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La lunga Ombra della Pace

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura Agostino Agamben

Mentre l’Occidente si prepara al “banchetto” della ricostruzione postbellica, l’Ambasciatore Bruno Scapini invita a leggere il conflitto ucraino non attraverso la retorica delle vittorie militari, ma nel tempo lento del logoramento strategico, nella geografia della resistenza russa e nella fragilità di una pace che non può essere imposta dall’alto, ma solo costruita nel riconoscimento delle ferite storiche, delle identità negate e dei silenzi dimenticati.

Attraverso la cortina di retorica che avvolge il conflitto ucraino – le parole ufficiali, i resoconti mediatici, le accuse reciproche – si disegna un’altra trama, più sottile e resistente, fatta di omissioni, di continui rinvii, di orizzonti oscurati da una storia dimenticata eppure persistente. L’Ambasciatore Bruno Scapini, da molti anni immerso nei ragionamenti più attenti sulle dinamiche geopolitiche, vede in questa guerra non soltanto un evento avulso dalle precedenti stagioni della politica, ma il punto terminale di una lunga catena di inadempienze diplomatiche, di pregiudizi mai smaltiti, di un Occidente convinto di poter indirizzare il corso degli eventi restando sul bordo del mondo, senza entrare davvero nella carne dei conflitti. È in questa spaccatura – tra l’apparente opulenza delle promesse e la durezza delle logiche reali – che si insinua la verità che Scapini propone: non sarà l’offensiva militare dell’Ucraina contro il suolo russo a determinare la pace; non saranno le operazioni spettacolari ma piuttosto il logoramento, lento, esteso nei grandi spazi ostili, il fattore decisivo; e dall’altra parte, l’Occidente, con il suo fuoco di artificio propagandistico e la sua fiducia nel “banchetto della ricostruzione”, rischia di ignorare che la ricostruzione stessa è già terreno di scontro, già elemento conteso.

Scapini insiste su alcuni punti che spesso restano sul confine dell’udito pubblico. Primo: le origini dell’attuale conflitto affondano nella nostra dimenticanza, nell’incapacità dell’Occidente di riconoscere il pieno diritto all’esistenza politica e culturale della Russia dopo la caduta del blocco sovietico – non come potenza carceraria, ma come significante autonomo. Quando l’Occidente si è ritenuto padrone della storia, investito di una missione democratica, ha simultaneamente relegato l’Est a una zona d’ombra, uno spazio che doveva subire, adeguarsi, essere risucchiato nella sua orbita normativa senza che si tenessero veramente in conto le sue rivendicazioni, il suo slancio verso una sovranità che non fosse mera appendice di quel modello liberale che veniva universalizzato come destino inevitabile.

Secondo: le regioni estreme della Russia – da Murmansk al Mare di Barents, dalla tundra delle Siberie, fino all’oceano che bagna Kamčatka e le coste del Mare di Bering – non sono luoghi esotici, ma spazi vitali, eternamente vivi, che la storia ha attraversato ma non annichilito. Non sono soltanto scenario geografico, ma fattore strutturale di resistenza, di sopravvivenza. Il logoramento del nemico, in queste immensità, non si misura soltanto con la pressione militare, ma con la perseveranza del gelo, dell’inverno, della mancanza di infrastrutture, della distanza che divide ogni cosa: uomini, rifornimenti, comando centrale. Ed è lì che Scapini ritiene che si giocherà la persistenza della Russia: non tanto intensa quanto dispersiva, non tanto penetrante quanto estesa.

Terzo: il negoziato per la pace non può essere pensato come risultato immediato di vittorie territoriali. L’esperienza della storia militare insegna che occupare non equivale a controllare, che la conquista non coincide col consenso. Spesso l’offensiva diviene un atto simbolico, una manifestazione di forza che però non altera le profondità del conflitto: culture antagoniste non smettono di esserlo, identità che si sentono minacciate non si rassegnano. E dietro ogni linea avanzata, dietro ogni guadagno superficiale, persiste la possibilità che il conflitto si rigeneri, che si riproduca in forme differenti, che la pace rimanga un’ombra appena sfiorata. Per Scapini, allora, la pace non sarà il risultato della corsa a occupare, ma del tempo che parla, della fatica del contrasto, della tenacia delle condizioni ambientali che diventano esse stesse agenti di guerra.

