
La teatralità della sanzione come liturgia dell’Occidente
Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in Storia.
a cura Agostino Agamben
Sulla genealogia del nemico esemplare, la confisca come liturgia giuridica, e la parabola di un potere che punisce per rappresentazione più che per giustizia, mentre si consuma nell’autosacrificio della propria legalità
“Nel volto del bandito si riflette l’intera ambiguità della legge.”
(anonimo giurista della Repubblica di Weimar)
Nel momento in cui un potere si convince della necessità di colpire alcuni individui non per ciò che hanno fatto, ma per ciò che sono — o, peggio ancora, per ciò che rappresentano —, si apre uno spazio in cui il diritto, lungi dall’essere sospeso, si realizza come forma pura, come diritto che non necessita più di alcun contenuto. E proprio in questo spazio, tanto asettico quanto feroce, si iscrive la recente figura dell’“oligarca sanzionato”, silhouette esemplare di un processo più ampio, che ha smarrito il proprio soggetto e si esercita sul vuoto, come un’eco che si riverbera nella stanza deserta del potere.
L’“oligarca”, questa categoria spettrale, è il nome che l’Occidente ha dato alla propria cattiva coscienza. Un nome senza corpo, senza diritto alla difesa, senza biografia che non sia quella fabbricata dai dossier delle cancellerie. È un nome che non designa più una persona, ma una funzione: quella dell’eccezione legalizzata, dell’inimicizia formalizzata, della ricchezza divenuta colpa. Il dispositivo non colpisce un’azione, ma una relazione — quella di presunta prossimità con il sovrano nemico. Non c’è bisogno di prove, perché la funzione dell’oligarca non è quella del colpevole, ma del bersaglio.
Sequestrare le ville, gli yacht, gli alberghi — affidandone la gestione ai comuni italiani, costringendoli a sobbarcarsi le spese, a stipulare assicurazioni, a nominare responsabili retribuiti con cifre grottesche — è solo l’aspetto più comico, quasi grottesco, del dispositivo. Ma è proprio nel ridicolo che il potere svela il proprio volto più sinistro, perché il ridicolo istituzionalizzato è il segno che non c’è più distanza fra diritto e burla, fra comando e farsa.
Non è la ricchezza ad essere punita, ma il suo legame genealogico con la sovranità. L’oligarca, nella grammatica implicita del potere, è l’ombra speculare del re: egli rappresenta, anche se involontariamente, il potere nel suo grado più indecente, quello in cui la sovranità si mostra nella nudità della finanza, senza più mediazioni ideologiche, senza più le maschere della rappresentanza. E per questo dev’essere bandito, se non distrutto.
Ma c’è qualcosa di ancora più inquietante in questo scenario: ed è il fatto che il potere, nel punire gli oligarchi, non lo fa più per affermare la giustizia, ma per garantire la propria immunità. Si tratta di un gesto apotropaico: espellere l’immagine della ricchezza “contaminata” per tentare di salvare quella “pura”, quella autoctona, quella ammantata di democrazia. Il sequestro dei beni altrui — beni legittimamente acquistati, legalmente posseduti — non è che una proiezione della propria insicurezza giuridica, una confessione involontaria di debolezza morale.
Achtung, banditen! L’urlo che risuona dai microfoni istituzionali ha qualcosa di patetico e di minaccioso insieme. È il grido con cui si segnala il nemico interno, l’estraneo da marchiare. Ma non ci si accorge che, nel gridarlo, si sta designando anche se stessi. Perché chi ha il potere di definire un altro come bandito, si espone inevitabilmente alla stessa accusa. Il bandito è, nella genealogia del diritto, colui che è posto fuori dalla protezione della legge — e tuttavia resta soggetto al suo arbitrio. In questo senso, l’oligarca è il nostro bandito esemplare: un homo sacer della geopolitica contemporanea.
L’Europa che confisca i beni senza processo, che designa i colpevoli per appartenenza linguistica o per prossimità diplomatica, non è diversa dall’impero che manda in esilio gli intellettuali dissidenti o che sradica le comunità per costruire nuove fedeltà. Ma c’è una differenza essenziale: l’Europa finge di non farlo. Anzi, lo fa in nome della libertà, in nome del diritto, in nome di quell’ideale vuoto che chiama “ordine internazionale basato sulle regole” — dove le regole non sono altro che la decisione del più forte travestita da norma universale.
Il fatto che i beni confiscati finiscano per gravare sulle casse pubbliche, che gli yacht restino ormeggiati con a bordo ufficiali stipendiati dallo Stato, non è un semplice errore di gestione. È la realizzazione piena del paradosso del potere moderno: esso agisce per autodistruzione, si consuma nell’esercizio stesso del comando, genera perdita mentre proclama ordine. È ciò che i Greci chiamavano hybris, e che oggi si manifesta in forma di fiscalità al contrario — dove il cittadino paga per la guerra contro nemici che non ha scelto, per sanzioni che non comprende, per vendette diplomatiche che non gli appartengono.
