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La Crisi Continua

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

A cura di Agostino Agamben

Una riflessione profonda sull’illusione della normalità energetica, sul peso delle sanzioni internazionali, sul conflitto tra etica e sopravvivenza, e sulla necessità di una decisione politica capace di affrontare la realtà senza nascondersi dietro le promesse mancate del futuro.

(VITTORIO FELTRI: L’UNICO MODO PER SALVARCI DALLA CRISI ENERGETICA È CANCELLARE LE SANZIONI ALLA RUSSIA)

Era l’anno 2022. Era settembre. Era guerra. Era gas che mancava, era freddo anticipato, era bolletta che trema, era la paura della luce che si spegne. Le sanzioni imposte alla Russia — risposta internazionale all’invasione, gesto politico, morale, economico — hanno inciso nel tessuto materiale di ogni giorno: nei corpi che tremano al freddo, nei motori che si fermano, nei forni che esitano a riscaldare. Vittorio Feltri, allora, proponeva la cancellazione delle sanzioni: non come gesto di pietà verso Mosca, non come abdicazione alla dimensione morale del conflitto, ma come necessità di sopravvivenza, come costo che rischia troppo alto, come limite massimo che non possiamo permetterci di oltrepassare.

E oggi — ad agosto del 2024 — guardiamo indietro, a quel settembre remoto, come da una distanza che non è solo cronologica, ma ontologica. Cosa è cambiato? Tutto e niente. Perché il reale ha continuato il suo corso e tuttavia non ha mutato la sua struttura profonda. Perché il mondo non ha smesso di fare guerra, ma la guerra ha cambiato scenografia. Perché la crisi energetica non è finita, ma è diventata un modo di essere del nostro presente.

Le sanzioni, da quegli anni, non sono state tolte; le decisioni non si son fatte concrete nel senso radicale. Sono state eluse, rimandate, compensate con misure alternative — acquisti via vie diverse, nuovi partner, energie rinnovabili, promesse politiche — ma sempre a margine, sempre come palliativi. È come se la politica avesse imparato a camminare su un filo sottile, tra la consapevolezza della propria impotenza e l’illusione della scelta.

Nel frattempo, la realtà ha continuato a manifestarsi: prezzi del gas che salgono e ridiscendono come onde impazzite, infrastrutture che cedono, senzatetto del riscaldamento, industrie che ponderano se restare aperte o spengono le luci per evitare il buio economico. Il governo, le istituzioni, i media hanno continuato a dichiarare emergenze, monitorare reti, stanziare fondi, invocare solidarietà europea. Una sequenza di atti che sembra muoversi, ma che spesso non scalfisce la durezza delle condizioni materiali che stanno al di sotto.

Quello che Feltri denunciava come ovvio — che da una dipendenza energetica quasi totale da Gazprom derivano inevitabilmente conseguenze gravi quando si irrigidiscono le relazioni internazionali — era qualcosa che molti volevano negare o rimandare a domani. “Domani qualcuno penserà alle serre che si sfollano, domani qualcuno studierà soluzioni vere” — ma il domani è diventato oggi, e quel che avevamo previsto è arrivato, o è arrivato quasi.

Ma nel movimento del tempo non c’è corrispondenza fra il prevedibile e il vero. Il prevedibile non è sempre quel che accade, ma è quel che si dice. È quel che diventa discorso. Feltri fece allora l’atto di riportare la questione al suo nocciolo: la cancellazione delle sanzioni. Non per accordare col “nemico”, non per prendere parte, ma per alleggerire la morsa concreta che rischiava di strozzare. Non per amore della potenza russa, ma per amore del calore che mancava nelle case. E anche in quel gesto c’era qualcosa di estremo: perché implicava la rinuncia a un ordine simbolico che molti consideravano imprescindibile. Significava dire che la certezza morale può entrare in conflitto con la certezza materiale.