In questa ottica, il “banchetto” della ricostruzione postbellica appare come promessa doppia: promessa di ricchezza, promessa di rinascita, ma anche promessa che cela la violenza del potere economico, la mercificazione delle distruzioni, la politica del debito, le nuove dipendenze. Non è soltanto la ricostruzione degli edifici, delle infrastrutture, delle strade, ma la ricostruzione di un tessuto sociale, di una memoria, di una possibilità politica. E là dove l’Occidente intravede opportunità – finanziarie, materiali, geopolitiche – Scapini individua anche ostacoli che non possono essere ignorati: il nazionalismo ucraino, le tensioni identitarie, il rapporto con le minoranze, le istanze russe presenti nei territori contesi; ma anche il ruolo dell’industria, del capitale internazionale che spesso guarda più al profitto che alla giustizia, al controllo che all’autenticità del ricongiungimento tra popoli.

Così, le guerre non sono soltanto eventi militari, ma forme concrete delle relazioni di potere, della nostra memoria collettiva, dei silenzi che abbiamo accettato. La storia insegna che il potere non abbandona i suoi dispositivi di esclusione: lavora nell’ombra delle migrazioni, delle carestie, della polverizzazione delle vite nei campi profughi; e che la pace non è forza dell’armistizio, ma capacità di rigenerare spazi di sperimentazione politica, di ascolto reciproco, di umanità condivisa. Scapini non nega che la resistenza ucraina, la solidarietà internazionale, la pressione economica sull’insieme russo abbiano un senso, ma chiede che si pensi ciò che avverrà oltre il “giorno dopo”. Che cosa significa davvero ricostruire? Chi controlla cosa? Con quali diritti? Con quale capacità di autodeterminazione? E soprattutto: se la pace sarà imposta dall’esterno, sarà vera pace?

C’è un altro aspetto che Scapini richiama come centrale, anche se spesso non visibile nel discorso pubblico: il ritardo nel riconoscere che la distesa eurasiatica è fatta di continuità geografiche, climatiche, culturali che sfidano le categorie della difesa e dell’offesa, della frontiera rigida. Il gelo, il deserto, i grandi fiumi, le catene montuose, le distese di neve – elementi che per molti sono paesaggi astratti – sono vivi, operativi: condizionano la logistica, rendono precario ogni tentativo di penetrazione, costringono a un aggiustamento continuo, a una fatica che logora non solo materiali ma morale. Nell’immensità della Siberia, nel silenzio del grande Nord, nella solitudine delle coste artiche, il freddo è un giudice inflessibile; e chi non lo valuta, chi lo ignora nei suoi piani di offensiva o di difesa, viaggia verso l’errore.

L’Occidente, spesso, pensa alla guerra come ad un teatro europeo, delimitato, ordinato, visibile. Ma la guerra che si gioca in quell’area immensa non è conforme agli scenari che abbiamo imparato guardando le guerre occidentali, urbane, tecnologiche. È guerra delle distanze, delle stagioni, dell’abbandono logistico; guerre dove conta più l’ombra del comando che la luce del bombardamento; dove le vittorie tattiche somigliano a miraggi se non c’è una strategia che tenga insieme resistenza, consenso, sostenibilità ambientale e capacità economica. E qui Scapini ammonisce: molte delle analisi che mettono al centro il tank, il missile, lo scontro frontale, trascurano che l’impegno del tempo stesso – del freddo, della notte, della fatica quotidiana – è un agente strategico.

Non c’è pace senza giustizia, ma non c’è giustizia senza pazienza. Non si costruisce una pace solida se non si tiene conto del radicamento politico, delle aspettative popolari, delle ferite storico-culturali che non si sanano solo con la mano tesa, ma con il riconoscimento delle incompletezze, delle ingiustizie pregresse, delle responsabilità condivise. L’Occidente ha promosso il concetto di “trasformazione democratica” come paradigma universale: lo ha esportato, lo ha invocato. Ma quando la democrazia diventa parola d’ordine senza radice, rischia di diventare espansione di una forma sociale egemonica mascherata da consenso. Scapini chiede che si pensi invece a una democrazia plurale, che riconosca le differenze, che sia capace di ospitare conflitti interni, dissensi culturali, e non semplici proiezioni ideologiche di un modello unico.

