
Joker metafora di un’ombra sottile
Scritto da Danilo Pette il . Pubblicato in Attualità.
Dall’anarchico clown dei fumetti anni ’40 al simbolo disturbante della solitudine e del caos come il Joker è diventato specchio della società e della sua crisi, cambiando volto.
Il Joker, caricatura del caos, proverbio dell’anarchia, emblema del potere dell’anti-eroe, attraversa media e generi con una plasticità sorprendente. Nella sua metamorfosi, diventa specchio distorto e al contempo chiarissimo di epoche, di universi narrativi, di sensibilità popolari, grembo di riflessioni su follia, giustizia e spettacolo. Dalla letteratura a fumetti, dai film ai telefilm, dalla musica all’animazione, ogni incarnazione sposta l’asse del significato, perfezionando un ritratto poliedrico di un antagonista “eroico” per dimensione iconica e scivolante nel suo potenziale simbolico.
Nell’originale letteratura a fumetti – punto di partenza primario – Joker nasce nel 1940 nel “Batman #1” della DC Comics. Fin da subito gli autori come Bill Finger, Bob Kane e Jerry Robinson lo definiscono come “il clown principe del crimine”: un sadico senza regole, la trasposizione carnale del grottesco come forma di devianza. In quegli anni, in piena Età d’Oro, Joker incarna la minaccia incalcolabile, l’anarchia come ingranaggio perturbante di una società conservatrice. Il suo volto biancastro, sorriso ghignante, eccentrici costumi a pois o a quadri esprimono un aspetto grottesco, perfettamente inserito nello stile fumettistico in bianco e nero dell’epoca, e modulato con il colore nella rivista.
Il sinistrissimo senso dell’umorismo di Joker nelle origini è cinico e gratuito: negli short stories emerge un individuo raccapricciante e perverso, capace di omicidi con battute lapidarie. Non c’è alcuna evoluzione psicologica, semmai esplosione grottesca, e Batman è l’eroe stabile e lineare che si contrappone alla follia del criminale. A partire dagli anni Sessanta, sotto la matita di autori come Jim Aparo e Neal Adams, Joker si affina in termini di design: si accentua la sua magia da prestigiatore del crimine, ma soprattutto cresce la complessità psicologica: la questione “chi c’era sotto il trucco?” diventa tema ricorrente e ambiguità morale si innesca già durante le guerre creative per le licenze sociali in decenni di grandi cambiamenti culturali.
Successivamente, il decennio del cosiddetto “Bronze Age” vede Joker come archetipo dell’illogico e dell’insano, incarnazione dell’odio sociale. Laddove negli anni ’60 era manicomicodipendente e macchietta, negli anni ’70 e ’80 è personaggio niche, violento, a volte “torturatore” di vittime e in un’anarchia privata dilagante. I testi di Doug Moench e Brian Bolland (celebre copertina di “Batman: The Killing Joke”) lo fotografano come killer filosofico: dietro a quel sorriso c’è un uomo caduto dalla scala, divenuto Joker. Nasce l’intuizione esistenziale che la follia è un varco, che la ragione è corruttibile. Lo spunto, in quel graphic novel del 1988, è che un sorriso imposto da una violenza incontrollata diventa condanna e percorso joneriano: la psiche si frattura e diventa poema d’orrore. La controversia sul sapere se la leggenda spenga la speranza, se la follia abbia origini accidentali o religiose, accompagna la figura oltre i fumetti, rappresentando un primissimo crescendo in grado di segnare il Joker come contenitore di provocazione, paura, sfida.
Ma il Joker non incarna solo ravvicinata follia: la sua storica dicotomia con Batman racconta ideali e false opposizioni: l’ordine e il caos, la legge e l’anarchia. E tuttavia le definizioni collassano, perché a volte, dietro la maschera clownesca, Joker professa verità sul mondo e suggerisce che l’indifferenza, lo sguardo impassibile, l’apatia sociale siano la vera condanna collettiva. Il Joker fa rumore, ma al contempo avverte: ride di tutto ciò che resta immobile e inerte. Nella letteratura a fumetti, è registrato come minaccia senza speranza, mostro grottesco e affabulatore: voce satirica di un sistema folle. Dove Joker appare, la noia delle istituzioni si sgretola, apre squarci di riflessione sociale: lo fa con brio, con crudeltà, con delirio poetico. Alcuni storici del fumetto definiscono Joker “l’Ubu Re travestito da Pagliaccio”.