Oggi, però, siamo in un punto diverso, eppure in qualche modo uguale. Le certezze materiali non sono svanite, e le morali non si sono dissolte. Ma il terreno intermedio — quello in cui si può muovere un pensiero che pensa — si è fatto più rarefatto. Le carte della diplomazia, i contratti dei gasdotti, l’aumento della capacità di rigassificazione, la promessa rinnovabile — tutto diventa elemento di una rappresentazione che tenta di rassicurare, ma che spesso non rassicura. Perché la realtà continua a chiedere più di quanto il discorso sia disposto a consegnare.

Si pensava che nel 2023, nel 2024, le alternative fossero cresciute: rigassificatori funzionanti, approvvigionamenti da paesi diversi, aumento dell’efficienza, isolamento termico, autoconsumo, rinnovabili, idrogeno — promesse alte, programmi annunciati, investimenti lenti. Eppure molti sembrano aver dimenticato che queste alternative richiedono tempo, richiedono discontinuità con abitudini consolidate, richiedono una frattura che, se non è netta, rimane simbolica. Il potere del presente è forte, il desiderio del cambiamento è debole; la paura del domani è forte, la determinazione per cambiarlo è frammentata.

Nel frattempo la guerra in Ucraina è proseguita, con nuovi scenari, nuove alleanze, nuove crisi umanitarie, nuovi movimenti di rifugiati, nuove tensioni politiche e morali anche in Occidente. E con essa è proseguita la retorica della sanzione come segno di appartenenza, di purezza, di giustizia. Le sanzioni sono rimaste uno dei pilastri del discorso pubblico che divide: sei con la pace, sei contro il despota, sei giusto, sei sbagliato. Ma il discorso si è irrigidito. Diviso. Rimasto su parole. E la realtà, sotto, si è incrinata.

Cosa significa oggi dire, come Feltri diceva allora, che le sanzioni generano inevitabili ritorsioni? Significa riconoscere che ogni atto politico espone sempre a conseguenze materiali che non sono controllate. Significa accettare che l’Italia, come molti altri paesi, non è un agente autonomo in un vuoto, ma è nodo di relazioni, dipendenze, vulnerabilità. Significa che ogni decisione estera ha immediati riflessi su casa, su calore, su bolletta.

E tuttavia, la cancellazione delle sanzioni — come progetto concreto — non è mai divenuta una proposta accettabile, o almeno praticabile, per via del conflitto di valori, della pressione internazionale, della solidarietà ipotetica con l’Ucraina, della paura delle ripercussioni diplomatiche, della constrizione dell’opinione pubblica. Ci sono ragioni politiche, morali, strategiche che hanno ostacolato quella proposta, che ne hanno reso quasi impensabile la sua adozione.

Ma la domanda che resta aperta è questa: quando l’urgenza materiale supera la capacità di aspirazione morale, cosa resta del tessuto del discorso pubblico? Quando la necessità di calore, di energia, di sopravvivenza quotidiana diventa l’asse centrale della politica, come si mantiene intatta la dimensione morale della decisione? Come si evita che la politica si riduca a mera amministrazione della paura?

Ecco che la memoria torna. Ma non come storia narrata. Come segreto che pulsa sotto la superficie. Come ciò che non si riesce a dire. Perché ricordare il 2022 significa ricordare che già allora sapevamo che la dipendenza energetica era un nodo fatale; ricordare che già allora sapevamo che le sanzioni avrebbero avuto costi concreti, ma la decisione contro l’opinione dominante era difficile. Significa ricordare che la crisi non è un incidente, non è una deviazione: è un elemento strutturale del sistema globale in cui siamo immersi.

E insieme memoria significa anche riconoscimento della limitazione. Che il desiderio della sovranità energetica, della autonomia, della indipendenza, è spesso rimasto parola, promessa, progetto, ma scarsamente praticato con la radicalità necessaria. Le energie rinnovabili, il risparmio, il mutamento dei modelli di consumo restano ben progettati, ben evocati, ma spesso abbandonati all’orizzonte del possibile, lasciati sospesi fra il dire e il fare.