Non si tratta qui di difendere gli oligarchi — perché non c’è nulla da difendere, se non il principio per cui un individuo non può essere punito senza processo, né privato dei suoi beni per il semplice fatto di essere sospettato. Si tratta di comprendere come il potere abbia smesso di agire sul reale, per esercitarsi esclusivamente sul simbolico. La villa sequestrata, lo yacht immobilizzato, non sono misure punitive: sono liturgie, riti apotropaici con cui il potere tenta di espellere il male senza riconoscere di esserne portatore. Sono forme vuote di un diritto che ha smarrito ogni riferimento alla giustizia.
Nel diritto romano, il bandito — relegatus — non perdeva il proprio status di cittadino, ma veniva escluso da ogni partecipazione alla vita pubblica. Era un morto civile, un’esistenza sospesa, visibile ma intoccabile. Oggi il bandito non è più una figura marginale, ma centrale: è colui che rende possibile l’ordinamento stesso, offrendo un nemico sempre disponibile, sempre sacrificabile. E in questo senso, l’oligarca sanzionato è il garante dell’ordine politico, l’altro necessario alla finzione della coesione democratica.
Draghi, Di Maio, i portavoce dell’ordine euro-atlantico, sono solo gli officianti di questo rito. La loro irrilevanza internazionale, lo sguardo distratto dei russi che li ignorano o li disprezzano, è l’altra faccia della loro onnipotenza interna. Perché il potere, quando non è riconosciuto all’esterno, si ripiega sul domestico con maggiore ferocia. È per questo che si moltiplicano i decreti, le ordinanze, i sequestri: non perché la minaccia esterna sia reale, ma perché l’angoscia interna è insostenibile. Si governa sequestrando, si legifera punendo, si rappresenta agendo sul nulla.
La lista nera stilata dalla Russia, che include l’Italia tra i “Paesi ostili”, è una risposta perfettamente simmetrica: anche il nemico ha bisogno del proprio nemico. Ma vi è, in questa reciprocità, una profonda disparità: mentre l’Europa si affanna a dichiarare sanzioni simboliche, a congelare yacht e castelli, la Russia si limita a constatare il tradimento. E nel gesto di registrare — più che di reagire — si coglie una sovranità che non ha bisogno di affermarsi ogni giorno, che non si consuma nella burocrazia del comando, ma resta in silenzio, come una minaccia latente.
Nel Seicento, un teologo scriveva che Dio punisce gli uomini privandoli del senso delle cose. È forse questa la vera sanzione che oggi colpisce l’Europa: l’incapacità di distinguere la realtà dalla messinscena, la giustizia dalla vendetta, il diritto dalla propaganda. E allora si finisce per sequestrare i beni senza sapere perché, per punire i ricchi senza pensare alla povertà, per costruire elenchi di banditi senza accorgersi che il primo nome che vi compare è il nostro.
In questa zona grigia tra diritto e decisione, tra norma e sospensione, il dispositivo delle sanzioni sperimenta la sua forma più pura: non più strumento di giustizia, ma rito. Le ville e i castelli, gli alberghi di lusso, gli yacht non sono solo proprietà: diventano “segni”, icone di ciò che deve essere mostrato come indebito, scandaloso — anche se ogni titolo di proprietà, ogni tassa pagata, ogni registro notarile restano formalmente in ordine. Non basta che il diritto abbia riconosciuto qualcosa: ora serve che quel riconoscimento sia sfigurato, trasformato in testimonianza di colpa.
E qui la legge mostra ciò che è sempre stata, sotto la superficie sacra della legittimità: un apparato di esclusione. Non è più questione di chi commette un reato, ma di chi è sospettato di rappresentare il reato. È la logica dell’“appartenenza”, dell’affiliazione, della rete immaginaria. L’oligarca è colui che si suppone connivente, vicino, affine al sovrano nemico; ma spesso anche colui che non ha mai fatto nulla di diverso dal rispettare formalmente la legge. La sospensione della protezione giuridica non richiede più la prova di un’azione: basta l’appartenenza, il sospetto, la geometria diplomatica.
I comuni che ricevono in custodia queste proprietà, gli ufficiali che devono stare a bordo per controllare gli yacht — le tasse da riscuotere, le assicurazioni da fare, i costi operativi da sostenere — tutto ricade sul pubblico. È il corpo collettivo che paga per la virulenza dello Stato che pretende di punire la ricchezza. E il cittadino ignaro si trova invischiato: il suo comune, la sua municipalità, diventa custode, esattore, amministratore di beni che formalmente non sono suoi, ma che gli vengono imposti come rubinetti della sua obbligazione civile. È un essere costretto a riconoscersi responsabile di ciò che non ha scelto, a farsi carico della punizione che lo Stato infligge al nemico. In questo senso, il dispositivo è perfettamente autoritativo: trasmette colpa per contagio.
Perché è contagio, appunto: la ricchezza diventa contagiosa, la vicinanza geopolitica diviene contaminazione, il possesso diviene sospetto. E ciò ha effetti su tutta la vita pubblica: sugli investimenti, sulle relazioni internazionali, sulla proprietà privata, sul diritto di difendere i propri beni. Nessuno è più sicuro che il titolo che detiene lo protegga; nessuno può dire con certezza che non sarà anch’egli, un domani, definito “oligarca”, “amico del nemico”, inserito in una lista nera, relegato in quella zona di incertezza in cui la legittimità fluttua.
