e trova nuove declinazioni.

Il ruolo delle istituzioni accademiche, soprattutto dal ’90 in poi, si consolida: nel ’90 nasce a Siena il primo biennio specialistico in jazz al Conservatorio Rinaldo Franci, riconosciuto dallo Stato; poi il Conservatorio di Milano segue con la sua offerta formativa, introducendo organico, big band, improvvisazione, storia orale. Questo dà dignità curricolare al jazz e apre le porte a fondi, a progetti europei Erasmus, a reti internazionali. Accanto alla filiera accademica, la formazione privata evolve: nascono scuole come l’Accademia Musicale Pescarese, la Civica Jazz del “Talon” a Milano, l’Estate di musica improvvisata di Parco della Musica a Roma. Tali realtà spesso anticipano i piani ufficiali, sperimentano metodi pratici, creano ambienti aperti all’esercizio quotidiano, al confronto diretto. Vi si aggiungono ensemble di insegnanti-praticanti che mettono in scena lavori originali, commissioni, brani scritti ex-novo da giovani compositori.

Accade il fenomeno delle masterclass itineranti: per un weekend si radunano decine di allievi attorno a figure internazionali – ad esempio Dave Liebman, Chico Freeman, Lenny White, Dave Holland – e si sperimentano workshop su temi specifici: poliritmie africane, improvvisazione modale, groove latino, pianoforte dialogico. Il formato accresce il valore formativo, stimola network: spesso da quelle occasioni nascono gruppi musicali, concerti, registrazioni. Il momentum formativo abbraccia anche l’ambito della ricerca: nascono tesi di laurea, dottorati legati al jazz, incentrati su ambiti storici o analitici – lo studio del bebop italiano degli anni ’50, la transizione dall’improvvisazione tradizionale alle forme d’avanguardia, la relazione tra jazz e musica elettronica, jazz e teatro, jazz e cinema. Si pubblicano libri che dintrozzano i conservatori: Antonio Fiore, Filippo Sciascia, Francesco Martinelli. Riviste specializzate come “Musica Jazz”, “Jazzit”, “Wide” iniziano a dedicare spazi ampi alla formazione stessa, criticano, documentano corsi, analizzano programmi, recensendo metodi didattici stranieri, pubblicando interviste a pedagoghi jazz. Dove un tempo si parlava solo di dischi e concerti, si discute ora di curricoli, crediti formativi, esami. Il jazz diventa materia di studio accademico.

Non bisogna dimenticare l’evoluzione tecnologica: dal ’95 in poi la diffusione del compact disc, poi del mp3, poi del digitale totale, consente agli allievi di ascoltare ovunque; la rete mette a disposizione milioni di registrazioni e, con gli anni Duemila, tutorial video, lezioni online: improvvisazione visualizzata, workshop su YouTube, trascrizioni accessibili, canali dedicati a scale, lick, backing track. Questo dà autonomia allo studio e favorisce l’incontro tra culture: un sassofonista milanese ascolta un concerto in afghano, un batterista palermitano studia groove brasiliani. Nasce una generazione di musicisti che ha una pluralità di orizzonti musicali, dove jazz, etnia, elettronica si fondono. I corsi si aggiornano: al tradizionale insieme di jazz si affiancano digital audio workstation, composizione elettronica, sound design, improvvisazione su loop e campioni, linguaggi contemporanei, musica da film.

Il territorio italiano diventa laboratorio: si studia jazz in Basilicata o in Calabria dove il folk incontra l’improvvisazione in sinergia; l’università di Siena converge verso il jazz composto e arrangiato per orchestre, in tandem con le big band americane; in Puglia, Napoli e Torino si studia una scena che fonde jazz, cantautorato, musica popolare, con ensemble ridotti, duo, trio, quartetto. Le performance accademiche diventano esperienze live: festival open‑air organizzano serate con gli ensemble dei conservatori, integrati a jazz club storici come il Blue Note Milano o il Cotton Club Roma. Accanto all’esperienza orchestrale nuova, si affermano progetti innovativi: workshop su improvvisazione libera, musica improvvisata contemporanea, incubatori per nuovi linguaggi.

Queste esperienze convergono in un dibattito: la formazione deve consistere solo in corsi tecnici e storici, oppure deve includere la prassi scenica, lo sviluppo del repertorio, l’inserimento in festival, la produzione discografica, la gestione professionale? In Italia si punta a realizzare una formazione integrale: ciò implica che all’interno dei curricoli si insegnino anche publishing, comunicazione, fundraising, produzione indipendente. Emergono nuove figure: i manager artistici diventano docenti di strategia; si organizzano percorsi su social media, etichette indipendenti, autoproduzione. Il network tra atenei, etichette e festival rappresenta un trampolino decisivo. Gli studenti producono album, realizzano tournée, lavorano in orchestre europee.

Cresce il settore dell’alta formazione post‑laurea: master in jazz con tematiche specialistiche – composizione per ensemble, direzione di big band, improvvisazione per ensemble sinfonici, crossover tra jazz e musica contemporanea. Si crea un’interfaccia europea grazie a Erasmus+, che permette soggiorni in Conservatoires britannici (Royal Conservatoire of Scotland, Royal Academy of Music), olandesi (Conservatorium van Amsterdam), tedeschi (HfMT di Colonia), scandinavi (Sibelius Academy). Storicamente, uno studente italiano poteva partire alla ricerca del savoir faire; ora arriva dall’estero grazie ai corsi italiani internazionali. Il prestigio cresce, si delinea una brand identity: la “generazione Siena” è riconosciuta per qualità compositiva raffinata e tecniche esecutive avanzate; le orchestre unite ai progetti di Milano, Palermo, Roma ottengono premi e partecipano a network UE. L’Italia fiorisce, offre glossy e valori. Il paradigma è evoluto: il giovane musicista italiano cresce in Italia e viaggia all’estero per condividere, esibire, collaborare.