Arriva la contaminazione con otto volte Joker nelle serie animate: dalla serie classica degli anni ’60 con l’ineffabile voce di Cesar Romero, a “Batman: The Animated Series” degli anni ’90, in cui Mark Hamill dà plasticità interpretativa al personaggio durante una “Gold Age” psicologicamente intensa. In quest’ultima incarnazione si recupera la vena tragicomica e tossica, quell’utilizzo brillante della lingua – la risata carica di fama – e al contempo vortici profondi: Joker diventa interprete tragico, a volte vittima, a volte carnefice, capace di giostrare con slanci spontanei, incapacità progressive di controllo, tempi verbali musicali. Questo Joker è metalinguistico: conscio della sua teatralità, scrive battute bombastiche per sé e per Batman, usa le carte da gioco come menestrelli di follia, esplode fisicamente in un’animazione stilizzata che usa l’arte come specchio dell’incomunicabilità e del disordine.
I film live-action aprono nuove stagioni interpretative, nel 1966 la serie cinematografica derive dal telefilm del ’60 porta Joker interpretato da Cesar Romero: goofy, campy, commedia irresistibile – una maschera da showman più che un killer. Non c’è ossessione filosofica, piuttosto divertimento e farsa su buona parte della cultura pop. Ma arriveranno metamorfosi successive.
L’anno 1989 segna il primo passo cruciale: il Joker di Tim Burton, interpretato da Jack Nicholson, cambia radicalmente pelle. Un gangster tragico, caduto in acido, veste pelli colorate, giacche stravaganti, parla con grande teatralità psicotica. È un uomo di potere polveroso – della malavita – in cui la follia diventa scelta. Nicholson sfrutta il bianco cadaverico, il sorriso permanente, lo sguardo deciso: Joker è cattedrale architettonica dell’antagonista clown. Il film fonde commedia nera, gotico, psicosi, con note drammatiche: il villain dialoga spesso con Batman in duelli verbali e fisici. L’origine è presentata, ma diventa mythe personale, metafisico: la caduta nella piscinetta è un rituale oscuro, immagine di creature che scelgono di oltrepassare un confine di carne. Qui per la prima volta Joker non è una sgrossatura fumettistica, ma personaggio tridimensionale, arrabbiato, romanzesco.
Dopo Burton, la comparsa della serie TV “Gotham” negli anni 2014-19 offre invece all’insaputa un’associazione fra la figure di Jerome e Jeremiah Valeska, retti in molte zone del folklore della città. Qui Joker non c’è ancora, ma nelle vesti di frattaglie mentali appare la dinastia folle: geni avversi, doppia personalità dissociata. Sebbene i doppi Valeska siano lasciati sullo sfondo, il concept cardine è: il Joker può essere ovunque, è idea, virus, predisposizione mentale. Gotham sposta l’accento sull’evoluzione urbana di un trauma originario, sul tessuto sociale che genera patologie, su come un individuo “normale” possa esondare nella follia attraverso inferno urbano: questa è una versione, differentiabile, della nascita di Joker, resa come evento sismico collettivo, raffronto con la vita in brandelli della città.
Ma il 2019 ridefinisce tutto: il film “Joker” diretto da Todd Phillips, con Joaquin Phoenix, sceglie un tono asciutto, crudo, in stile drama reale. Non è un blockbuster DC, bensì un noir urbano che esplora la discesa nella follia di Arthur Fleck, tecnico radiofonico/performer da circo, invisibile nella città, ignorato come malato mentale e ricattato da una società cinica, in cui la disuguaglianza suona come condanna. Phoenix scolpisce un’esperienza empatica spiazzante: Fleck fa il clown, si fa beffe di tutti i presupposti, ridendo con sapienza. E quella risata patologica diventa segnale di rottura, ribellione atto politico. Joker non solo è divino archetipale, ma sintomo collettivo. La sua danza sulle scale diventa danza liberatoria, coreografia di tragedia metropolitana. La colonna sonora di Hildur Guðnadóttir assorbe la psiche, creando un magma di tensioni che portano a un ballo interiore, interfaccia tra furia e favola degradante.
