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Indiani e aborigeni una differenza dimenticata

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura Agostino Agamben

Perché in Europa persistono termini coloniali che riducono i popoli originari del continente americano e del resto del mondo a etichette fisse e stereotipate, mentre dietro queste parole si nascondono dispositivi di potere e forme di esclusione che segnano la loro esistenza tra ghetti, riserve e marginalità sistematica.

Si parla ancora di “indiani d’America”, di “indiani di riserva”. Un’espressione che si riverbera nella lingua europea con la forza di un residuo, un’impronta di un passato che non passa e che definisce, più che descrivere. Cosa significa chiamare “indiani” i nativi del continente americano? Perché questa categoria sopravvive nonostante l’evidente errore storico che la ha generata? E in che misura essa si distingue dalla nozione di “aborigeni” usata per designare gli altri popoli originari sparsi nel mondo?

Il nome è sempre qualcosa di più di un semplice segno: è un dispositivo che pone limiti, costruisce identità, produce relazioni di potere. È un confine, un’inclusione che implica sempre una esclusione. Così, il termine “indiano”, nato dall’errore geografico di Colombo che credeva di essere giunto alle Indie, ha incarnato un dispositivo di potere che non solo ha plasmato il modo europeo di vedere l’altro, ma ha anche inscritto quei popoli in una condizione di eccezione permanente.

L’errore di Colombo non si è risolto in un semplice fraintendimento, ma è divenuto, nei secoli, un meccanismo performativo che continua a fissare i nativi americani in una figura immobile, cristallizzata, priva della complessità storica e culturale che li contraddistingue. Essi sono ridotti a un’immagine, spesso folkloristica, imposta dall’immaginario europeo: piume, tende, cavalli. Un’immagine tanto iconica quanto priva di vita reale, che produce un isolamento simbolico e materiale.

Questo isolamento si manifesta con particolare evidenza nella realtà delle “riserve indiane”, spazi territoriali in cui le popolazioni native furono confinate, dopo la spoliazione violenta delle loro terre ancestrali. Non è un luogo di autonomia o di scelta, ma un ghetto etnico imposto, una sorta di eccezione territoriale che conferma la sospensione dei diritti civili e politici. La riserva è il paradigma della vita nuda, nel senso che questa condizione ha assunto nella biopolitica: un’esistenza ridotta a mera sopravvivenza, sospesa fra la marginalità sociale e l’esclusione dal corpo politico dello Stato.

Fuori dal continente americano, la parola “aborigeno” occupa un ruolo analogo per descrivere i popoli originari di altri luoghi, dall’Australia alla Scandinavia, dall’Africa all’Oceania. Ma qui le differenze sono molteplici, e riflettono contesti storici e coloniali differenti. Gli aborigeni australiani, per esempio, hanno subito politiche di assimilazione più lente ma altrettanto devastanti, che hanno cercato di cancellare identità culturali e lingue millenarie. I Sami, i Boscimani, i Maori e altri popoli si trovano in situazioni di lotta per il riconoscimento politico, spesso segnata da una complessità che sfugge alle categorie semplicistiche con cui l’Europa continua a classificare l’alterità.

Tuttavia, le differenze non cancellano le analogie profonde. In entrambi i casi si tratta di popolazioni che sono state inserite in un dispositivo di esclusione e controllo, che ha trasformato il loro essere in “altro” e li ha posti fuori dal riconoscimento pieno della cittadinanza. Il ghetto etnico, la riserva, il territorio aborigeno sono spazi in cui si concentra questa doppia condizione di esclusione e resistenza.

La persistenza dell’etichetta “indiano” in Europa rivela una inerzia sociale e culturale che travalica la mera ignoranza storica. È un segno di un dispositivo di potere che si è insediato nel linguaggio e che continua a strutturare la soggettività europea in rapporto all’alterità coloniale. Il discorso, come insegnava Foucault, non è mai neutro: chiamare “indiano” è un atto performativo che costituisce una realtà, una soggettività coloniale definita attraverso l’esclusione, che fissa un’immagine immutabile e sottrae ai popoli originari la possibilità di auto-definizione e di presenza storica.

Questa condizione si inscrive nella nozione di eccezione che ho cercato di delineare: le “riserve” sono l’esemplificazione concreta di uno spazio sospeso, di un regime di sovranità negativa che mantiene in vita senza riconoscere la cittadinanza piena, che esclude senza annientare. Una condizione di vita sospesa, né dentro né fuori, né morte né vita piena.

L’effetto ontologico di questo dispositivo è duplice: da un lato, esso definisce il soggetto coloniale attraverso la negazione dell’altro; dall’altro, fissa l’altro come non-essere, come residuo anacronistico, un “altro” che serve alla definizione dell’identità europea. È un “altro” arcaico, statico, etnologizzato che deve rimanere tale per preservare l’illusione di un soggetto europeo autonomo e progressista.

Heidegger ci ha insegnato che l’essere dell’altro si costituisce come “non-essere” nel discorso dominante, e questa costituzione è la base dell’identità occidentale. Il ridurre i popoli originari a un’unica etichetta – “indiani”, “aborigeni” – è un atto di totalizzazione che chiude il reale nelle categorie rigide di una metafisica del dominio, un tentativo di possesso e controllo del tempo e dello spazio degli altri.

Ma non è solo questione di etimologia o di correttezza politica. È un problema di ontologia politica e di relazione con l’alterità. L’alterità non può essere ridotta a una funzione o a un’ombra, ma deve essere riconosciuta nella sua pluralità, complessità e storicità.

Cambiare il nome è dunque un atto politico e ontologico. Dire “popoli originari” o “prime nazioni” è un gesto che riattiva una storia negata e restituisce soggettività a chi è stato cancellato. È un atto che mette in crisi la struttura sovrana della modernità, che decide chi può vivere, chi può parlare, chi può esistere nella storia.

