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La Favola dell’Umanità di Peppone e Don Camillo

Scritto da Danilo Pette il . Pubblicato in .

L’eredità di un uomo civile e il messaggio senza tempo di due protagonisti italiani che superano le ideologie per difendere i diritti degli ultimi

L’opera di Giovannino Guareschi e le vicende di Don Camillo e Peppone rappresentano una delle narrazioni più emblematiche e sfaccettate del Novecento italiano, capace di intrecciare in modo sorprendente temi religiosi, sociali e politici con una vena di umorismo e ironia fuori dal comune. Nel contesto storico del dopoguerra, un’Italia in cerca di ricostruzione materiale e morale, la storia di un prete e di un sindaco comunista che si sfidano quotidianamente, ma si alleano quando si tratta di difendere il bene comune, diventa una potente metafora della convivenza civile. Questo dualismo, apparentemente inconciliabile, si trasforma in un invito a superare steccati ideologici e a riscoprire il valore della coscienza e della responsabilità verso gli altri, soprattutto verso i più vulnerabili.

L’analisi proposta da Lamberto Fornari, attraverso il suo saggio “Don Camillo e Peppone e Bertoni”, ci guida a esplorare non solo l’origine letteraria e cinematografica di queste figure, ma soprattutto il profondo legame con la realtà sociale e culturale dell’Italia di quegli anni, mettendo in luce l’eredità educativa e civile che ancora oggi risuona nelle sfide contemporanee. È proprio in questo intreccio tra realtà e favola, tra impegno e leggerezza, che si nasconde il messaggio universale di Guareschi, un messaggio di pace, giustizia e umanità che attraversa il tempo e invita a riflettere su cosa significhi davvero “essere uomo civile”.

Ricordare Giovannino Guareschi significa richiamare alla mente un mondo che sembrava piccolissimo – come lui stesso lo definiva – ma così intenso da contenere l’intera umanità, con le sue contraddizioni, i suoi drammi, le sue speranze, e soprattutto la sua capacità di ricomporre la frattura tra opposti. Il memorabile sguardo del giornalista, vignettista, umorista e narratore dell’Italia del dopoguerra, capace di trasformare la cronaca di provincia in allegoria universale, affiora con forza nella saga di Don Camillo e Peppone, due figure apparentemente inconciliabili – un parroco integralista e un sindaco comunista – ma in realtà profondamente alleati nella lotta per i diritti e la dignità del popolo.

L’intreccio tra il sacro e il profano, tra fede e ideologia politica, assume nei racconti di Guareschi una dimensione quasi fiabesca, sospesa tra il neorealismo postbellico e il surreale magico, eppure profondamente radicata nella realtà contadina e industriale dell’Emilia Romagna. Non è una ricostruzione stilizzata del Paese in ricostruzione, bensì la descrizione di una comunità in cui ciò che conta è la giustizia sociale, la solidarietà concreta, la lotta contro l’arroganza del potere, sia esso politico o religioso.

Don Camillo e Peppone sembrano nemici, come vuole l’immaginario collettivo e come spesso ha sfruttato l’industria cinematografica, a partire dal primo film di Julien Duvivier del 1951. Ma in realtà frequentano lo stesso versante, quello della difesa delle persone più deboli, degli “ultimi”. Quando le istituzioni calpestano i piccoli diritti quotidiani, ecco che Don Camillo abbandona la sacrestia per difendere un giusto compenso ai lavoratori, e Peppone, malgrado il proprio credo comunista, difende il diritto alla messa nella parrocchia o dona fondi per la ricostruzione. Quel che emerge è una fratellanza civile, una presa di coscienza che supera ogni steccato ideologico.

Il neorealismo di Guareschi non ricalca i toni sacrificati o puristi di Zavattini, bensì adotta un registro ironico, mordace, umoristico: una “favola all’italiana” che parla di riscatto e speranza, di contrapposizioni ma anche di riconciliazioni. In quest’ottica, Don Camillo non è un prete reazionario e Peppone non è un burbero comunista; sono piuttosto due interpreti di un patto morale con la comunità: la coscienza. Lo scambio tra fede religiosa e laicità politica trova nella loro amicizia, ricca di battibecchi e prese di posizioni, il suo cuore pulsante.

