
La Giustizia dell’Amore
Scritto da Fulvio Muliere il . Pubblicato in Costume, Società e Religioni.
a cura di Fulvio Mulieri
Un viaggio nel cuore della misericordia; del perdono e della riconciliazione come fondamenti di una giustizia divina che supera le logiche umane.
Nel cuore delle relazioni umane, la giustizia è spesso intesa come bilanciamento, compensazione, corrispondenza tra colpa e pena. Un paradigma ereditato dalla razionalità giuridica e dal senso comune, che misura gli atti e valuta i comportamenti attraverso parametri rigorosi e spesso inflessibili. Tuttavia, quando si parla di giustizia in prospettiva evangelica, e in particolare nel contesto della parabola del Padre Misericordioso, ci si trova di fronte a un rovesciamento radicale di queste logiche: non più la legge che punisce, ma l’amore che perdona; non più il merito che premia, ma la gratuità che salva.
La parabola del Padre Misericordioso, contenuta nel Vangelo di Luca, rappresenta uno dei nuclei più potenti e profondi della narrazione evangelica. Non è soltanto un racconto edificante su un figlio che si pente e su un padre che perdona, ma è una vera e propria rivoluzione spirituale e antropologica che scardina i principi su cui si fonda la giustizia umana e propone una visione radicalmente nuova della relazione tra individuo, comunità e divinità. In questa storia, le logiche della colpa, del merito e della punizione vengono completamente sovvertite a favore di una giustizia che si esprime nella forma più alta dell’amore: l’accoglienza incondizionata. Il perdono non viene concesso dopo aver valutato il pentimento, né come ricompensa per il ravvedimento, ma si manifesta come iniziativa gratuita del cuore del padre, che ama indipendentemente da ciò che il figlio ha fatto.
Questa logica non appartiene all’orizzonte della giustizia umana, che generalmente si fonda sull’equilibrio tra offesa e punizione, sul ristabilimento dell’ordine violato attraverso la riparazione del danno. L’uomo, nelle relazioni sociali e giuridiche, tende a valutare i comportamenti secondo parametri di colpevolezza e merito, a stabilire diritti e doveri, a misurare ogni atto secondo un metro di reciprocità. Chi sbaglia deve pagare; chi merita deve ricevere. Invece, il padre della parabola non applica alcun tipo di condizionalità: non chiede spiegazioni, non pretende prove di ravvedimento, non pone condizioni al perdono. La sua giustizia non è quella del codice o della legge, ma quella del cuore che ama oltre ogni calcolo, che abbraccia prima ancora di sapere.
Nel momento in cui il figlio minore, dopo aver dissipato tutto il suo patrimonio in una vita sregolata, decide di tornare a casa, lo fa mosso non da un pentimento spirituale profondo, ma da una necessità materiale: la fame, la disperazione, la solitudine. Non pensa di poter essere riaccolto come figlio, ma spera almeno di essere trattato come uno dei servi. Tuttavia, appena il padre lo scorge in lontananza, corre incontro a lui, lo abbraccia, lo bacia, gli restituisce immediatamente dignità con un anello, una veste nuova, dei sandali ai piedi. Questi gesti non sono simboli di una clemenza concessa, ma di un’identità restituita. Il figlio non viene reintegrato dopo una lunga penitenza, ma immediatamente riconosciuto come parte insostituibile della famiglia, come essere degno d’amore e accoglienza. Questo è il cuore della giustizia dell’amore: non punire, non giudicare, ma restaurare, ricostruire, redimere.