C’è nella prassi del sequestrare e affidare ai comuni una peculiarità rituale: è come se il corpo sociale avesse bisogno di un sacrificio, di un banchetto sacrificale simbolico, su cui riversare la propria angoscia. È il sacrificio dell’”altro” che serve a rinsaldare l’unità del soggetto collettivo, del popolo — che magari non è interpellato, ma che è reso spettatore di una punizione che lo riguarda. È un meccanismo estetico-politico: far vedere che si punisce, che si agisce, che il potere reagisce, anche se la reazione è goffa, contraddittoria, inefficace.
E qui risuona un’eco che ha antiche risonanze: quella dell’ordo iuris, del diritto come ordine cosmico, del diritto che pretende di essere trasparente, immune, senza macchia. Ma ogni volta che il diritto pretende ciò, si mette in mostra la sua fragilità: perché quel diritto che pretende purezza ha bisogno di bande nere, di figure designate come indegne, di capri espiatori. L’oligarca è questa figura: non l’eccezione prescritta da una norma precisa, ma colui che la norma vuole evocare pur non potendo enumerarlo; non l’evento che la legislazione definisce, ma il simulacro dell’evento.
Quando i russi stilano le proprie “liste nere”, registrando l’Italia come “Paese ostile”, non fanno che mostrare il doppio che è implicito in ogni potere: l’alterità che definisce se stesso. La minaccia esterna — reale o presunta — serve a legittimare la violenza interna. L’oligarca è meno minaccia materiale che simbolica: è il nome che domina ogni discorso sul reale come colpa originaria, come fondo da cui scaturisce ogni sospetto. E pertanto l’oligarca è ancor più potente se ignaro, invisibile, indefinito: non sappiamo chi sia, ma lo possiamo sospettare ovunque.
Questo fatto rende la politica dei sequestri e delle sanzioni particolarmente inquietante: non ha bisogno di trasparenza, non richiede responsabilità legale come nella forma processuale tradizionale. L’amministrazione provvisoria, l’affidamento ai comuni, la custodia dello Stato — tutto ciò avviene in un limbo in cui la legalità tecnica assomiglia a una copertura rituale più che a una garanzia sostanziale. Si formalizza tutto, ma si svuota il diritto del suo contenuto essenziale: della difesa, dell’equità, del processo.
E tuttavia la gestione pubblica dei beni sequestrati non è solo ombra: può diventare paradossale ponte con la collettività. Se un castello sequestrato diventa museo, se una villa pregiata diventa spazio culturale, se uno yacht abbandonato o utilizzato come sede di iniziative pubbliche — tutto questo potrebbe significare una trasformazione del simbolo. Però, chi decide? Con quali criteri? Quale comunità? È una forma di appropriazione pubblica che potrebbe – forse – riflettere un diverso modo di pensare il bene comune, ma che rischia in ogni momento di ridursi a propaganda, a spettacolo, a esibizione di potere.
La posta in gioco non è solo la sorte dei pochi ricchi colpiti dalle sanzioni, ma il destino della soggettività politica e la credibilità del diritto. Se il diritto diventa arbitrio mascherato da norma, la democrazia si trasforma in liturgia. Se l’autorità può disporre dei beni senza processo, e può affidare la gestione a enti che non hanno scelto di assumersi tale responsabilità, il cittadino perde qualcosa di sé: la sua fiducia nel contratto sociale, la certezza di un orizzonte giuridico stabile, la disposizione a riconoscere il potere come legittimo.
E allora siamo chiamati a considerare: quali siano le imperfezioni interne al dispositivo delle sanzioni che lo rendono così fragilmente onnipotente. La fragilità è la sua forza: perché è proprio in quanto incerto, contraddittorio, dubbio, che questo potere si manifesta come potere sovrano. Il sovrano non è colui che decide cose certe, ma colui che decide nella zona grigia, al confine del permesso e del divieto, del visibile e dell’invisibile, del legale e del giusto.
E la più grande sfida che ci attende è riconoscere che in quel luogo di sospensione — che oggi colpisce gli “oligarchi”, ma domani potrebbe includere altri nomi che non ci aspettiamo — c’è già la nostra fragilità, la nostra complicità, la nostra possibile espulsione. Ossia: comprendere che il dispositivo delle sanzioni non è un’eccezione momentanea ma un segnale di ciò che il diritto può diventare quando perde il suo legame con la giustizia.
L’idea stessa di giustizia è sospesa in quelle pratiche: perché la giustizia non è solo processo, non è solo punizione, ma è relazione, verifica, presenza dell’altro come portatore di diritto. Quando l’altro diventa sospetto prima di essere giudicato, quando il diritto si attiva contro qualcuno non per prove ma per posizione, per nome, per sospetto, allora siamo in un tempo in cui il diritto retrocede. E quel retrocedere non lascia un vuoto: lo riempie subito il potere, con la sua propria narrazione, con le sue necessità simboliche.