
La Spada Fiammeggiante del Potere
Scritto da Ottavia Scorpati il . Pubblicato in Voci Aperte.
a cura Ottavia Scorpati
Dal declino dell’egemonia unipolare alla guerra per dati e risorse: come il potere si trasforma nel XXI secolo tra geopolitica, migrazioni, intelligenza artificiale e narrazioni culturali.
Il mondo contemporaneo è attraversato da una complessità crescente in cui le linee di frattura geopolitica si sovrappongono a quelle economiche, culturali e tecnologiche, dando vita a un ordine internazionale in costante mutamento. Non è più possibile analizzare gli equilibri globali ricorrendo alle categorie novecentesche della Guerra Fredda o a quelle più recenti della globalizzazione neoliberista. Le grandi potenze non si limitano più a contendersi sfere di influenza attraverso la diplomazia o la forza militare tradizionale; il cuore pulsante della competizione globale si è spostato su altri fronti: le risorse strategiche, le infrastrutture digitali, l’accesso alla conoscenza tecnologica, la manipolazione dei flussi migratori e la capacità di incidere sulle narrazioni collettive. In questa nuova arena, la “spada fiammeggiante” che un tempo evocava il potere sacro della giustizia o la violenza delle crociate, oggi si è trasformata in una metafora operativa del potere contemporaneo, che si esercita nei mercati, nei server, nei data center e nei territori contesi, dove risorse naturali, intelligenza artificiale e dominio dei dati si intrecciano.
La decadenza dell’egemonia unipolare statunitense, costruita su un sistema di alleanze post-1945 e sul predominio del dollaro come moneta di riferimento, ha lasciato spazio alla formazione di un nuovo ordine multipolare nel quale attori come Cina, Russia, India, Brasile e, in modo crescente, l’Africa sub-sahariana e alcune economie mediorientali, cercano di conquistare una posizione strategica. L’Occidente, nella sua forma tradizionale, mostra crepe interne dovute a crisi economiche cicliche, polarizzazione sociale e perdita di credibilità delle sue istituzioni. La Cina, al contrario, avanza con una strategia sistemica: dalla Belt and Road Initiative alla costruzione di infrastrutture critiche in Africa, Asia Centrale e Balcani, Pechino ha compreso che la nuova guerra non si combatte con i carri armati ma con la capacità di erigere ponti, porti, ferrovie e piattaforme digitali che legano i paesi emergenti a un centro economico e simbolico alternativo a Washington.
La Russia, spinta da un istinto di sopravvivenza geopolitica e da un’ideologia imperiale revisionista, ha puntato sul potere delle risorse energetiche, della deterrenza nucleare e dell’intervento diretto come nel caso dell’Ucraina. Il conflitto russo-ucraino non è solo una guerra territoriale, ma un campo di battaglia simbolico per il controllo dell’identità europea, dell’influenza sull’ex spazio sovietico e della gestione delle rotte energetiche che ancora alimentano il cuore industriale dell’Europa. In parallelo, Mosca ha intensificato la sua presenza in Africa, proponendosi come alternativa ai modelli di governance occidentali, spesso percepiti come neocoloniali.
Il vero nodo, tuttavia, resta quello delle risorse. In un mondo in cui la transizione energetica è inevitabile ma profondamente conflittuale, la corsa al litio, al cobalto, al grafene e alle terre rare ha assunto proporzioni geopolitiche senza precedenti. Questi materiali non sono solo componenti industriali, ma chiavi di accesso all’egemonia tecnologica. Chi controlla le miniere nel Congo, le riserve di litio in Bolivia o le filiere di lavorazione delle terre rare in Cina, determina le condizioni per l’evoluzione industriale e tecnologica del mondo. L’Africa, spesso esclusa dai tavoli decisionali, si ritrova oggi al centro di una nuova fase di competizione neo-imperiale in cui si intrecciano il soft power cinese, le operazioni militari russe e i tentativi europei di ridisegnare la propria presenza nel continente.
All’interno di questo sistema ipercomplesso, la militarizzazione dei territori ricchi di risorse diventa una conseguenza diretta e quasi inevitabile. In aree come il Sahel, l’Etiopia, la Repubblica Democratica del Congo e la Libia, l’instabilità cronica è diventata funzionale al mantenimento di una struttura di dominio esterno. Il conflitto armato non è più l’eccezione, ma una componente ordinaria della governance territoriale. I mercenari, le milizie etniche, le compagnie militari private e le forze armate ufficiali si contendono il controllo non per fini nazionalistici, ma per l’accesso a miniere, pozzi di petrolio, corridoi logistici e snodi infrastrutturali. La popolazione civile, in questo contesto, è ridotta a forza-lavoro flessibile, migrante, esposta a violenze sistemiche e sfruttamento, parte di un’economia dell’estrazione che si regge sulla precarietà e sulla negazione di ogni diritto sociale.
La digitalizzazione delle economie e delle guerre ha aggiunto un ulteriore livello di complessità. Le cyber-guerre non distruggono edifici, ma sistemi informatici; non uccidono, ma paralizzano intere infrastrutture. Il potere oggi si esercita nei server, nei centri di controllo dei dati, nelle tecnologie di sorveglianza e nei modelli di predizione algoritmica. La spada fiammeggiante è ora una stringa di codice, un attacco malware, una manipolazione di dati finanziari, una campagna di disinformazione. Gli attori statali e non statali si contendono l’informazione come bene strategico, rendendo il cyberspazio un territorio militarizzato in cui l’invisibilità è potere.