La dimensione surreale e fantastica scelta dal cinema adatta la penna di Guareschi a un pubblico più ampio ma mantiene intatto il nucleo critico e civile del suo pensiero: edificare una comunità giusta significa restituire valore all’individuo, all’uomo concreto, prima che al separatismo ideologico. Questo messaggio ha avuto risonanza non soltanto nel dopoguerra, ma anche oggi, come lo dimostra l’incontro organizzato dalla Diocesi di Roma il 15 marzo 2013, intitolato “Don Camillo e Peppone, educatori di oggi”. Vi si è sottolineato come questi personaggi, pur nati da una penna satirica e ironica, rappresentino ancora oggi un modello educativo: la fede non si trasmette solo attraverso nozioni astratte, ma tramite storie che parlano al cuore, come la risonanza del Vangelo nella vita quotidiana. L’appello dell’incontro si è concluso con un’affermazione forte: Peppone, Don Camillo e Guareschi non sono semplicemente personaggi, ma tradizione viva della Chiesa, “in parte parola di Dio”.

La forza pedagogica dei racconti emerge anche nel dialogo sul battesimo tra i due protagonisti: un momento in cui la fede e l’ideologia dialogano senza scontrarsi, cambiando forme e ruoli rispetto all’immaginario comune. Educatori non nel senso di dogmatici professori, ma narratori consapevoli: la fiaba, proprio come Guareschi la racconta, è verità sociale, strumento di riflessione e formazione, capace di indicare possibili strade per ribellarsi ai mostri dell’ideologia cieca.

Nella vita reale, Giovannino Guareschi visse un’esperienza cruciale: la prigionia durante la Seconda guerra mondiale nei lager tedeschi. Ne uscì con la stessa dignità, coerente con la sua visione di “uomo civile”. Questa esperienza non lo spezzò, ma lo temprò, alimentando la sua passione per la verità e il rifiuto della retorica. La sua capacità di vivere l’assurdo con ironia – la scelta di far sorridere la gente, come egli stesso racconta – emerge nella rivista Candido, creata da lui, dove la satira diventa arma potente contro la superficialità, l’ignoranza e il conformismo.

Colpisce che alla sua morte, nel luglio del 1968, la partecipazione ai funerali fosse scarsa; tra i pochissimi presenti, l’amico Enzo Biagi, a testimonianza dell’incomprensione di un intellettuale che fu al contempo reazionario per formazione e anarchico per spirito. Eppure, il suo lascito – anche grazie all’attenzione successiva della Chiesa e dei sostenitori della fede responsabile – rimane centrale: un testimone che ha dimostrato che, anche nel conflitto, è possibile restare amici, e che dal conflitto può nascere la vera pace.

Nel 2024, durante Pesaro Capitale italiana della Cultura, è stato presentato il saggio dell’autore umbro Lamberto Fornari, intitolato Don Camillo e Peppone e Bertoni, una riflessione destinata a rafforzare la memoria del nostro scrittore. Fornari recupera il rapporto tra la narrativa scritta e la sua trasposizione cinematografica, ma soprattutto le radici vere – testimoni di storie reali, radicate nelle ingiustizie sociali e nella resistenza morale – da cui le opere di Guareschi hanno tratto originalità e forza. Guareschi si pone infatti in un dialogo fluido con il neorealismo di Zavattini, con la narrativa introspectiva e intensa di Elsa Morante o di Tomasi di Lampedusa, ma, soprattutto, riscopre il genere favolistico portandolo a un livello di densità critica che avvicina la satira popolare all’universale.

