Skip to main content

Infanzia e Salute Colonie Estive

Scritto da Fulvio Muliere il . Pubblicato in .

                                                                                                                                                                                           A cura di Fulvio Muliere

La storia delle colonie estive affonda le sue radici in un’epoca in cui la salute dell’infanzia rappresentava una delle grandi sfide sociali.

Nel XIX secolo, in un’Italia ancora frammentata e colpita dalle difficoltà igienico-sanitarie dell’epoca, l’infanzia povera e malata veniva spesso abbandonata a sé stessa. Fu allora che sorsero le prime esperienze di soggiorni estivi per bambini in località marine o montane, con l’obiettivo primario di offrire un sollievo terapeutico a chi soffriva di patologie gravi come la tubercolosi ossea e linfatica. Il sole, l’aria pura e il mare divennero alleati preziosi nella cura di queste malattie.

Uno dei pionieri fu Giuseppe Barellai, medico e filantropo che a partire dal 1853 diede inizio a una vera e propria missione sanitaria: trarre i bambini malati dalle corsie ospedaliere e portarli al mare, in ambienti sani, puliti e stimolanti. Nacquero così oltre cinquanta ospizi marini, soprattutto in Romagna e Toscana, sostenuti da volontari e fondi privati. Queste prime strutture, ancora spartane, rappresentarono l’embrione delle future colonie estive.

Ma il salto quantitativo e qualitativo avvenne nel primo Novecento. La Prima guerra mondiale fece emergere con forza il bisogno di proteggere e assistere i figli dei combattenti. La Croce Rossa e la Direzione Generale della Sanità pubblica misero in atto una rete di interventi che utilizzava le colonie estive come strumento di cura e protezione. L’esperienza si consolidò e crebbe nel dopoguerra: tra il 1923 e il 1924 furono ricoverati nelle colonie circa 100.000 bambini, con un impegno finanziario enorme per l’epoca, circa 25 milioni di lire.

Negli anni Trenta, sotto l’impulso dell’Opera Nazionale per la Maternità e l’Infanzia e, successivamente, del Partito Nazionale Fascista, le colonie diventarono strumento di propaganda e controllo sociale, ma al tempo stesso luoghi di cura e risanamento. Il numero di bambini ospitati passò rapidamente da 100.000 a 250.000. I programmi comprendevano cure marine, lacuali, fluviali e montane. Molti di questi bambini erano figli di emigrati italiani, rientrati in Italia solo per l’estate, e vivevano situazioni di povertà e disagio sanitario.

Opera Nazionale Balilla organizzava soggiorni estivi per bambini sani, in un’ottica di preparazione fisica, ideologica e civica. Le colonie vennero quindi progressivamente distinte per funzione: alcune con vocazione terapeutica, altre educative e formative. In ogni caso, tutte queste esperienze erano poste sotto il controllo dell’autorità sanitaria del Regno, a conferma dell’importanza attribuita al binomio infanzia e salute.

Le strutture architettoniche nate in quel periodo riflettevano un’idea moderna di funzionalità e razionalità. Alcune colonie divennero veri e propri esperimenti di avanguardia architettonica: la colonia marina di Cattolica, progettata da Clemente Busiri Vici, la Varesina a Milano Marittima, la colonia di Calambrone in Toscana, la Fara a Chiavari. Gli edifici, realizzati secondo i canoni del razionalismo e del futurismo, incarnavano un’idea nuova di spazio educativo: luminoso, aperto, stimolante, pensato per il corpo e per l’anima.

Il secondo dopoguerra segnò una svolta. Persa la funzione propagandistica, le colonie si rinnovarono nel segno della ricostruzione sociale, diventando strumenti di riscatto per un’infanzia provata dagli orrori del conflitto. Negli anni Cinquanta e Sessanta, numerose strutture furono edificate e gestite da enti pubblici, parrocchie, cooperative e aziende. L’obiettivo era duplice: offrire un’alternativa educativa durante l’estate e contribuire al benessere fisico e psichico dei più piccoli. Le colonie si moltiplicarono lungo le coste italiane, nei pressi dei laghi, in montagna e nelle campagne. A Cesenatico, ad esempio, nacquero numerose colonie aziendali, tra cui quella dell’ENI, delle Ferrovie dello Stato, della Monopoli di Stato.

Ma già dalla fine degli anni Settanta, il modello entrò in crisi. Il miglioramento delle condizioni economiche familiari, la diffusione delle vacanze private e il crollo demografico fecero diminuire progressivamente la domanda. Le amministrazioni comunali, soggette a tagli alla spesa sociale, ridussero gli investimenti. Molte colonie furono chiuse, vendute, abbandonate. Alcune vennero riutilizzate come alberghi, centri sportivi, strutture sanitarie. Altre, come la storica Monopoli di Stato di Milano Marittima, resistettero più a lungo, ma con difficoltà crescenti.

