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La Corte Costituzionale e il reddito di cittadinanza

LA CORTE COSTITUZIONALE HA DATO RAGIONE AL M5S

Uno dei pilastri fondamentali dell’impalcatura di politica socio-economica del M5S, per ridare dignità ai cittadini, per rimettere in moto gli scambi, i consumi interni, il lavoro e quindi per riattivare il ciclo economico depresso da tanti anni di crisi, è il reddito di cittadinanza. Questa proposta, formulata nelle aule parlamentari agli albori della legislatura iniziata nel 2013, è stata respinta e giudicata con disprezzo dalle altre forze politiche e dai commentatori dei vari talk show sempre pronti a lisciare il pelo al potere.

L’argomentazione più ricorrente per denigrare la proposta innovativa, utilizzata proprio da coloro che sono stati i responsabili del dissesto e del declino del paese,  era fondata su una scusa risibile (“i soldi non ci sono”) al riparo di un ombrello altrettanto vacuo e pilatesco (“bisogna rispettare il pareggio di bilancio“).

I soldi, a dispetto dei bisogni del popolo, sono stati trovati per fare regali alle banche, per far piovere una pioggia di bonus inutili, giudicati dannosi dai più avveduti economisti, per soddisfare l’ego smisurato di Renzi con il famoso super aereo o del Ministro della difesa Pinotti affascinata dagli F35 e dalla presenza dei nostri militari all’estero, ma non ci sono per il reddito di cittadinanza!

Dallo scorso dicembre questo “scusario” governativo non è più valido.

I media, ovviamente, non hanno dato  peso, indaffarati a leccarsi le ferite per la bocciatura del referendum costituzionale, ad una decisione rivoluzionaria della Corte Costituzionale che ha sancito, senza lasciare spazi a cavilli interpretativi, la incostituzionalità di una legge della Regione Abruzzo con effetti che hanno una ricaduta di importanza capitale per tutti i cittadini italiani.

La Regione Abruzzo aveva condizionato con legge regionale l’erogazione del contributo per il trasporto degli studenti disabili alla disponibilità di risorse stanziate in bilancio. In pratica la contrazione delle risorse economiche, vincolate annualmente dal pareggio di bilancio tra le entrate e le uscite, imposto all’amministrazione centrale ed a quelle locali, aveva giustificato la sostanziale riduzione del servizio. Di qui il ricorso tramite il Tribunale Regionale alla Corte Costituzionale.

Il massimo organo di protezione dei diritti dei cittadini dalle prevaricazioni del potere, con sentenza 275 (G.U. n. 51 del 21.12.2016) l’ha dichiarata incostituzionale costringendo ad un atto di contrizione tutti i severi difensori dell’austerity a carico del povero cittadino. Limitare o comprimere i diritti fondamentali riducendo le spese per i poveri e smantellando lo stato sociale nascondendosi dietro la scempiaggine del pareggio di bilancio, introdotta in costituzione dal governo Monti con l’esplicito assenso del PD e di Forza Italia, non è più consentito.

Facciamo un passo indietro.

Nel 2011 il Governo Monti, nato in modo del tutto avulso dalla volontà popolare, dopo aver forzato alle dimissioni Berlusconi in obbedienza ad una pressione dei noti ambienti finanziari europei, inserì il principio del pareggio di bilancio in Costituzione (articolo 81), sulla base dell’assioma che ogni nuova spesa sarebbe stata possibile solo se bilanciata da un corrispondente taglio di altre spese o da una maggiore entrata in termini tributari, rendendo di fatto impossibile una politica economica espansiva in tema di infrastrutture, di sostegno al reddito, di assicurazione dei diritti ai meno abbienti.

