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Opportunità di crescita Italia-USA 2025

Il Rifugio del Dollaro

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura di Agostino Agamben

Come la guerra in Ucraina, l’insicurezza energetica e la crisi dell’euro hanno rafforzato la sovranità monetaria americana, trasformando il dollaro da semplice valuta a dispositivo globale di dominio e rifugio.

Quando pensiamo al denaro come al fluido che attraversa ogni interstizio del sociale, al dollaro come a un corpo che pulsa attraverso le vene del pianeta, la guerra ucraina non è soltanto un evento politico, un conflitto militare con fronti, trincee, armi, soldati, morti. È un dispositivo; è la manifestazione di una forma di vita economica che, nelle sue ossessioni e nelle sue paure, trova nelle crisi la sua linfa vitale. E il dollaro, la sua incarnazione più radicale: non più semplice moneta, ma figura della sovranità che non riposa mai, sempre pronta a fiorire nella distruzione, a proliferare nel caos.

Era il 27 agosto del 2022 alle 7:53 quando, come un sussurro basso ma insistente, veniva messo in luce ciò che già molti intuivano: l’euro perdeva terreno, lo spread tra divise si faceva senso, le politiche europee sembravano arretrare di fronte a un’inflazione che non era più solo economica ma ontologica, una trasformazione del modo in cui abitiamo il mondo. In quell’articolo il racconto era già chiaro: la guerra dell’energia, la crisi globale che si raccoglie attorno al gas e al petrolio; ma ciò che allora appariva emergente, oggi si è concretizzato, si è stratificato, ha mutato la forma dell’economia mondiale.

Quel tempo non era passato invano. La politica europea, frammentata, incerta, ha assistito allo smottamento di certezze fondamentali: la moneta unica, simbolo politico prima ancora che economico dell’unità, si è trovata isolata, esposta alla furia dei mercati, alla dialettica del timore, della fuga dei capitali, della ricerca dolorosa – urgente – di rifugio. Il dollaro, incastonato nella logica di ciò che possiamo chiamare «zona di immunità», ha beneficiato non di un incidente, ma di una tensione costitutiva: l’insicurezza come terreno di produzione di valore economico. L’euro, al contrario, come figura che tenta un’unità politica e morale, si è mostrato vulnerabile alla dispersione dei rischi, alla disarticolazione delle reti che sostengono la fiducia, al cedimento delle spine dorsali istituzionali.

Ricordate che il 1971 segnò la fine dell’ancoraggio dollaro‐oro; da allora l’era della finanza pura, senza limiti materiali se non quelli imposti dalla psicologia globale, è salita al potere. Ma non è il fatto stesso del debito, non è la cifra dei bilanci, non è solo la quantità che conta; è la forma con cui tale debito si configura nel sapere collettivo: come rischio, come possibilità, come attesa. E la guerra – la guerra in Ucraina – è diventata il veicolo attraverso cui questo sapere si rende visibile, palese: con la paura che l’energia manchi, con le bollette che diventino imprevedibili, con la prospettiva di un inverno freddo, oscuro, in cui l’incertezza diventa esperienza quotidiana.

Non si tratta soltanto di geografia politica, ma di geografia ontologica; non solo di stati, ma di soggetti che abitano stati di eccezione permanente. Quando i capitali fuggono verso i buoni del Tesoro americani, non è solo per la sicurezza economica (che pure c’è): è per il bisogno di un centro che non minacci la propria distruzione. È il bisogno di un orizzonte che garantisca continuità. Il dollaro non è più valuta nazionale o imperiale: è soggetto che reclama asilo per tutti.

L’“intransigenza” americana – parola che riecheggia, come se fosse una maschera dietro cui si nasconde una decisione più radicale – non è solo politica estera. È economia dell’eccezione. Quando Washington si mostra inflessibile, quando il suo sguardo si rivolge a Kiev e a Mosca con la durezza di chi sa che ogni cedimento può essere ambigua soglia verso un ordine un po’ diverso, un ordine in cui la supremazia del dollaro verrebbe messa in discussione, sta usando la guerra non come strumento secondario, ma come forma che plasma la visione del mondo. Non è questione di nazionalismi o geopolitica come nell’800 o nel Novecento: è questione di forme di vita che trovano nella conflittualità stessa la propria forma di essere.

Si parla di caro energia come causa, ma è l’effetto che mette in scena la causa: la compressione dei margini della vita quotidiana, l’angoscia del riscaldamento, il buio alle finestre, la bolletta che sale come una marea. E allora i capitali si ritirano, cercano rifugio, si raccolgono intorno al dollaro come attorno a un fuoco nel gelo. L’euro perde terreno, non solo per strategie finanziarie, non solo per politiche sbagliate, ma perché è diventato simbolo – per troppi – di una soglia infranta, di un’illusione di stabilità che non può reggere quando l’energia diventa arma, quando la guerra non è più periferia geopolitica ma nodo esistenziale.