Un altro ambito significativo è quello del jazz education nelle scuole secondarie: in alcuni licei musicali si inseriscono moduli jazz; nascono orchestre studentesche di jazz e workshop di improvvisazione all’interno del curricolo scolastico. L’esperienza formativa si espande: la creatività viene riconosciuta come competenza chiave, l’improvvisazione come modalità educativa che trasforma l’allievo in soggetto attivo, responsabile delle proprie decisioni armoniche, ritmiche, melodiche. Parallelamente, il jazz entra nelle attività extrascolastiche: orchestre giovanili, laboratori in quartieri, pubblici under 25, festival dedicati ai ragazzi. Si tratta di un fenomeno sociale: formazione diffusa, contaminazioni artistiche, integrazione, audace rottura delle distanze tra i territori e la capitale.

L’esperienza diretta degli studenti aumenta la qualità formativa: concorsi come “Premio Internazionale Massimo Urbani”, “Concorso nazionale Umbria Jazz Giovani” offrono vetrine con giurie di professionisti; certificazioni UE permettono riconoscimenti accademici e crediti; si espandono i workshop tematici su depositari di metodi – armonia avanzata alla Barry Harris, improvvisazione modale alla George Russell, poliritmie di Milford Graves. La didattica si apre ai grandi formatori contemporanei: arrivano Mark Turner, Kurt Rosenwinkel, Giovanni Hidalgo, Trilok Gurtu, che portano tecniche ritmiche e strutturali etniche. È un processo di decollo: l’arte si poggia su basi solide ma esplora nuovi confini sonori.

Negli ultimi dieci anni il jazz italiano ha sviluppato una ricchezza compositiva notevole: band come Mario Raja Trio, Enrico Rava Quintet, Danilo Rea Ensemble, piaceri impercettibili e stili riconoscibili, così da diventare case history virtuose all’interno degli istituti. I Conservatori pubblicano programmi di concerti: si autoproducono CD, si organizzano tournée in Europa, Cina, Stati Uniti, vengono coinvolti in progetti di rigenerazione urbana tramite musicisti diplomati con abilità improvvisative, compositive, di interazione con il pubblico. Lo strumento didattico si proietta nell’ecosistema culturale. Il musicista jazz diventa manager culturale, educatore sociale, divulgatore, coordinating body, ponte tra jazz e altre arti, apertura sociale.

Il jazz in Italia continua però ad affrontare criticità: risorse insufficienti, scarsa coordinazione tra istituzioni, differenze di qualità tra conservatori, inattualità programmatica in alcune sedi. Il dibattito punta all’armonizzazione: moduli minimi comuni, valenza dei docenti attivi, riconoscimento del ruolo della improv-visione, sostenere l’autonomia artistica. Un confronto istituzionale diretto coinvolge il MiC (Ministero della Cultura), il MIUR, le Regioni, le Università, che insieme cercano di costruire un framework nazionale europeo per la formazione jazz, prevedendo riconoscimenti di competenze, scambi, certificazione EQF, “European Qualification Framework”.

Queste misure si integrano con la dimensione professionale: la formazione prepara a un mercato del lavoro artigianale, flessibile, multi-professionale. Un musicista non diventa solo concertista, ma anche orchestratore, insegnante, produttore, curatore, manager. Le scuole prevedono stage in festival, affiancamento a artisti residenti, formazioni indipendenti, adv musicale, sincronizzazioni in audiovisivi. I percorsi formativi includono bisogno della multicanalità: streaming, social media, autoproduzione, crowdfunding; contesti di incrocio tra jazz e cinema, danza, teatro, poesia, arti visive. Si concretizza l’idea di un artista ibrido, mutante, resistente.

Da ultimo, il network europeo rafforza progetti congiunti: Erasmus + Jazz Envoys, Horizon Europe, Erasmus Mundus double masters, scambi con Berklee College of Music, Manhattan School of Music, conservatori spagnoli, finlandesi, portoghesi. Ciò pone l’Italia al centro di una rete formativa internazionale: i giovani studiano in Italia e possono collaborare poi con festival europei, New York, Tokyo, Shanghai. L’internazionalizzazione favorisce la circolazione dello stile italiano, che coniuga eleganza melodica, rigore armonico, curiosità etnica, capacità di improvvisazione viscerale. Anche i docenti italiani vivono spesso esperienze all’estero, portano metodi direttamente nelle sedi straniere.

La formazione jazz in Italia non è un argomento possibile da sintetizzare in poche righe, perché contiene dinamiche storiche, formative, istituzionali, culturali, sociali, economiche. È un crocevia di discipline, prospettive, modalità d’insegnamento, evoluzioni tecniche, educative e professionali. È un campo che mette al centro l’ascolto, il dialogo, la creatività, la partecipazione, la comunità, la contaminazione. È la dimostrazione che, in Italia, il linguaggio jazziano non è un “prodotto d’importazione”, ma un bene culturale autoctono, interpretato e trasformato secondo sensibilità mediterranea. È una scena formativa che guarda al futuro, consapevole delle radici e capace di reinventare continuamente i propri codici, reclutando energie nuove, intrecciando tradizioni, generando innovazione, investendo nella prossimità europea e globale.

 

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