Questo tipo di giustizia rompe anche la logica del merito, principio fondante della società umana, secondo il quale ciò che si ottiene è proporzionato a ciò che si fa. In molte tradizioni culturali e religiose, l’idea di salvezza è legata alla condotta morale dell’individuo, al rispetto delle norme, all’adempimento di doveri. Il Vangelo, invece, con questa parabola, ci dice che la salvezza non si guadagna, ma si riceve. Essa non è frutto di uno sforzo umano, ma di una grazia che precede ogni atto, ogni pentimento, ogni conversione. Non è il figlio che, con la sua decisione di tornare, si guadagna il perdono; è il padre che lo precede con il suo amore, che non aspetta spiegazioni, ma corre ad accogliere. Il dono precede il merito. La giustizia divina non premia, ma salva; non valuta, ma riconosce. In questa prospettiva, la misericordia non è un’eccezione alla giustizia, ma ne è la forma più alta, perché essa ricrea l’ordine attraverso l’amore, non attraverso la punizione.
Il grande teologo Sant’Agostino scriveva che “Dio non ci ama perché siamo buoni, ma siamo buoni perché Dio ci ama”. Questo ribaltamento totale della prospettiva morale illumina la parabola del Padre Misericordioso con una luce radicale: l’amore non è una conseguenza, ma un’origine. Non si tratta, quindi, di una giustizia che si aggiunge all’amore, ma di una giustizia che è amore. L’amore gratuito del padre è capace non solo di perdonare, ma di trasformare: restituisce dignità a chi l’ha perduta, reintegra chi era stato escluso, rinnova la speranza di chi si sentiva perduto. In questo senso, la giustizia divina si configura come un atto creativo, generativo, non semplicemente riequilibratore.
L’atto del perdono, nella parabola, è quindi tutt’altro che un’amnistia superficiale o una sospensione della pena. È un gesto che ricostruisce la relazione, che riapre la comunicazione tra padre e figlio, che ristabilisce un’alleanza. Non elimina la colpa come se non fosse mai esistita, ma la supera, la trasforma in occasione di rinascita. In questo, la giustizia dell’amore si rivela come una giustizia relazionale, fondata sul legame e non sul giudizio. Non si tratta di decidere chi ha torto e chi ha ragione, ma di ricostruire la comunione, di rendere possibile la convivenza. È una giustizia educativa, che non punisce per correggere, ma ama per rigenerare.
Questo insegnamento ha implicazioni profondissime non solo sul piano teologico, ma anche su quello antropologico, sociale e pedagogico. La figura del padre diventa modello di educatore, non nel senso di colui che ammonisce o punisce, ma nel senso più radicale di chi accompagna, sostiene, accoglie. Egli non umilia il figlio per il suo errore, non lo riduce a peccatore, ma lo reintegra nella sua identità più autentica di figlio. Lo educa con l’amore, gli insegna che nessun errore può cancellare la relazione. È questa la pedagogia dell’amore che trasforma: non quella che impone, ma quella che accoglie; non quella che corregge con la forza, ma quella che ricostruisce con la tenerezza. Una pedagogia capace di generare non obbedienza, ma consapevolezza e libertà.
Il perdono, in questa prospettiva, non è mai un atto debole o ingenuo, ma è un atto forte e creativo, che richiede una grande maturità interiore e una visione spirituale profonda. Perdonare significa credere nella possibilità del cambiamento, della redenzione, del rinnovamento. Significa non fissare l’altro nella sua colpa, ma continuare a vederlo come portatore di dignità e speranza. In questo senso, la parabola del Padre Misericordioso è un’icona della responsabilità infinita di cui parla il filosofo Emmanuel Levinas. Egli ci invita a riconoscere che la responsabilità verso l’altro nasce prima di ogni giudizio, prima di ogni merito: è una risposta alla sua fragilità, al suo bisogno, alla sua umanità.
Levinas ci ricorda che l’altro ci interpella con la sua semplice esistenza, che la nostra identità è costituita dalla risposta che sappiamo dare al suo volto. E il padre della parabola risponde con tutto sé stesso al volto umiliato del figlio, risponde senza chiedere nulla, con un’accoglienza che è totale, radicale, gratuita. In questa risposta si manifesta la vera essenza della giustizia: non il calcolo dei torti, ma il riconoscimento dell’altro. L’altro, anche quando ha sbagliato, rimane altro da me, e proprio per questo merita attenzione, cura, amore. La giustizia non è allora la distribuzione di pene, ma l’arte dell’incontro, del riconoscimento reciproco.