La competizione tecnologica si sovrappone a quella economica e sociale. L’intelligenza artificiale, la blockchain, la robotica e la biotecnologia non sono solo campi di innovazione, ma strumenti di dominio. Le potenze in grado di sviluppare e brevettare queste tecnologie acquisiscono vantaggi geopolitici sostanziali, potendo condizionare interi segmenti dell’economia globale. Le piattaforme digitali, controllate da pochi colossi tecnologici, governano le dinamiche del mercato e dell’opinione pubblica, trasformando il consumatore in soggetto sorvegliato e l’informazione in strumento di egemonia culturale.
Il risultato è una polarizzazione crescente tra una élite ipertecnologica e una maggioranza esclusa dai benefici dell’innovazione. La classe media, una volta pilastro delle democrazie industriali, viene progressivamente erosa, mentre aumentano le diseguaglianze, la precarietà e l’instabilità. I nuovi poveri non sono più confinati nelle periferie del mondo, ma emergono anche nei centri delle metropoli globali, alimentando frustrazione, rabbia e dinamiche populiste.
In questo contesto, i flussi migratori diventano sia effetto che strumento della geopolitica. I milioni di persone in movimento, spinti da guerre, crisi ambientali, collasso economico o semplice speranza, sono parte di una strategia globale di riorganizzazione della forza-lavoro e della pressione demografica. Gli Stati, incapaci di gestire fenomeni così ampi, reagiscono in maniera schizofrenica: da un lato, reprimono con muri, frontiere e militarizzazione; dall’altro, sfruttano la manodopera migrante per sostenere settori economici ormai svuotati di personale. Le società d’accoglienza oscillano tra solidarietà e paura, integrazione e rigetto, mentre le identità collettive vengono messe alla prova dalla realtà di un mondo sempre più interconnesso e frammentato.
Tutto questo si riflette nel campo della cultura, dove il simbolo della “spada fiammeggiante” continua a esercitare un fascino ambiguo. Esso è divenuto il segno di un potere che si auto-legittima attraverso la guerra, la tecnologia e il possesso delle risorse. L’archetipo della spada, pur mutando forma, conserva la sua carica simbolica: è strumento di giustizia per alcuni, di dominio per altri, di rivolta per altri ancora. Le guerre moderne non si combattono solo per territori o confini, ma per narrazioni, per valori, per visioni del mondo. I media, i social network, i videogiochi e le produzioni cinematografiche contribuiscono a costruire una cultura del conflitto in cui la violenza, pur se estetizzata, continua a essere vista come inevitabile.
Nel passato, la spada era simbolo del cavaliere, del monarca, del santo guerriero. Oggi è il logo di una compagnia tecnologica, la metafora di una strategia aziendale aggressiva, l’icona di un videogioco. Eppure, la sua essenza non è cambiata: divide, giudica, conquista. L’economia mondiale, dominata da logiche predatorie, si è
armata di nuove spade: le fusioni multinazionali, i brevetti tecnologici, i colossi del web, le missioni spaziali che nascondono la corsa alle risorse extraterrestri. Nulla è neutrale: ogni innovazione, ogni scelta economica, ogni alleanza strategica porta con sé implicazioni geopolitiche profonde.
Il capitalismo globale, nel suo stadio attuale, si presenta come una struttura autoriflessiva capace di rigenerarsi attraverso le crisi. La pandemia, la guerra in Ucraina, le tensioni nel Mar Cinese Meridionale, la militarizzazione dell’Artico, le nuove rotte artiche aperte dallo scioglimento dei ghiacci, sono tutte manifestazioni di un sistema in cui l’accesso alle risorse guida la politica internazionale più della diplomazia o del diritto internazionale. Le organizzazioni sovranazionali, spesso paralizzate da veti incrociati, non riescono a fermare il processo di frammentazione dell’ordine mondiale. Il potere si è decentralizzato, ma non democratizzato. I centri decisionali sono molteplici, ma restano chiusi a buona parte dell’umanità.
Nella complessità del nostro presente, l’unico vero punto fermo sembra essere la persistenza del conflitto come forma di regolazione delle relazioni internazionali. In un mondo in cui l’acqua diventa più preziosa del petrolio, in cui l’algoritmo decide il futuro lavorativo di milioni di persone, in cui la terra coltivabile si riduce a vantaggio delle monoculture industriali, la “spada fiammeggiante” torna a brillare. Essa è il simbolo di una civiltà che, pur avanzando nei mezzi, resta ancorata alla logica del dominio.
Il compito dell’analisi culturale, oggi più che mai, è quello di decifrare i meccanismi profondi che alimentano queste dinamiche. Non basta raccontare il conflitto: bisogna comprenderne le radici, smascherare le retoriche, denunciare le disuguaglianze, dare voce a chi è escluso. Solo così si potrà forse iniziare a spegnere, almeno in parte, quella fiamma che la spada porta con sé, da secoli.