Osservando le reazioni al “banchetto” della ricostruzione – gli investimenti annunciati, i piani di sviluppo, le conferenze internazionali che raccolgono promesse miliardarie – Scapini scorge in queste manifestazioni una tensione inquieta tra il desiderio di bene e la pulsione del dominio. È bene che si ricostruisca, è bene che vengano ridotte le sofferenze, gli sfollamenti, le distruzioni; ma vi è un rischio: che la ricostruzione diventi il velo che nasconde le nuove disuguaglianze, le nuove sudditanze; che il denaro internazionale diventi strumento di condizionamento; che il rispetto dell’autodeterminazione dei popoli resti formula vuota se si impone dall’esterno, se arriva con la clausola implicita del controllo, della subordinazione.

Scapini parla anche della legittimità politica come di un terreno più difficile da conquistare che il territorio. Quando un villaggio, una città, un quartiere vengono liberati da una forza militare, la sfida non finisce: comincia la domanda su chi governa, su chi decide, su come si ricostruisce la vita quotidiana. E su come si restituisce senso alla parola “patria” o “nazionalità” quando le memorie sono spezzate, quando le lingue diverse convivono in uno stesso spazio, quando si teme l’altro non perché è nemico, ma perché è testimonianza molesta del passato. Là dove si cerca di imporre un’identità mono-forme, una memoria unica, si semina rancore, si alimenta la possibile rivolta di ciò che è stato escluso.

Un’altra verità che Scapini estrae dall’esperienza storica riguarda le forze interne ucraine: la resistenza, il patriottismo, la volontà di autodifesa non bastano se non sono accompagnati da un tessuto civico solido, da una cultura politica che sappia accogliere la pluralità, che sappia affrontare il trauma della guerra non come interruzione ma come ferita da curare. E qui l’Europa e l’Occidente hanno ruolo decisivo: non solo finanziano, non solo armamenti, non solo infrastrutture, ma meditazione: sostegno al dialogo, riconoscimento delle differenze, protezione allo spazio che il dissenso politico, spirituale, etnico, religioso possa occupare senza essere schiacciato. Perché la pace costruita su silenzio e repressione è soltanto tregua, è pausa apparente.

Nel pensare al conflitto come fenomeno che trascende il presente, Scapini richiama la memoria delle grandi guerre: la distanza tra ciò che si promette nelle conferenze di pace e ciò che si traduce, dopo anni, nei corpi delle donne, dei bambini, nelle città ricostruite a metà, negli sfollati che ancora non trovano casa. Le promesse cadono, o si trasformano in burocrazia, in inevitabili compromessi, e spesso è la qualità della vita quotidiana che testimonia la verità della pace o della sua assenza. Chi ricostruisce strade ma non ridà sicurezza, chi ripara scuole ma non cura il trauma mentale, chi riapre mercati ma esclude vaste popolazioni, quel che si costruisce è una fragile architettura, destinata a crollare al primo cedimento delle condizioni più dure.

Così, mentre si parla di sanzioni, di aiuti economici, di strategie militari, Scapini suggerisce di volgere lo sguardo alle soglie dell’umano: a ciò che la guerra impone alle vite, alle ferite invisibili, al silenzio dei sopravvissuti; alla memoria che non vuole essere patriottica ma testimonianza; all’oblio che può distruggere molto più della bomba. L’Ucraina, per Scapini, non deve soltanto riprendere la normalità: deve trovare nuove forme di convivenza, di solidarietà, di identità condivisa che non cancellino le diversità, che non scartino chi è stato dall’altra parte, che non costruiscano nuovi muri.

E invece l’Occidente pare spesso desiderare il trionfo, la chiusura della storia in una vittoria chiara, in una ricostruzione scintillante, in una pace annunciata e sicura. È il desiderio legittimo del bene che diventa ansia di controllo: voler imporre un modello di pace che rassicura, che può essere comunicato come successo mediatico, come concreta riprova del primato democratico; ma che rischia di essere prigioniero di se stesso, costretto a negare la complessità, minimizzare l’errore, rimuovere la realtà dei rapporti di forza non solo militare, ma culturale, economico, psicologico, ambientale.

