
L’eccezione permanente la guerra normalizzata e la fine della sovranità
Scritto da Enrico Paniccia il . Pubblicato in Storia.
a cura Agostino Agamben
Nel tempo in cui ogni guerra si traveste da missione di pace e ogni invasione si giustifica come atto difensivo, la democrazia si svuota, il diritto si ritira e la sovranità si dissolve nella paura dell’atomica. L’Ucraina diventa emblema di una civiltà che ha smarrito la capacità di decidere, mentre l’Europa osserva, paralizzata, la trasformazione dell’ordine internazionale in una macchina imperiale che parla il linguaggio della libertà per giustificare la dominazione.
Ciò che chiamiamo guerra è, in verità, la sospensione dell’ordine giuridico nel suo punto più estremo, il luogo dove la sovranità si mostra nella sua nudità brutale. Non è un evento eccezionale, bensì il modo in cui la sovranità si rinnova, si ridefinisce, si espone. La guerra è, dunque, la verità della politica, la sua ombra essenziale. E se è vero che, come scrisse Carl Schmitt, “sovrano è colui che decide sullo stato d’eccezione”, allora è nel conflitto — e nella gestione unilaterale del suo inizio — che il sovrano rivela la propria essenza.
Nel nostro tempo, però, il problema non è più quello della decisione, ma della dissimulazione della decisione stessa. Nessuno dichiara guerra, eppure la guerra è ovunque. Nessuno si proclama invasore, eppure intere nazioni cadono sotto il peso dell’“operazione speciale”. La modernità, nella sua fase terminale, ha costruito un lessico che rende inservibili le distinzioni originarie: amico e nemico, guerra e pace, legalità e illegalità. Tutto si avvolge nella nebbia semantica dell’eufemismo, dove l’invasione si chiama difesa preventiva e la resistenza diventa terrorismo.
Nel caso dell’Ucraina, il paradosso si fa struttura: l’aggressore reclama il diritto alla sicurezza, l’aggredito viene ammonito a non difendersi troppo. Le regole della guerra — se mai ne sono esistite — sono capovolte. L’invasore può colpire a piacimento, anche da migliaia di chilometri, ma l’invaso non può oltrepassare il confine sacro dell’aggressore. Non per rispetto del diritto internazionale, ormai disgregato nella sua stessa incapacità di operare, ma per non irritare il potere atomico. Un confine non è più il luogo dell’identità, ma il margine del terrore. Si è instaurata così una nuova forma di sovranità: la sovranità nucleare, dove il potere ultimo non risiede nella legge, ma nella possibilità di sterminio.
Tuttavia, ciò che appare ancor più inquietante è il consenso tacito, quasi ovino, che circonda questa logica. Gli attori internazionali non osano più neppure domandarsi se una reazione proporzionata sia legittima; non discutono della giustezza della causa, ma del calcolo della ritorsione. La politica estera è divenuta una pura gestione del rischio, dove il valore della giustizia è subordinato al coefficiente di danno previsto da un algoritmo.
Nel mondo antico, la guerra era il luogo in cui si misurava l’onore. In quello moderno, è lo spazio dove si gioca la finzione dell’equilibrio. Non ci sono più legioni né corpi politici; ci sono droni, contratti, interessi energetici, piattaforme satellitari. E, dietro tutto questo, l’assordante silenzio dell’ideologia democratica, che non ha più nulla da dire quando la democrazia stessa viene usata come maschera per la distruzione.
Questa democrazia imperiale — tale è il suo vero nome — non conosce nemici, solo elementi da neutralizzare. Come ha mostrato la storia della guerra in Iraq, in Afghanistan, in Libia, e ora in Ucraina, la democrazia è divenuta il dispositivo che consente all’Impero di dissimulare il proprio dominio sotto le sembianze dell’universalismo morale. I bombardamenti sono umanitari, le sanzioni sono per la pace, le armi sono per la difesa. Ma non esiste difesa che non sia, al tempo stesso, un attacco differito. La logica della deterrenza è precisamente questa: si minaccia per non colpire, ma si è sempre pronti a colpire per non perdere la faccia.
L’intera architettura giuridica dell’Occidente si è, in fondo, rivelata incapace di contenere l’eccezione. Ogni principio si mostra fragile davanti alla necessità, ogni norma si piega alla contingenza strategica. E così l’Italia, la cui Costituzione dichiara solennemente di ripudiare la guerra, non ha mai cessato di parteciparvi. Non con gli stivali sul terreno, ma con l’invisibile circolazione delle armi, con l’assenso silente alla logica dei blocchi, con la complicità dell’indifferenza.