Questo film ha rotture immaginative: niente supereroi, niente Bat-segnale, Batman è solo leggenda. Joker emerge come riverbero individuale di una comunità implosa. “Noi siamo tutti Joker” era già nella letteratura, ma a livello mediatico non era mai stato recitato con interazione viscerale e sociale tanto estrema. L’unica altra interpretazione cinematografica degna di nota è quella di Jared Leto in “Suicide Squad” (2016): a modo suo tentativo pop star di incarnazione postmoderna, tatuaggi, sopracciglia, sorriso metallico. Ma dentro quell’interpretazione manca un tessuto drammatico convincente; è puro shock image. È incarnazione effimera, transitoria, estetizzata ma poco emozionale. Non ha né il grottesco nichilista di Nicholson, né la rottura psicologica di Phoenix, né la teatralità poetica di Hamill (“Batman: TAS”). È fugace, destinata all’underground pop-punk, come glitch musicale di un videogioco.
Ciò ci porta all’altro medium: la musica. Il Joker è stato evocato da brani rock, elettronici, hip‑hop: dal californiano Glen Senk in “Joker’s Song” (band The Falling Stars), alla poetica confusa dei punk Siouxsie and the Banshees in “The Last Beat of My Heart” remix evocativo, fino ai campionamenti nel world rap argentino che impiegano battiti di risate maniacali come stampo di ribellione urbana. E naturalmente l’ascendente “Laughing Jack” o “Joker Theme” di compositori di colonne sonore cinematografiche, come Danny Elfman, Hans Zimmer e Michael Giacchino. Il tema principale di Joker nei film – reclinato in violini e tromboni a estendere melodrama, tensione, sfarzo funebre – ha influenzato composizioni sinfoniche “arrabbiate” e tribali, con ritmica sincopata incalzante, dramma che risuona in teatro e cinema.
Il risultato e un caleidoscopio di suoni, dove Joker è performance musicale, pura teatralità sonora, psichedelia ritmica. Il tema del Joker solletica l’angoscia e l’assurdo, propone discontinuità sismica, tonale: salti di dinamica, crescendo, silenzi improvvisi. Un linguaggio che riscrive la drammaturgia orchestrale con declivi manieristici: nervi scoperti di tempo e spazialità sonora, di aggressione e silenzio orchestrale. La risata assurda viene trattata come strumentazione ritmica: sincopata, lenta, accelerata, spazzatura sonora che può anche divenire canto, forza primordiale. Allo stesso tempo, in ambiti come il metal e l’industrial, Joker diventa figura sacrificale, espressione di rabbia collettiva, rallentamenti grossi nei giri di basso, feedback dissonanti, percussioni caotiche. È reificazione del disagio, pompa sonora ed estetica multiforme.
Nel panorama letterario noir, alcune novel-series o romanzi spin-off si appropriano del Joker, come “Joker: Death of the Family” (Romanzi-atmosfera, sequel di serie DC), in cui analizzano il rapporto con Batman come simbiosi morbosa. Altri romanzi “What if?” esplorano la sua psiche come antitesi dell’ordine, personaggio senza parentesi morali. In alcuni racconti brevi – come quelli della collana “Gotham by Gaslight” – Joker diventa incarnazione di figure vittoriane, appare come “pazzo gentiluomo”, portando il suo delirio in un contesto steampunk, gotico. Ci sono raccolte narrative cross-genre scritte da autori mainstream – Bruce Sterling, Neil Gaiman – che lo evocano come figura letteraria che sfida la linearità narrativa, personaggio-corruptor che, nel Mistero, libera la tecnica del narratore da vincoli gerarchici. È figura metanarrativa: comparendo scompagina. Il Joker diventa Berlusconi narrativo, manipola lettori tanto quanto supereroi.
Il complesso del Joker offre dunque occasioni musicali, letterarie, filmiche, televisive per disinnescare meccanismi narrativi e culturali: la sua tensione è quella fra ordine apparente e disordine strutturale. È sintomo, mito, destino. La sua agenzia trascende il crimine: fa satira, preme i riflettori sulla società, sulla psiche. È questa intensità diversa nella serie TV, cinema o endpoint musicale crea orizzonti diversi.