Tuttavia, negli ultimi anni si è assistito a un rinnovato interesse per queste strutture e per la loro memoria. Associazioni come Italia Nostra hanno avviato censimenti, mostre itineranti, progetti di riqualificazione. Alcune città, come Cesenatico, hanno puntato sulla valorizzazione turistica e storica delle ex colonie. A Riccione, ad esempio, l’ex colonia Dalmine è stata trasformata nell’hotel Le Conchiglie, mentre a Rimini sono in corso da tempo i lavori per il recupero della colonia Augusto Murri.

Ma al di là della storia materiale, la colonia estiva è soprattutto un’esperienza esistenziale. Essa tocca il corpo, la mente, il cuore, lo spirito. Fin dall’inizio, le colonie sono state concepite come spazi di cura del corpo: alimentazione equilibrata, igiene, attività fisica, aria aperta. La medicina pediatrica conferma che il movimento, il contatto con la natura, la regolarità del ritmo sonno-veglia sono elementi fondamentali per il corretto sviluppo fisico e neurologico. Lontani dall’inquinamento urbano, i bambini respirano meglio, dormono meglio, mangiano con più gusto e digeriscono con più facilità.

Ma la salute non è solo una questione corporea. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, già nel 1946, definiva la salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”. E qui le colonie rivelano la loro potenza educativa. In questi contesti, il bambino trova occasioni per esprimersi, per superare paure, per affrontare sfide. L’ambiente non giudicante, la presenza di adulti non familiari ma rassicuranti, la libertà di muoversi e scegliere favoriscono il rafforzamento dell’autostima. La personalità del bambino si manifesta in maniera più autentica, e l’identità si struttura attraverso l’esperienza.

Il gioco – sia libero che organizzato – è il mezzo privilegiato di questo percorso. Giocando, il bambino impara a mettersi nei panni dell’altro, a rispettare le regole, a gestire le frustrazioni, a cooperare. Freud parlava del gioco come espressione dell’inconscio, e Piaget ne metteva in luce la funzione costruttiva dell’intelligenza. Ogni laboratorio, ogni caccia al tesoro, ogni partita a pallone diventa allora occasione di crescita cognitiva e affettiva. Si sviluppano la resilienza, l’empatia, la creatività, il senso critico.

All’interno delle colonie, la socialità si costruisce giorno per giorno. I bambini imparano a condividere spazi, tempi, oggetti. Imparano ad aspettare il proprio turno, a collaborare per un obiettivo comune, a prendersi cura del compagno più fragile. In una società sempre più individualista e digitale, dove le relazioni sono spesso mediate da uno schermo, questi gesti semplici diventano rivoluzionari. La colonia diventa così una vera e propria palestra di cittadinanza, in cui si sperimentano le dinamiche del vivere insieme. Si scopre la bellezza della diversità, si impara il rispetto reciproco, si costruisce il senso di appartenenza.

In molte colonie, soprattutto quelle a ispirazione cristiana, l’educazione spirituale è parte integrante dell’esperienza. Momenti di preghiera, narrazioni evangeliche, canti, passeggiate meditative nella natura diventano strumenti per avvicinare i bambini al mistero del trascendente. La spiritualità dell’infanzia è profonda, pura, autentica. I bambini sono naturalmente aperti al senso, al silenzio, alla meraviglia. Aristotele definiva l’infanzia come il tempo dell’essere in potenza, e Heidegger parlava della meraviglia come della radice dell’interrogarsi sull’essere. Le colonie, in questo senso, sono luoghi dove il seme della fede può essere seminato con dolcezza, senza forzature.

Gesù stesso, nei Vangeli, pone il bambino al centro della comunità: “Se non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli”. L’infanzia è tempo di fiducia, di apertura, di trasparenza. Le colonie cristiane offrono ai bambini la possibilità di fare esperienza concreta del Vangelo attraverso il gioco, il servizio, la fraternità. Anche il gesto di apparecchiare la tavola insieme, di aiutare un amico a rifare il letto, di consolare chi piange, diventa segno di un amore più grande.

Le colonie estive, dunque, sono molto più di un semplice intrattenimento per le vacanze. Sono spazi integrali di educazione, cura, prevenzione, socializzazione e spiritualità. Offrono ai bambini – e spesso anche agli adolescenti che vi lavorano come animatori – una visione del mondo fondata sulla relazione, sulla solidarietà, sulla bellezza della vita condivisa. In un’epoca segnata da isolamento, disagio psichico, povertà educativa, crisi di senso, queste esperienze rappresentano una risposta semplice ma potentissima: una risposta di comunità, natura, gioia, attenzione, ascolto.

Don Bosco, uno dei più grandi educatori dell’infanzia, diceva che “educare è cosa del cuore”. Ed è proprio il cuore, aperto e ricettivo, che batte al centro della vita in colonia. Un cuore che accoglie, che ascolta, che sogna. Un cuore che cresce, senza fretta, secondo i tempi della vita e del sole.

 

Condividi su: