La Germania in terapia intensiva economica
Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in Economia e Politica.
A cura di Agostino Agamben
Quando il mito della solidità si sgretola la Germania e la caduta della sua tripla A come rivelazione di una crisi profonda della forma politica, economica e temporale. Un’analisi sulla recessione tedesca del 2024, il venir meno della supremazia finanziaria e il ritorno della finitezza nella governance europea, tra stagnazione strutturale, crisi di immaginazione e la necessità di inventare un nuovo nomos del tempo in un mondo che si de-occidentalizza
Non è mai immediatamente visibile il momento in cui un sistema, una forma di vita, una macchina statuale ed economica, comincia a perdere la propria consistenza, a sbiadire la linea che la delimita e la definisce. Ciò accade sempre in modo sotterraneo, attraverso un lento scivolamento che si rivela solo a posteriori. La Germania, con il suo glorioso rating AAA, con il suo status di faro della stabilità europea, sembra aver imboccato oggi quel sentiero. Ma cosa significa davvero, per un paese, perdere il suo rating tripla A? La risposta non è tecnica, né limitata al campo dell’economia, bensì apre un varco nel senso stesso della sovranità e della forma politica.
In apparenza, l’annuncio del downgrade è solo una questione di numeri, di prestazioni macroeconomiche, di dati di PIL che si contraggono per la seconda volta consecutiva, di debito pubblico che deve essere rilanciato per evitare il peggio, di crisi di alcuni settori industriali emblematici come quello automobilistico, simbolo per eccellenza del made in Germany. Ma tutto ciò è soltanto la superficie di un processo molto più profondo, un movimento che coinvolge non solo la struttura economica, ma il modo in cui la Germania stessa si rappresenta e si regge come soggetto politico e sociale.
La tripla A, in questo senso, è stata più di una classificazione finanziaria. È stata un mito laico, una sorta di ipostasi moderna dell’onnipotenza tedesca nel contesto europeo post-2008. Quel simbolo contabile ha rappresentato un patto tacito tra la Germania e il mondo: la promessa di una razionalità economica, di una rigidezza morale, di una solidità strutturale in grado di garantire un ordine stabile. Per decenni, la AAA ha incarnato quella forma di sovranità che si esprimeva proprio nella sua capacità di mantenere il controllo sul futuro, di tenere in equilibrio i tempi e i rischi dell’economia globale.
Ora, però, quell’equilibrio si spezza. Non si tratta solo di un calo del PIL o di un peggioramento del rating. Si tratta della crisi stessa della forma di potere che quella tripla A ha veicolato. Quando il rating si sgretola, non è solo la credibilità finanziaria che viene meno, ma la capacità di pensarsi come potenza disciplinata e affidabile. La Germania non perde soltanto un numero, perde la narrazione che l’ha sorretta, perde la capacità di incarnare quella forma di eccezione che l’ha distinta in Europa.
Il Pil tedesco, previsto in contrazione dello 0,2% per il 2024, è l’indicatore più visibile di questa caduta. Ma la recessione non è solo un dato economico: è l’espressione di un tempo che si fa sospensione, di un futuro che si nega. Non si assiste a un semplice calo, ma a una trasformazione del tempo storico in una sorta di stasi che diventa condizione permanente. La recessione tedesca è il segno che la Germania non solo rallenta, ma smette di pensare il futuro come campo aperto delle possibilità.
Il caso Volkswagen è emblematico: la chiusura degli stabilimenti, i licenziamenti annunciati, non sono eventi contingenti, ma il segno di un sistema industriale che mostra la sua fragilità strutturale. Non è un semplice settore in crisi, ma un corpo che si contrae, che si ritira su se stesso. E la stessa Intel che congela un investimento importante indica un fenomeno più ampio, di perdita di fiducia e di centralità.
Le ragioni sono molteplici, ma tutte convergono su un punto fondamentale: l’economia tedesca vive da anni una stagnazione che, lungi dall’essere un accidente, si configura come una nuova condizione strutturale. La crescita, che nel paradigma liberale era la legge fondamentale dell’economia, qui si fa promessa disattesa, miraggio lontano. La stagnazione – parola che in economia suona come tabù, ma che in filosofia ha il suo statuto riconosciuto – indica un tempo senza direzione, un presente che si consuma senza aprire un orizzonte.
Se questa è la situazione, allora il ricorso al debito da parte di Christian Lindner assume un significato che va oltre la mera tattica economica. Nel sistema politico tedesco post-Weimar, la “Schuldenbremse”, il freno al debito, non è solo una regola tecnica, ma un dispositivo teologico-politico. Il debito è stato elevato a peccato originale della politica economica, e il suo contenimento una sorta di disciplina morale. Lindner, allora, si trova a compiere un atto quasi sacrilego, o meglio, un atto di necessità che manifesta la crisi del patto stesso che ha regolato la forma-stato tedesca. Abbandonare la sacralità del pareggio di bilancio è segno che la forma è diventata inadeguata a contenere la realtà.
Si apre così, nel cuore della Germania, uno spazio di eccezione, un “nomos dell’eccezione” che non è più esterno allo Stato ma ne costituisce il cuore. Il debito non è più una trasgressione, ma una tecnica di sopravvivenza. La forma statuale appare indebolita nella sua capacità di interpretare il presente e proiettarsi nel futuro, e il ricorso alla leva del debito è il gesto con cui si riconosce questa debolezza e si tenta di prolungare l’agonia.
Perché la recessione non è un accidente, ma una condizione. Il tempo si piega su se stesso, il presente diventa uno stato di eccezione permanente, e il futuro si dissolve. In questo quadro, la domanda interna non risponde più, nonostante gli stipendi in crescita e gli eventi come gli Europei di calcio, che dovrebbero stimolare i consumi. Non risponde la domanda esterna, che si dissolve nell’ordito di un mondo che si de-occidentalizza e che rinegozia le sue gerarchie.
Questa crisi non è dunque solo economica. È una crisi di immaginazione. Nel vuoto che si apre nella forma tedesca, il governo Scholz tenta di reimpostare la narrazione attraverso misure tecniche: sgravi fiscali, riduzione del costo dell’energia per l’industria, snellimento burocratico, incentivi per il lavoro degli anziani e per l’immigrazione qualificata. Ma queste misure sono tentativi disperati di costruire una forma-nuova a partire da una forma che si sfalda.
La crisi climatica, evocata come orizzonte e giustificazione, è la nuova grande narrativa. Non più il mercato, non più la moneta, ma il cambiamento climatico diventa il nuovo Leviatano, il principio organizzatore delle politiche pubbliche e private. Qui si assiste a una inversione teologica: il peccato non è più il debito, ma l’inazione ecologica. L’azione politica diventa quindi un atto di salvezza, ma resta da vedere se quella salvezza sia ancora possibile quando la forma di decisione stessa è incrinata.
La crisi della Germania, in fondo, è crisi della decisione. Non si tratta di reagire a un dato contingente, ma di produrre un tempo comune, un progetto condiviso. La politica, ridotta a mera amministrazione del dato, perde la sua dimensione creativa e profetica. La decisione si riduce a calcolo, e il calcolo non salva.
La AAA, allora, è molto più di una valutazione. È uno stato mistico, uno stato di grazia in cui la Germania si è tenuta per decenni. Ora quella grazia decade, e il debito si ripresenta non come condanna, ma come necessità vitale. La Germania si scopre corpo vulnerabile, esposta, umana. Il mito dell’efficienza, del rigore, della disciplina si frantuma, non perché errato, ma perché esaurito.
La Germania, che per decenni ha voluto essere eccezione, centro razionale e ordinatore di un continente irrazionale, si scopre simile agli altri, fragile, stanca, incompleta. La perdita della AAA non è uno scandalo, ma un’epifania. Non la fine, ma il ritorno del reale, e il reale non è mai perfetto.
Il futuro della Germania non si gioca più nel margine di spesa pubblica, ma nella capacità di articolare un nuovo nomos del tempo. La ripresa prevista per il 2025, con un modesto +1,1%, non può essere solo il ritorno di un passato ormai logoro. Senza un’immagine che dia senso, ogni cifra è solo un guscio vuoto.
Il rischio più grande non è il downgrade delle agenzie, ma il declino dell’immaginazione politica. Un mondo che cambia reclama parole nuove, una grammatica che non si limiti alla produttività, alla competitività, all’innovazione. Parole che dicano il presente nella sua nudità: la fragilità, l’incertezza, l’apertura. A come alterazione, attenzione, accettazione.
Solo quando il simulacro cadrà, solo allora, forse, la Germania potrà ricostruire una nuova forma: non più quella dell’eccezione, ma della coabitazione con l’imperfezione, con la finitezza, con il comune destino dei popoli.
Nel frattempo, resta il corpo nudo dell’economia, la finanza che osserva, la politica che si affanna. Ma in tutto ciò resta anche, fragile e necessaria, la possibilità di pensare di nuovo. E in quel pensiero, forse, un giorno, la Germania tornerà a respirare. Non nel pieno del potere, ma nella sua sottrazione.