Se sul piano puramente teorico avrebbe potuto essere accettato il ragionamento che ogni spesa sociale poteva essere bilanciata da corrispondenti tagli alle spese superflue e improduttive, in pratica lo Stato si è comportato come un pessimo padre di famiglia. Anziché individuare queste ultime nel vasto panorama degli sprechi, dei favoritismi, dei privilegi anacronistici, dei fiumi di regali agli ambienti finanziari ha sottratto le risorse al soddisfacimento dei diritti (istruzione gratuita, sostegno assistenziale e previdenziale agli inabili al lavoro e ai disoccupati involontari, assistenza sanitaria ecc.) tagliando le spese dello stato sociale la cui gestione è stata lasciata al mercato ed all’iniziativa privata, con la conseguenza che i servizi sociali ed assistenziali sono diventati accessibili solo a chi poteva permetterseli.

I legislatori da strapazzo, che non sanno quello che fanno per ignoranza, hanno dimenticato in mala fede che la Costituzione italiana mette al centro la dignità della persona. Forse anche per questo tutto il mondo del PD al comando di Renzi e i cosiddetti benpensanti ne volevano fare un massacro prontamente evitato dal popolo italiano col referendum del 4 dicembre 2016.

La sentenza della Consulta 275/2016 ribadisce che i diritti costituzionali vengono prima del pareggio di bilancio, e sottolinea che è la garanzia costituzionale dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non viceversa cioè l’equilibrio di bilancio non può condizionare la doverosa assicurazione ed applicazione dei diritti.

Per far capire il significato e la portata di questa decisione è necessario soffermarsi sul fatto che la nostra Costituzione fu scritta ed approvata da un “Potere Costituente” (un’assemblea eletta ad hoc) creatore di tutti i poteri dello Stato, cioè dei poteri costituiti. Il Potere Costituente per natura poteva porre limiti operativi alle sue creature. E la costituzione questi limiti li ha posti scolpendoli nel marmo.

Ad esempio nell’art. 139 si afferma esplicitamente che “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale” e persino la sovranità popolare (art.1) è protetta dal limite dell’intoccabilità nel senso che una revisione costituzionale che la abolisse sarebbe incostituzionale.

Analogamente ci sono prescrizioni e divieti impliciti, contenuti nei principi fondamentali (articoli 1-12) che non possono essere ridotti, mentre i diritti e i doveri del cittadino, intesi come diritti e doveri minimi incomprimibili (articoli 13-54), possono solo essere migliorati e non peggiorati.

Ci sono due articoli che in questo contesto meritano una necessaria puntualizzazione: l’art. 36 e l’art. 38.

Il primo afferma che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa, mentre il secondo  sancisce che ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale a carico dello Stato.

La Corte Costituzionale con la sua sentenza ha in sostanza ribadito che i diritti costituzionali incomprimibili sono più importanti del vincolo di bilancio, anche se voluto dall’Unione Europea, cui non possono sottostare.

Se il pareggio di bilancio è incompatibile con la garanzia dei diritti incomprimibili, è proprio il pareggio di bilancio che va sacrificato in quanto contrario allo spirito ed alla lettera della Costituzione. Sta ai partiti, portatori degli interessi diffusi dei diritti costituzionali fondamentali incomprimibili impugnare gli atti con cui vengono negati i diritti minimi e ai sindacati di fare ciò per cui l’articolo 39 della Costituzione ne giustifica l’esistenza.

Dall’epoca della sentenza, che in pratica mette il visto di approvazione alla politica del M5S, nata proprio in applicazione di detti principi, i vari partiti che vivono in antitesi al M5S hanno capito che non potevano più fare un’opposizione frontale alla politica del reddito di cittadinanza, e abbandonando la scusa dell’assenza di coperture, quasi di soppiatto, hanno cominciato ad imbastire discorsi, per la verità ancora fumosi e disseminati di vincoli burocratici, per prevedere un modesto reddito di inclusione o un reddito di accompagnamento.

Ma non c’è da farsi illusioni. Loro pensano a provvedimenti spot e non strutturali, pensano a far pagare al cittadino la pensione anticipata con vantaggio per le banche e non saranno capaci di realizzare la perequazione e l’equità sociale.

Torquato Cardilli