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“Il Laboratorio del Potere tra Storia e Controllo dentro la Metamorfosi Globale”

Scritto da Danilo Pette il . Pubblicato in .

Dalla “ingegneria sociale” di Sartori alla biopolitica, fino alla “fine della storia” di Fukuyama

Un viaggio circolare che abbraccia il potere: dal corpo collettivo all’ideologia liberale, passando per le cinque “aree” d’influenza del Novecento, fino alla nuova contesa globale tra USA e Cina

È un viaggio che risuona nello snodarsi del tempo. Parte da Giovanni Sartori: “ingegneria sociale”, un concetto che suona freddo, misurato, quasi matematico, ma che si incastra in profondità nei circuiti del vivere collettivo. Sartori vede la società modellata come una materia duttile, plasmata da decisioni politiche, strutture mediatiche e interventi educativi; ci si ritrova immersi in un flusso che sembra programmatico, come se il senso comune fosse qualcosa su cui si intervenisse chirurgicamente, per correggere, orientare, governare. Quest’idea ci rimanda all’assetto del potere, alla sua capacità di insinuarsi con delicatezza — o con prepotenza — nei nervi della collettività.

Ad un tratto l’individuo non è autonomo, è imbottito di suggestioni.

Lì, in quell’oscurità misurata, appare Foucault, con la biopolitica: la vita umana come oggetto di governo, popolazioni sorvegliate, controllate, i corpi come terreno di disciplina e normalizzazione. È una danza sottile: si regola il vivente, si fa di esso materia politica, si orienta la salute, la sessualità, il lavoro, la morte. Si governa la vita stessa. È come se il potere avesse scoperto una capacità di mostrarsi invisibile, insidiosa, diffusa. Le regole diventano norme sane, i governi tecnici, le misure di prevenzione — normative — un tratto naturale. Non si lotta più contro la forza bruta, ma contro la quieta persuasione della vita plasmata.

E poi, d’un tratto, s’alza un vento straniero. Francis Fukuyama e la “fine della storia”: la tesi che il libero mercato e la democrazia liberale rappresentino la tappa ultima dell’evoluzione politica, l’approdo sicuro dopo la tempesta ideologica. Come se la storia, finalmente, si stendesse piana, finita la lotta, consumo e elezione come colonne della civiltà. L’uomo occidentale ha vinto, dice, la democrazia è ormai universale, il capitalismo globale la verità definitiva. Sì, scorre una frazione di sollievo: finalmente quiete, progresso, fine delle utopie. Ma quanta semplificazione in questa trama. Così, mentre Fukuyama chiude il cerchio, la narrazione politica sembra sospendersi.

E qui scivola il discorso nel Novecento, nei conflitti che hanno forgiato gli stati e definito assetti globali. Cinque aree, come cinque corti di un teatro:

  1. Europa, la culla dei totalitarismi e delle democrazie fragili, architrave della guerra fredda e dei mattoni ideologici.
  2. USA, faro del mondo libero, motore della globalizzazione, della finanza creata e della rete plasmata.
  3. Unione Sovietica / Russia, labirinto di ideologia e coercizione, bruciata dall’Urss, rinasce confusa ma capace di colpi di testa geopolitici.
  4. Cina, gigante nascente, cuore di tecno-liberismo statale, integrazione del mercato con il controllo: biopotere in salsa orizzontale e verticale insieme.
  5. India, democrazia caotica e in espansione, molti rivoli, tante lingue, potenzialmente gigante vulnerabile ma entusiasta.

Questa geografia è il palcoscenico del nostro presente. Si agitano al suo interno gli attori della modernità: lungo i confini, ogni tensione è un segnale. Qui, l’IA, intelligente e sottilmente invasiva, diventa l’elemento che ridisegna i rapporti.

Nel laboratorio statunitense, l’IA è strumento di egemonia: Silicon Valley che conduce la danza, governi che dispongono risorse, algoritmi che profilano. L’individuo non cede solo dati, cede attenzione, preferenze, futuro. Il sistema economico si flette, un invisibile regista plasma desideri. La profilazione non è più strumento di marketing: è architettura del consenso.

In Russia, l’IA non è solo strumento, è protezione e controllo. Social scoring? Filtro ideologico? Lo spettro degli algoritmi al servizio della difesa del potere. L’ossessione della sovranità tecnologica, della resilienza — è una risposta attiva all’accerchiamento occidentale. Si crea uno scudo digitale, un firewall geopolitico, un bastione algoritmico del potere esecutivo.

Cina: il sogno corporativo-statale. Il Partito Comunista ha trovato nell’IA il suo plusvalore del controllo, sorveglianza diffusa, misura del consenso, grandi dati per governare la folla. Non è solo mercato, non è solo autoritarismo: è regime 4.0. Il confine tra pubblico, privato e privato statale non c’è più. Ogni corpo è mappato, ogni gesto, ogni scelta. Il cittadino è al tempo stesso utente, consumatore, sorvegliato e produttore di consenso.

India, invece, è caos creativo. Qui l’IA è un viatico dell’inclusione, un’arma per superare carenze infrastrutturali, ma il digital divide è scuro e largo. Il discorso politico si frammenta, potenzialità enormi, resistenze plurali. IA è speranza, ma anche rischio di divario nuovo. L’infrastruttura corre ma non sempre arriva. Il sogno digitale è un sogno interrotto.

E l’Europa? Lì una crisi d’identità: protezionismi, ritorni populisti, difese della privacy. L’IA è tema divisivo: industria sì o no? Regole, etica, diritti. Nessuna direzione decisa, un’Europa in apnea mentre il mondo corre. La normazione senza innovazione rischia di diventare autoesclusione.

Tutto cambia, e l’IA è acceleratore di tensioni, catalizzatore di convergenze e dissoluzioni. Il discorso tra Sartori, Foucault e Fukuyama emerge come cronologia concettuale. L’uomo come oggetto modellabile, come corpo da regolare, come soggetto che ha (forse) raggiunto l’apogeo. Ma poi? L’IA spinge l’orizzonte oltre. Non solo ingegneria sociale, non solo biopolitica, non solo fine della storia: è l’inizio di una storia in cui le strutture semiriconosciute si trasformano in codici estesi, invisibili, onnipresenti.

In quel flusso tra le aree geopolitiche, si muovono spie invisibili: la sorveglianza bio-digitale; la democratizzazione dell’esclusione; l’espansione di algoritmi nei corpi; la frammentazione identitaria consegnata ai social e ai profili dati. Gli stati — USA, Russia, Cina, India — si fronteggiano in una partita meno frontale, più distillata: chi detiene i codici che governano la vita e decide cosa sarà umanamente conveniente, accettabile, visibile. L’IA diventa piattaforma estrema della biopolitica, ingegneria dell’umano, orizzonte di storia.

E allora quella fine della storia di Fukuyama sembra una porta chiusa prematuramente. Davanti, si spalanca una stanza piena di specchi: l’IA riflette, frammenta, amplifica. Non siamo al culmine, ma all’inversione inaspettata. Non fine, ma metamorfosi. Il passato — Sartori, Foucault, Fukuyama — serve da cornice, da galleggiamento, prima della deriva. Dopo, l’IA attraversa la vita come un virus silenzioso, e sovverte le categorie: cosa resta di libertà, di sovranità, di vita? Chi governa e cosa vogliamo governare?

©Danilo Pette

 

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