Il telefilm “Gotham” ad esempio – come anticipato – la genesi disperata è lenta, polverosa, sofferta: Joker emerge come ideale, mutate identità, “virus” per una società a pezzi. Laddove invece in “The Batman” (2022) di Matt Reeves – pur non essendo Joker protagonista – appare come muro narrativo: cameo enigmatico come messia della follia, lo vediamo solo in un breve scorcio. Questo Joker – interpretato in brevi frame – reinventa il mito come entità latente, fantasma di imminente follia. L’oscurità è disposta a inghiottire tutto, Joker è promessa di sciabolata che attende attuazione. È differenza radicale con Phoenix: qui Joker non danza completamente, resta possibilità attiva. Un concetto più sottile, metafisico, presago.
Nei fumetti successivi al 2019, Joker sembra ispirarsi al volto di Phoenix: imperfetto, fragile, asociale. Le storie anti-psichiatriche sono più intimiste, meno spettacolo. Molti autori tentano di “smantellare” la figura dell’eterno clown: raccontano Joker come paziente di terapia, come figura salvabile, o come minaccia da curare. Si giocano aperture verso guarigione, storie di riscatto e redenzione – anomalia rispetto alla lotta binaria con Batman, ma specchio della società contemporanea post-pandemica, assetata di riabilitazione. Nello stesso tempo la DC affida Joker alla serie “The Joker: Year One” o “Three Jokers” – miniserie che tentano di dare spiegazioni multiple sulla sua origine, suggerendo che forse esistono più Joker: molti uomini che un giorno, cadendo in acido, restano nascosti nelle smorfie forzate di Gotham. Questa moltiplicazione avvicina la figura a un concetto collettivo: non è più persona, ma idea funzionale, frammento ideologico. La letteratura a fumetti del nuovo millennio ci consegna Joker come specchio del trauma urbano e della democrazia tribale, simbolo mutante di disintegrazione.
La potenza del Joker come oggetto culturale tiene così conto del medium che lo ospita: il fumetto lavora su simboli, su contrasti visivi, su un nonsense palmare; l’animazione resta interna al vecchio stile narrativo ma introduce musica e relazione otto‑dieci bit; il film – Burton, Phillips, Reeves – reinterpreta la grottesca presenza e rivela sfumature di violenza strutturale; i romanzi danno profondità interiore e scavo psicologico; la musica ingloba la risata come strumento, la tensione sonora come distorsione; serie televisive come “Gotham” stabilizzano Joker come prodotto seriale, percorso, universo in espansione e sismografia emotiva.
Un percorso di suoni, segni e destinatari in cui Joker è al contempo ragione e caos. L’ibridazione di generi trasforma la figura in oratorio metanarrativo. E se è vero che un Joker può trascinare Gotham nell’abisso, è altrettanto vero che la sua travolgente performance di sconto totale attiva riflessioni su giustizia sociale, assistenza, inclusività, alienazione. Joker ride e ci avverte che ridere senza descrizione della realtà può essere farsa e cruenta tragedia. È inutile distinguere se sia fumetto, musica, cinema: ogni medium aggiunge una voce al coro del suo mito. Batman non può esistere senza di lui. La luce appare solo in antagonismo con l’ombra. Joker resta l’ombra suprema, barocca, grottesca e dolorosa. In ciascuna declinazione, resta il catalizzatore che replica, dentro di sé, le tensioni storiche: dagli atteggiamenti autoritari degli anni ’40, ai discorsi sociali anni ’90, fino al torpore ipertecnologico e alla crisi economica/psicologica del XXI secolo.
Se in un graphic novel Joker imbraccia le cartine del caos, in un film lo vediamo scolpire distruzione umana; in una serie TV respirare complotti di lunga durata; in un disco applicare Dì‑Do‑Mi‑Fa‑So‑La‑Ti‑Do alla risata indemoniata; in un romanzo sostenere che la follia è stato di coscienza collettiva. Una eco ininterrotta, raccolta da autori, registi, sceneggiatori, musicisti più o meno coscienti. Il Joker è la parabola dell’anti-eroe come altare del caos, ma anche come necessità narrativa, prova di specchio: mostrarti quanto il confine tra ragione e rovina sia fragile e soggettivo. Le differenze fra le incarnazioni sono sia stilistiche che semantiche – fumetto: simbolo verticale; telefilm: genetica serrata; film: carne e sofferenza; letteratura: analisi verbale; musica: tensione ritmica – ma tutte convergono su un coro di dissonanze che, unite, compongono il mito mutante del clown più inquietante della cultura pop moderna.
©Danilo Pette