Anche Hans-Georg Gadamer, con la sua visione ermeneutica della giustizia, ci aiuta a comprendere la profondità della parabola. Secondo Gadamer, la giustizia non è mai un’applicazione meccanica di norme astratte, ma un processo dialogico, una comprensione che nasce nell’incontro tra soggetti. La legge da sola non basta: bisogna interpretare, ascoltare, mettersi nei panni dell’altro. Il padre della parabola non agisce in base a una norma, ma in base a una comprensione profonda del cuore umano, della fragilità, del bisogno d’amore. La sua giustizia è ermeneutica: sa leggere il ritorno del figlio non come un cal
colo opportunistico, ma come un grido di aiuto, come una richiesta d’amore. E risponde a questo grido con un gesto di accoglienza che apre alla festa, alla condivisione, alla rinascita.
La dimensione comunitaria della parabola è altrettanto centrale. Il perdono non è un fatto privato, ma un evento pubblico che coinvolge tutti. Il padre non solo perdona, ma chiama tutti a fare festa, invita la comunità a partecipare alla gioia della riconciliazione. Questo significa che il perdono non è solo un dono personale, ma anche un atto sociale, che ricuce legami, che ricostruisce la convivenza. La comunità non deve giudicare, ma accogliere. Non deve escludere chi ha sbagliato, ma celebrarne il ritorno. In un mondo segnato dalla cultura dello scarto, dell’esclusione, della stigmatizzazione, questa parabola rappresenta un appello forte a una comunità inclusiva, capace di accogliere tutti, anche e soprattutto chi ha sbagliato.
Il pensiero di Simone Weil ci offre una chiave ulteriore per comprendere questa dinamica: per lei, la giustizia autentica è quella che guarda all’essere umano nella sua essenza, al di là delle sue colpe. È una giustizia compassionevole, che non si lascia determinare dall’esteriorità dell’atto, ma penetra nella profondità dell’anima. Weil ci ricorda che ogni essere umano, anche il più colpevole, ha diritto a essere ascoltato, compreso, amato. In questo senso, la parabola del Padre Misericordioso non è solo un racconto edificante, ma un manifesto etico, una chiamata radicale a cambiare il nostro modo di pensare la giustizia, il perdono, la convivenza.
Nel figlio maggiore, che si rifiuta di partecipare alla festa, ritroviamo le resistenze della giustizia umana: l’invidia, il risentimento, la logica del merito. Egli rappresenta tutti coloro che si sentono giusti e che, per questo, ritengono di avere più diritti degli altri. Ma il padre esce anche incontro a lui, lo invita a comprendere che l’amore non si divide, ma si moltiplica. Nessuno perde quando si ama. Anche il giusto ha bisogno di capire che l’amore non si guadagna, ma si riceve. In questo, la parabola è completissima: non si limita a mostrare l’accoglienza del peccatore, ma mostra anche la difficoltà del giusto a comprendere la logica dell’amore gratuito. La giustizia dell’amore non è facile da accettare, perché destabilizza ogni certezza, ogni calcolo, ogni aspettativa.
Eppure, è solo questa giustizia che può salvare davvero. Solo questa giustizia può costruire una comunità umana capace di perdonare, di accogliere, di ricominciare. Solo questa giustizia può restituire dignità a chi l’ha perduta, e speranza a chi si sente condannato. In un tempo in cui si invoca spesso più rigore, più sicurezza, più punizione, la parabola del Padre Misericordioso ci offre una provocazione potente: forse la giustizia di cui abbiamo bisogno non è quella che punisce, ma quella che perdona; non quella che esclude, ma quella che integra; non quella che condanna, ma quella che salva.