Ciò che è cambiato, dunque, è che siamo diventati più consapevoli della distanza fra parola e realtà. È cambiato che la retorica delle emergenze ha perso in parte il suo potere di mobilitare: perché l’emergenza ripetuta stanca, sovraesposta, diventa rumore. È cambiato che le alternative tecniche si sono rafforzate — nuovi rigassificatori, infrastrutture aumentate, rotte di approvvigionamento diversificate — ma non tanto da annullare la vulnerabilità di fondo. La struttura della dipendenza è rimasta, come un osso nel tessuto che non si può rimuovere senza rompere tutto.

È cambiato che anche l’elezione politica si è fatta più fragile, più esposta al giudizio immediato del consumo energetico, più sensibile alle fluttuazioni del mercato. Le coalizioni, i governi, le opposizioni, tutti hanno dovuto misurarsi non solo con i principi, ma con la conseguenza concreta del blackout, del prezzo alto, dell’inefficienza. Il consenso è divenuto misura del grado in cui un governo protegge contro la paura del freddo, contro la minaccia del razionamento, contro la chiusura della fabbrica. Ed è cambiato che questo governo, questi governi — locali, nazionali, europei — hanno capito che la sopravvivenza simbolica della reputazione internazionale, della posizione morale, può costare quanto la sopravvivenza materiale.

E tuttavia — e qui sta il punto che non può essere eluso — nulla di essenziale è mutato. La crisi energetica non è risolta, la relazione con la Russia non è normalizzata, la sanzione non è caduta. Feltri aveva chiesto cancellazione delle sanzioni come gesto pratico. Ma il gesto non è stato compiuto. Perché c’è qualcosa nel tempo politico che frena, che resiste, che tiene fermo ciò che appare ingiusto o insostenibile. C’è la forza del vincolo morale, la pressione internazionale, la necessità di non isolarsi, il timore che il gesto pragmatico si interpreti come capitolazione. C’è la paura che il gesto, una volta compiuto, apra una voragine che nessuno sa come colmare.

Allora il gesto resta nel discorso, resta come enunciato che si ripete, necessario eppure irrilevante; come martello che batte sullo stesso chiodo, ma non penetra completamente. Come immagine radiofonica che evoca un argomento necessario, ma che ogni mattina viene rimossa dal sole della cronaca, dalle emergenze che sopraggiungono, dalle tensioni nuove che reclamano la priorità.

E ciò che non è cambiato è la condizione della fragilità, della precarietà. Che non è solo economica o tecnica, ma esistenziale. È la precarietà del vivere nel tempo che non promette più senza tradire, nel linguaggio che non rassicura, nella politica che promette e rimanda. È la precarietà dell’identità collettiva che non sa più a chi o cosa crede, se al principio della solidarietà europea, alla dipendenza da materia prima estera, al principio della giustizia internazionale, o al bisogno vero, quotidiano, di non gelarsi le dita, di non spegnere la luce.

La domanda che emerge, in questa sospensione che dura ormai da anni, è se il discorso politico sia ancora capace di essere pensiero — non mera azione, non mero slogan, non mero riflesso del mercato o dell’umore. Se sia capace di abitare la differenza tra l’urgenza e l’etica, tra il necessario e il giusto, tra il calcolo tattico e la decisione che impone di misurare il costo non solo in unità di gas o in tonnellate di CO₂, ma in coraggio politico.

C’è un punto in cui la memoria non basta più, ma la decisione non è ancora possibile senza rischio. La decisione sarebbe cancellare le sanzioni, o almeno ripensarle radicalmente; sarebbe rompere con la logica che vuole che la politica estera sia solo discorso simbolico; che le politiche energetiche possano restare autonome rispetto alla bussola morale; che la sopravvivenza materiale possa sempre trovare scappatoie. Decisione significa, in questo caso, accettare che certe reti internazionali si disfino, che certe alleanze si incrinino, che la reputazione possa subire danno, che il giudizio storico sia severo. Significa che il presente diventa momento di responsabilità non solo nel fare, ma nel dire; non solo nel progettare, ma nel confessare la limitatezza delle proprie posizioni; non solo nel promettere, ma nel confrontarsi con ciò che non può essere evitato indebolendo le pretese retoriche.