Questa differenza si traduce anche in due forme di dispositivo politico: la segregazione visibile e frontale delle riserve indiane e l’assimilazione mascherata che opera in altri contesti, come in Australia. Entrambe condividono la medesima logica di esclusione e dominio, ma si manifestano in forme differenti di controllo.

Il concetto di “ghetto” emerge allora non solo come spazio fisico ma come categoria politica e filosofica. Il ghetto è il luogo della negazione di cittadinanza e soggettività, ma anche lo spazio della potenzialità di resistenza e sopravvivenza. Nei ghetti etnici imposti si intrecciano negazione e affermazione, potere e lotta. La vita sospesa può divenire vita potenziale, un campo di tensioni aperto alla possibilità di un ritorno al diritto.

Il linguaggio è strumento di lotta e riconoscimento. Smantellare l’abitudine di chiamare “indiani” significa intervenire su un dispositivo di potere che ha modellato la percezione e la struttura politica europea.

La responsabilità europea è anche quella di rielaborare la propria storia e il proprio linguaggio, non come semplice commemorazione ma come presa di coscienza attiva delle forme di dominio che ancora persistono. Il linguaggio è il primo luogo dove questa responsabilità si manifesta, dove si esercita la pratica politica e etica del riconoscimento.

Walter Benjamin parlava della parola come frammento di tempo aperto, come possibilità di redenzione e trasformazione. Scegliere di nominare per verità è un atto etico, una apertura a un futuro plurale, in cui l’altro non sia più un residuo o un fantasma ma un soggetto attivo nella storia.

L’atto di nominare è gesto che apre o chiude orizzonti di senso. Chiamare “indiani” è erigere un confine simbolico che separa, definisce un dentro e un fuori, un noi e un loro, un presente da un passato immobilizzato. Questa separazione non è mai innocente: essa costituisce un dispositivo di sovranità che si fonda sull’eccezione, sulla sospensione della norma e l’instaurazione di un regime di esclusione permanente.

L’intera storia europea e occidentale è attraversata da questa dialettica tra inclusione ed esclusione, cittadinanza e “vita nuda”. I popoli originari incarnano la figura paradigmatica di questo escluso, relegato alla marginalità e all’invisibilità. Una condizione che si estende ben oltre il passato coloniale, persistendo nelle forme contemporanee di gestione politica, economica e culturale.

Il “ghetto etnico” o la “riserva” sono metafore ontologiche, luoghi in cui la differenza si determina come negazione e impossibilità di partecipazione politica piena. Ma proprio in questa condizione si annida una potenzialità di rovesciamento, un frammento di resistenza che sfugge al controllo sovrano.

Il riconoscimento politico di alcune “nazioni native” nordamericane rappresenta una rottura, una parziale uscita dall’immobilità. Pur segnato da limiti e contraddizioni, questo riconoscimento apre un orizzonte di autodeterminazione e testimonia che la soggettività politica è un campo di tensioni negoziabili.

Eppure, il riconoscimento è spesso condizionato e limitato, avviene entro le stesse logiche coloniali che istituiscono la marginalità. È un paradosso ontologico e politico: essere riconosciuti per esistere ma entro limiti che sono forme di dominio. La soggettività coloniale si manifesta come ombra doppia, visibile solo nella misura in cui si lascia vedere entro un campo di forza che la riduce.

Il linguaggio media questo campo di forza. Nominare “indiani” significa mantenere un’identità imposta, una costrizione simbolica che stabilisce un confine tra politico e non-politico, vita piena e vita ridotta. Il passaggio a un linguaggio che riconosca pluralità, complessità e storicità non è solo correttezza o sensibilità culturale, ma atto di resistenza politica contro il dispositivo coloniale.

Il cambiamento linguistico è atto performativo che modifica la realtà: dire “popoli originari” apre uno spazio politico nuovo, un riconoscimento che mette in crisi l’ordine stabilito della rappresentazione e del potere. Il linguaggio è campo di battaglia dove si negozia il diritto all’esistenza e alla storia.

La tradizione europea ha però una difficoltà: tende a pensare la differenza come opposizione statica, tematizza l’“altro” come arcaico, residuo, anacronismo. Il “popolo originario” è percepito come fantasma, oggetto di museo o narrazione mitica. Questo produce un doppio movimento di esclusione: l’“altro” è riconosciuto solo come resto del passato, senza futuro, incapace di agire nel presente.

Il rischio è che “aborigeno” o “nativo” diventino contenitori vuoti, etichette che nascondono differenze interne e storie plurali, perpetuando un neocolonialismo epistemico. È un processo di archeologizzazione dell’alterità: ridurre il presente dell’“altro” a un reperto da esaminare, a segno di epoca perduta.

Romper questa temporalità coloniale significa pensare l’alterità non come passato da archiviare, ma come presenza attiva, soggetto storico e politico che cammina nel presente con progetti e conflitti. Il linguaggio deve aprire a questa pluralità di tempi e spazi.

Questa apertura implica responsabilità etica per l’Europa: non basta riconoscere l’errore o esprimere solidarietà simbolica, serve un lavoro di decostruzione delle strutture di potere e sapere che mantengono la marginalizzazione. Un lavoro che passa anche attraverso il linguaggio, attraverso la pratica del nominarli per verità, con rispetto e riconoscimento.

Il linguaggio non è mai neutro o semplice strumento: è pratica di libertà, apertura a sentieri di resistenza e trasformazione. Dire “popoli originari” è atto di sovversione, mossa che mina la sovranità coloniale, frantuma le gabbie del dispositivo politico, apre a una nuova concezione della comunità politica fondata su pluralità e differenza.

 

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