Scapini insiste: una pace duratura non potrà ignorare la Russia come soggetto politico con passato, presente e insieme possibile futuro; non potrà relegare l’Occidente a giudice ultimo; non potrà concepire la ricostruzione come esportazione di un modello già fatto, ma come dialogo aperto con le pluralità, con le sofferenze, con le ombre storiche. Occorrerà che chi ricostruisce ascolti, che chi ripara chieda perdono, che la memoria delle vittime non sia pietrificazione retorica ma presenza viva, custodia della verità.

E là dove Scapini parla del tempo – del gelo, della fuga, del lento disfacimento logistico – parla anche della responsabilità morale che il presente dovrà assumersi per il futuro. Perché la guerra non è soltanto fracasso delle armi, ma disgregazione delle relazioni tra uomini, tra popoli, tra generazioni; e la pace non è solo il cessate il fuoco, ma la costruzione di condizioni in cui la vita – nelle sue dimensioni materiali e spirituali – possa riprendere, proliferare, respirare.

Così, mentre le dichiarazioni ufficiali fanno eco le une alle altre, mentre i piani di ricostruzione si moltiplicano, Scapini suggerisce che il punto decisivo non sia il numero di miliardi stanziati; non sia il piano economico con tabelle, ma la qualità dell’attenzione che si mostra verso la marginalità, verso la perdita; la misura minima della cura che si riserva agli ultimi – che sono quelli che più hanno già perso tutto. E che, spesso, l’ultimo perduto è la capacità di dire “noi”, di appartenere ad una comunità politica che riconosca anche l’altro, non come residuo, ma come parte essenziale, irriducibile.

In quella regione che si estende dal Mare di Barents al Mare di Bering – territori d’inverno che sembrano preistoria per chi vive sotto cieli temperati, ma che sono cuore della resilienza russa – la storia si gioca non solo con i droni o i missili, ma con l’orizzonte della sopravvivenza, con il respiro dell’inverno, con le debolezze che diventano vulnerabilità. Nessuna vittoria totale se non si affronta il gelo dell’anima, la distanza che separa non solo corpi ma preghiere, non solo confini legali ma memorie trans-generazionali.

Ed è in quel frammento – tra ciò che si dichiara e ciò che si vive – che la verità si rende aspra: la pace non è promessa che si consolida da sé, non è risultato automatico della superiorità militare o del sostegno internazionale. È opera di molti, lenta, precaria, sempre esposta al rigetto, alla contraddizione, al ripetersi del male che credevamo vinto. E l’Occidente, se vuole davvero partecipare a questa opera, deve uscire dal suo feticcio del potere, della vittoria, della ricostruzione come trionfo. Deve imparare a essere accompagnatore, non padrone; testimone, non modello.

Così che il “banchetto postbellico” di cui tanto si parla, e che tanto seduce – finanziamenti, investimenti, premi geopolitici – è insieme opportunità e inganno: opportunità di ricostruire non solo edifici ma relazioni, identità, partecipazione; ma inganno se effimero, se insiste su superficie, se rifiuta la lentezza della cura, se pretende che la pace sia visibile prima che vera.

E mentre l’inverno russo si prepara ad allungarsi anche lungo i giorni della diplomazia, lungo le stagioni delle promesse inspiegabilmente tardive, Scapini vede nella possibilità che il conflitto si trasformi, che la guerra cambi forma, ma non scompaia; che le armi possano tacere ma che le sofferenze rimangano, le ferite culturali non guarite, le memorie in lotta. In questo intreccio di resistenza, dolore, attese, forse si definisce già ciò che sarà: non una pace perfetta, ma una pace imperfetta, non una vittoria definitiva, ma una convivenza fragile e militante; non un ordine imposto, ma un ordine che si conquista ogni giorno.

E questo ordire – tessuto di parole non dette, di responsabilità condivise, di ascolto di ciò che è diverso – forse è ciò che resterà davvero, al di là delle conferenze, degli annunci, dei disegni di ricostruzione che brillano come astronavi in remoto. Forse è lì, in quelle crepe, in quelle crepe che filtrano luce, che si annuncia ciò che non può essere ignorato: che la pace, come la verità, non è fondamento stabile, ma orizzonte in cammino, sempre minacciato, sempre fragile, sempre custode del tempo che scorre.

 

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