Ciò che accade oggi non è solo conseguenza di un conflitto scatenato nel febbraio del 2022; è svilupparsi lento, viscerale, di una tensione preesistente: la moneta come esposizione. L’euro era già vulnerabile: per i suoi vincoli istituzionali, per la sua molteplicità linguistica, per la differenza tra Nord e Sud, per le paure che penetrano attraverso migrazioni e fragilità sociali. La guerra è stata l’accelerante: ha rotto, ha aperto le crepe, ha messo in crisi l’immateriale che sorregge la fiducia, assottigliando la densità della coesione politica europea.

Si può dire che il conflitto ucraino abbia operato come una macchina decisionale economica che seleziona: seleziona chi può esporsi al rischio, chi può accollarsi il prezzo dell’energia, chi può manovrare nei mercati dei cambi, chi può sopportare la pressione delle materie prime. L’America, in questa macchina, detiene ancora il presidio della sicurezza, del credito, dell’apparato della finanza internazionale; ed è in grado di trasformare il proprio indebitamento in moneta rifugio, il proprio deficit in principio generativo: produce valore nonostante tutto (o a causa di tutto). Mentre l’Europa – nella sua forma istituzionale esistente – sembra incapace di fungere da soggetto simile, da conciliatore stabile, da alternativa credibile.

L’euro che oggi scende sotto la parità non è solo numero in un grafico; è simbolo di qualcosa di più fondamentale: della perdita – lenta, a volte quasi impercettibile – di quella che Michel Foucault avrebbe chiamato «governa mentalità», non solo nel senso del governo, ma del modo in cui si governa il proprio futuro, la propria vulnerabilità, la propria speranza. Quando l’euro perde valore, quando il cittadino europeo sente, nei profitti che diminuiscono o nei salari che si dilatano nella crisi, che qualcosa non è più scontato, che il domani non è garantito, allora la crisi monetaria diventa crisi ontologica: siamo noi che stiamo cambiando, alterati, proiettati in condizioni che non abbiamo scelto del tutto.

Ebbene, cosa è cambiato da quel 27 agosto 2022 fino a oggi, 3 aprile 2024? In quel giorno si annunciava una perdita che era già in atto, ma che pareva confinata alle oscillazioni, alle speculazioni, a qualche scarto. Oggi sappiamo che quelle oscillazioni erano struttura, che quelle speculazioni sono regime, che gli scarti non sono errori ma confini: limiti che separano un prima da un dopo, un dentro da un fuori, un noi da un altrove. Oggi il dollaro non solo domina per attitudine: domina per funzione. È diventato misura di ogni rischio, riferimento di ogni comparazione, criterio occulto (e talvolta esplicito) di ogni strategia politica europea.

In questi mesi abbiamo assistito a ciò che sembrava impossibile: un Eurogruppo deciso non soltanto da tassi d’interesse e bilanci, ma da ideologie dell’ansia; governi eletti che devono rispondere non solo al consenso, ma al mercato globale; cittadini immersi in una esposizione permanente, costretti a misurare il valore delle proprie vite secondo l’agenda del petrolio, del gas, dell’elettricità. Quando l’inflazione diventa paura, e la paura diventa moneta di scambio, il denaro non è più strumento: è paradigma. L’Europa, se vuole esistere diversamente, non può restare mera somma di nazioni, ma deve ripensarsi come soggetto che protegge non solo la ricchezza, ma la vita come costitutiva della politica.

Gli Usa, d’altro lato, operano una difesa per penetrazione: la loro intransigenza in politica estera, i loro accordi con l’energia, le sanzioni, il controllo delle rotte del gas, tutto ciò non è solo strategia militare o diplomatica. È dispositivo attraverso cui s’instaura una serie di dipendenze che fanno del dollaro non soltanto l’unità contabile, ma il nodo che lega soggezione e sicurezza; è la moneta che ordina il mondo, non tanto per superiorità tecnologica o industriale, ma perché ha saputo fare della paura globale la propria risorsa.

Certo, ci sono resistenze: valute alternative, richieste di autonomia energetica, proposte di cooperazione che vanno al di là dei confini tradizionali. Ma queste resistenze s’infrangono, spesso, contro la stessa natura della crisi: quando il mercato chiede certezza, chi chiede diversità sembra rischiare l’isolamento; quando la logica del rifugio diventa egemone, ogni deviazione sembra debolezza. E così, l’euro viene percepito non solo come valuta, ma come debolezza. L’America non ha bisogno solo di battere l’avversario politico; ha bisogno che l’avversario economico si mostri destituito, esautorato, incapace di offrire un’alternativa stabile.