La questione non è più quella della guerra in sé, ma del diritto di resistenza. Chi può resistere e fino a che punto? L’Ucraina, oggi, è l’epicentro di questa domanda. È autorizzata a difendersi, purché non infastidisca troppo il nemico. Può ricevere armi, ma senza che ciò implichi un coinvolgimento diretto dell’Occidente. Può morire, ma non può vincere. È come se la comunità internazionale, pur riconoscendo l’ingiustizia dell’aggressione, avesse stabilito dei limiti alla legittimità della difesa. Il risultato è una guerra asimmetrica non solo sul piano militare, ma anche su quello etico.
Il popolo ucraino si trova così ad abitare un non-luogo giuridico, sospeso tra il diritto e l’eccezione, tra la legittimità e la sanzione. Ogni sua azione è sorvegliata, giudicata, limitata, mentre l’aggressore, coperto dalla potenza dell’atomica e della propaganda, agisce con crescente impunità. Non si tratta solo di un conflitto territoriale, ma dell’agonia di un ordine internazionale che non è più in grado di riconoscere la differenza tra giusto e ingiusto, tra difensore e aggressore.
Questa crisi, tuttavia, non è esclusivamente ucraina. Essa è, in senso proprio, europea. L’Europa, oggi, è l’assenza stessa di decisione. Divisa tra la fedeltà atlantica e il desiderio impotente di autonomia strategica, essa si trova nella posizione paradossale di finanziare una guerra che non vuole e subire una pace che non può ottenere. Ogni suo gesto è ritardato, ogni sua parola è calibrata sull’opinione pubblica interna, ogni sua decisione è già compromessa. L’Europa, che avrebbe potuto essere una forza di mediazione, ha scelto di essere spettatrice armata.
Nel frattempo, la Russia avanza. Non con la rapidità che aveva previsto, ma con la determinazione di chi ha deciso di riscrivere la mappa geopolitica del continente. L’invasione dell’Ucraina non è un’eccezione, è un paradigma. Dopo verrà la Moldavia, poi forse i Balcani, o la Georgia. Ogni vittoria ottenuta senza reazione efficace diviene un precedente giuridico e simbolico. È la logica dell’effrazione: una volta infranta la porta, l’intero edificio è a rischio.
L’aspetto più tragico di questa vicenda è che la logica imperiale della Russia si nutre della retorica democratica. Putin si presenta come il restauratore dell’ordine, il difensore della civiltà contro il caos occidentale. E se le sue parole sembrano folli, è perché esse non sono rivolte all’Occidente, ma a un mondo in cerca di un nuovo centro. L’Africa, l’Asia centrale, l’America Latina osservano con attenzione. E forse, silenziosamente, approvano.
Così, la democrazia, che un tempo si definiva nella contrapposizione all’Impero, ora appare come la sua alleata segreta. Una democrazia che non difende se stessa, che si vergogna della propria forza, che accetta la paralisi come forma di saggezza, è già diventata qualcos’altro. Ha già smesso di essere una forma di vita, ed è divenuta un rituale privo di anima.
La questione, allora, non è solo militare o diplomatica, ma ontologica. Che cosa resta della politica, se ogni suo gesto è svuotato dalla paura? Che cosa resta della sovranità, se non può essere esercitata senza il permesso dell’altro? Che cosa resta della libertà, se la sua difesa viene subordinata al calcolo del danno collaterale?
Non vi è democrazia senza decisione. E non vi è decisione senza rischio. L’Europa ha smesso di decidere, ha smesso di rischiare, ha smesso di pensare. Il suo futuro, se ne avrà uno, passerà necessariamente attraverso una riconfigurazione del concetto stesso di potere. Non più il potere di dominare, ma quello di scegliere. Non quello di punire, ma di proteggere. E, soprattutto, di dire no.
Nel frattempo, la democrazia imperiale avanza. A Mosca come a Washington, a Bruxelles come a Pechino. Essa parla molte lingue, ma ha un solo obiettivo: il controllo del vivente. L’Ucraina non è che un frammento di questo disegno, un campo di prova. E noi, con il nostro silenzio, ne siamo parte.
In fondo, ciò che accade sotto i nostri occhi non è l’inizio di una nuova guerra, ma la fine della pace come concetto storico. La pace, quella vera, era fondata sulla possibilità della giustizia, sul riconoscimento reciproco, sulla forza del diritto. Ora è ridotta a un’interruzione provvisoria della violenza, una pausa tra due operazioni militari, una tregua mascherata.
Se la guerra è diventata permanente, allora lo è anche lo stato d’eccezione. E se lo stato d’eccezione è la regola, allora non viviamo più in una democrazia. Viviamo in un regime che si dice democratico, ma che funziona secondo logiche imperiali. Un regime che legittima la violenza in nome della pace e la sottomissione in nome della sicurezza.
Non è una novità storica, ma è una tragedia ripetuta. La nostra.