Eppure, sembriamo sempre rimandare. Sempre ritardare. Le mosse più radicali vengono evitate. Le discussioni restano sul piano della teoria o della contingenza. Le priorità vere — riduzione del consumo, cambiamento dei modelli di vita, nuove infrastrutture — rimangono a metà strada. Il sistema politico-economico continua a muoversi con la lentezza con cui si muove un animale ferito: cautela, esitazione, difesa. Le immagini cambiano: nuovi porti per il gas liquefatto, rotte alternative, accordi commerciali. Ma la forma del capitale energetico, la struttura della dipendenza, rimane più resistente di qualunque modifica infrastrutturale.

Cambia la stagione, non cambia la paura. Cambia il governo, non cambia la tensione. Cambia la proposta, ma non cambia la costanza della crisi. È come se la crisi avesse preso possesso del tempo, lo avesse plasmato alla sua misura. E noi, poveri parlanti, cari politici, tecnici, cittadini, siamo diventati gli spettatori affaticati di una recita che non trova la sua catarsi.

Allora è necessario tornare a ciò che Feltri diceva: che esiste una sola soluzione rapida. Non perché sia facile, ma perché ogni altra è più lenta, più incerta, più imperfetta. Non perché sia la migliore, ma perché è quella che riconosce la priorità del reale. E che il reale — il freddo, la notte, l’interruzione del flusso, la bolletta che schizza — non aspetta che la storia finisca o che la moralità si sedimenta. Il reale chiede, impone, non concede sconti.

Eppure non basta riconoscere il reale. Bisogna anche pensarlo. Bisogna pensare la relazione tra ciò che vorremmo, ciò che possiamo, ciò che siamo disposti a riconoscere come limite. Pensare non come esercizio retorico, ma come pratica di sospensione, di scavo sotto le superfici del discorso. Pensare che cancellare le sanzioni non significhi solo liberarci da un vincolo esterno, ma assumere la responsabilità del vuoto che si apre, del giudizio che dovremo dare, del prezzo che saremo costretti a pagare non solo in termini economici, ma morali, politici, identitari.

La verità è che nessuna decisione è neutra. E quando la dipendenza energetica diventa così intensa, come è diventata, ogni sanzione è trasparente come un vetro: si vede attraverso, si percepisce il peso. E ogni gesto che chiama “giustizia” o “solidarietà” si incarica anche del suo contrario: l’energia costosa, il freddo, la minaccia del blackout. Non c’è via che non passi attraverso questa tensione.

La crisi continua. Non come capitolo da chiudere, ma come orizzonte che modella ogni passo che facciamo. La memoria del 2022 non è passato remoto: è ombra sempre presente, che cammina con noi nelle stanze fredde, nei contatori che segnano cifre alte, nei silenzi delle fabbriche, nei sogni dei bambini che cercano calore. E la giovinezza del discorso politico non è promessa piena, ma attesa sospesa, incertezza che grava ma può diventare forza se accolta.

Se qualcosa può cambiare davvero, non sarà attraverso la retorica delle soluzioni rapide, né con la speranza che il miracolo diplomatico abolga le conseguenze materiali. Cambierà se saremo disposti a riconoscere che la crisi è parte della nostra struttura, non eccezione; che non esiste “fuori” da cui tornare; che ogni decisione è composta di rischio, perdita, esporsi al giudizio. Se saremo disposti a spogliare il discorso pubblico della sua finzione dominante, a restituire valore al dire difficile, al gesto impopolare, al sacrificio concreto. Se capiremo che la soluzione non sta tanto nel fare tutto subito, ma nel pensare tutto, nel muovere il gesto in modo che non sia semplicemente reazione, ma rottura di un presente che ci opprime.

E la crisi continua. Le ombre si allungano. La luce, quando arriva, è cangiante. Non è promessa, è domanda. Non è certezza, è tensione. Quel che resta è la decisione che non si abbandona al facile compromesso, ma che si misura con la verità della dipendenza, con la durezza del reale, con la fragilità del presente. Quel che resta è l’atto di pensare. Quel che resta è la domanda che non tace. Quel che resta è il riscaldamento della coscienza che, insieme al riscaldamento del corpo, ci spinge, forse, verso un modo altro di abitare il tempo.

 

 

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