Pensiamo al cittadino europeo che paga la bolletta, al piccolo imprenditore che vede costi imprevisti, all’energia che diventa merce invisibile, infrastruttura occultata, arbitrio della speculazione. Tutto ciò che appare marginale è già centrale: l’insicurezza domestica, la paura che entra nella pelle, la precarietà che assume forma di horizonale condizione dell’essere. È qui che il potere monetario trova il suo altare: nella quotidianità che diventa crisi, nella vita personale che si trasforma in oggetto economico.

Eppure, se l’euro perde, non è soltanto per le decisioni che sembrano messe in comune, ma per quella distanza interna che era già lì da sempre: tra Nord e Sud, tra economia produttiva e finanza speculativa, tra chi vive l’insicurezza come fattore esterno e chi la vive come condizione abituale. La guerra espone questa distanza: non tutti i paesi europei stanno nella stessa trincea energetica, non tutti possono rispondere con la stessa forza politica alla pressione sui prezzi, non tutti hanno la stessa credibilità nei mercati internazionali. E questa differenza è politica, prima che economica: è la differenza fra chi può proteggere e chi deve proteggersi.

La domanda che oggi ritorna, non come slogan, non come richiesta demagogica, ma come questione ontologica: che cosa significa essere insieme europei in un mondo in cui il valore è diventato fuga, moneta rifugio, promessa (e minaccia) di continuità in un presente che non concede sosta? L’euro, per restare qualcosa di più che un numero oscillante, deve ritrovare un ancoraggio politico che non sia solo bilancio; deve essere difeso non solo come misura tecnica, ma come forma in cui si gioca la libertà, la comunità, il possibile.

Il fatto che oggi il cambio scenda sotto la parità non è incidente, ma segnale: che l’euro, nel suo insieme, è diventato testimone della propria misura infranta, esempio di un’unità che non si tiene insieme se non ha il potere di proteggere – e proteggere non nel senso della frontiera, ma nel senso della cura, della continuità, del rispetto per la vita comune. È l’evidenza che la moneta non è neutra: essa è forma politica; essa è destino.

E altrove, negli Usa, si celebra il rifugio: Titoli di Stato che valgono come promesse, che valgono come scommesse sul fatto che il mondo continuerà a essere dominato dal dollaro, che il rischio europeo non diventerà rischio globale su scala simmetrica. Perché l’architettura globale delle paure, delle dipendenze, delle crisi, richiede che ci sia un punto di evacuazione; il dollaro è oggi quel punto. Non per virtù, ma per posizione; non per superiorità, ma per storicità; non per forse, ma perché gli altri – l’euro su tutti – hanno lasciato che le proprie faglie si aprissero, che le proprie rotture diventassero visibili.

Così, senza separare in due blocchi perfetti ma interpenetranti, guerra ed economia, politica e vita, sicurezza e dipendenza, vediamo che ciò che è accaduto fra il 2022 e il 2024 è un ribaltamento lento: la crisi è diventata norma, l’eccezione permanente, il rifugio individuale diventa collettivo. E dal rifugio al dominio economico non c’è una grande distanza: perché il dominio oggi si esercita nel modo in cui si definisce il possibile, il normale, il prevedibile. L’America guadagna non solo mediante la potenza militare o diplomatica, ma mediante la costruzione della dimensione globale dell’insicurezza nella quale il dollaro cresce come albero nel deserto, cercando acqua dove pare non ce ne sia.

Nel mentre, l’Europa dovrà decidere se restare nella logica del rifugio – attendista, reattiva, divisa – oppure riattivare quella dimensione che era stata promessa: la solidarietà, l’azione comune, la capacità di fare della vulnerabilità propria non un destino subìto ma una condizione da trasformare in articolazione di potere. Non è utopia: è questione di politica, di modo di essere nel tempo; questione che è già aperta.

Ecco perché la “intransigenza” americana non può restare intesa come impasse diplomatica, ma deve essere vista come gesto costitutivo: gesto di forza che non si manifesta nella coercizione immediata, ma nella gestione delle soglie, nella creazione di quelle linee invisibili che decidono chi può essere sicuro, chi può chiedere protezione, chi può restare nella normalità e chi deve vivere nella crisi. Il dollaro non è mai semplicemente valuta; è architrave, soglia, misura – è moneta che definisce l’umano, che decide chi è incluso nella protezione e chi no.

In questo tempo sospeso, quello che succede non è già destino, ma possibilità: che l’Europa trovi la voce, la misura, la forza. Che l’euro non sia più caduta liberata ma progetto di riconquista; che la sovranità non sia più abbandono, ma esercizio condiviso; che la vita, non la moneta, ritorni al centro. E nel pensare ciò, non come chiusura utopica, ma come vigilanza costante, come pratica quotidiana, come cura.

 

 

 
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