Non è un caso che, tra gli stimoli dichiarati, vi siano Alfred Edward John Chesterton — con la sua idea che le favole non illustrano l’esistenza dei draghi, ma la loro sconfitta — e Pier Paolo Pasolini, con il suo “Vangelo secondo Matteo”, in cui la narrazione storica e coerente porta con sé una dimensione rivoluzionaria. E se da Pasolini Guareschi eredita il rigore del racconto, da Plauto e Pirandello riceve la leggerezza del riso, l’ironia che sovverte senza demolire, che avvicina senza strappare.

Don Camillo e Peppone sono icone viventi dell’Italia del dopoguerra, ma anche figure eterne, capaci di raccontare un’etica della responsabilità, un credo nel dialogo e nella partecipazione attiva. Non sono personaggi di monolite ideologico, ma compagni di coscienza che insieme portano avanti una lezione educativa: nessuna ricostruzione morale, politica o comunitaria può prescindere dalla cura concreta delle persone. Le loro battaglie, spesso quotidiane, contro l’ingiustizia, si collocano in un alveo morale che non ammette neutralità: chi si gira dall’altra parte diventa complice.

E questa è la vera eredità di Giovannino Guareschi: una favola civile, tanto comica quanto tragicamente seria, che consegna ai lettori e ai fruitori di cinema — ma anche agli studenti, agli educatori, agli amministratori — l’idea che la buona politica e la buona fede non stanno nel possedere la verità, ma nel cercarla insieme, pur nella diversità. Ed è in questo rapporto, autentico, tra un prete ribelle e un comunista buono, tra il sacro e il laico, che abbiamo una lezione per il presente: costruire comunità significa riconoscersi nei bisogni dell’altro, farsi carico della sua vita, superare l’ideologia per incontrarsi nella responsabilità.

La concretezza di Don Camillo e Peppone, così come la coerenza morale di Guareschi, non estingue l’ironia; anzi, la alimenta. E in questo risiede la loro attualità: in un’epoca dominata dalla polarizzazione, dalla rigidità dei confini ideologici, essi ricordano che esistono modi diversi di appartenere a una comunità, ma che tutte le appartenenze devono fondarsi sul rispetto, sull’ascolto, e — perché no — sulla capacità di ridere di sé, degli altri, dei mostri della storia.

La favola diventa così strumento formativo, più di un manuale, perché ci insegna come sconfiggere i draghi, come diceva Chesterton, senza cedere ai mostri della burocrazia, del fanatismo, della disumanizzazione. E per Guareschi il riso non è evasione: è resistenza. Non un riso fine a sé stesso, ma un riso che scava, che racconta, che denuncia. Un riso che resiste.

Ecco perché Don Camillo e Peppone continuano a parlarci. Perché continuano a raccontare un’Italia – e un’umanità – possibile: fatta di conflitto, sì, ma anche di incontro; fatta di diversità, ma unita nella cura reciproca; fatta di storie locali ma risonanti di verità universali.

Così, ripensando alla “saga del mondo piccolo”, al sacro e al laico che dialogano, al potere che si serve delle persone e all’amicizia che riparte dalle persone, emergono alcune verità universali: che la coscienza è più forte di ogni steccato; che la giustizia comincia dal singolo gesto; che la fede — religiosa o politica — deve incarnarsi nella cura concreta degli altri. E che l’ironia, sotto la cui maschera si cela spesso la protesta più coraggiosa, può restituire dignità persino alle situazioni più disperate.

Insomma, nella leggerezza dei dialoghi tra prete e sindaco, nel tono apparentemente popolare e comico, vive un messaggio serio e impegnativo: essere uomini e donne responsabili, liberi di ridere insieme, ma anche di lottare insieme, contro tutto ciò che toglie dignità.

È questa eredità che Lamberto Fornari, con il suo saggio presentato a Pesaro nel 2024, ci invita a recuperare, raccogliendo l’intreccio tra scrittura, cinema e vita, e rivendicando una lettura di Guareschi come custodio della coscienza civile.

Perché infine le favole non servono a illuderci che i mostri non esistano, ma ci dimostrano che i draghi possono essere sconfitti — se non smettiamo di credere nella forza dell’umanità, della comunità, della coscienza.

©Danilo Pette

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