
Lepanto, gli algoritmi e l’illusione del Potere
Scritto da Ottavia Scorpati il . Pubblicato in Attualità.
A cura di Ottavia Scorpati
Dal Mediterraneo del XVI secolo alla rete globale del XXI, il confronto tra imperi, tecnologie e visioni rivela una costante: la fragilità delle alleanze senza progetto. In un mondo governato da dati e piattaforme, la storia offre uno specchio inquietante su ciò che accade quando alla paura non segue una strategia.
Crisi, potere e algoritmi si intrecciano oggi in una rete globale che, come una scacchiera invisibile, ridefinisce ogni equilibrio e ogni certezza. Le crisi sanitarie, i conflitti armati, le sfide ambientali e le disuguaglianze economiche si presentano come eventi separati, ma in realtà agiscono come sintomi interconnessi di un sistema in continua mutazione. Il potere non risiede più solo nelle mani degli Stati o nei palazzi delle istituzioni, ma si diffonde nei meccanismi opachi delle piattaforme digitali, nelle scelte degli algoritmi, nei flussi di dati che determinano chi ha accesso a cure, risorse, opportunità. La storia non è un semplice racconto del passato: è un filtro che ci consente di riconoscere nei nostri disordini di oggi le stesse logiche che plasmarono le guerre, le alleanze e i fallimenti del passato.
Nel XVI secolo, il Mediterraneo rappresentava un teatro di collisione tra potenze globali. L’Impero Ottomano, sotto Solimano il Magnifico e poi Selim II, proiettava la propria influenza su tre continenti con una visione strategica profonda e coerente. L’Europa, invece, era lacerata da fratture religiose e lotte dinastiche, frammentata in un mosaico di Stati spesso più interessati a prevalere sui vicini che a contrastare una minaccia esterna. La Repubblica di Venezia, pur al culmine della sua ricchezza e influenza mercantile, si ritrovava esposta e isolata di fronte alla conquista ottomana. La caduta di Prevesa nel 1538, e ancor più l’assedio brutale di Famagosta nel 1571, segnarono la progressiva erosione del potere veneziano nel Levante. Non fu solo una sconfitta militare, ma una frattura simbolica: un mondo veniva meno, e un altro, più aggressivo e coerente, avanzava.
La risposta cristiana a questa avanzata fu la Lega Santa: un’alleanza costruita non su una visione comune, ma sulla paura e sulla necessità. I dissidi tra Spagna e Venezia, le ambiguità della Francia — più interessata all’equilibrio interno e ai buoni rapporti con gli ottomani che a unire le forze contro di loro — e le esitazioni del Sacro Romano Impero, troppo coinvolto nelle guerre religiose interne, produssero una coalizione più fragile che coesa. Eppure, quella fragile alleanza trovò una direzione grazie all’azione diplomatica di Papa Pio V e alla forza carismatica di Don Giovanni d’Austria, giovane comandante incaricato di guidare la flotta della Lega.
Il 7 ottobre 1571, nel Golfo di Corinto, la battaglia di Lepanto mise di fronte due visioni del mondo. L’Impero Ottomano schierava 251 navi, 750 cannoni, circa 30.000 soldati e 50.000 uomini di equipaggio; la Lega Santa rispondeva con 212 galee, sei galeazze veneziane armate di 44 cannoni ciascuna, e una forza composta da 30.000 soldati e 40.000 rematori. Lo scontro fu totale, caotico, cruento. Tra i partecipanti vi era anche Miguel de Cervantes, che ne uscì mutilato ma ispirato, iniziando in seguito la stesura del suo capolavoro.
Lepanto fu una vittoria eclatante: 137 navi catturate, 50 affondate, circa 15.000 schiavi liberati. Ma fu una vittoria senza seguito. Già nel 1573, Venezia firmava la pace con gli ottomani, cedendo definitivamente Cipro. L’Impero Ottomano, colossale nella sua capacità di rigenerazione, ricostruì rapidamente la flotta, e le divergenze interne all’Europa cristiana tornarono a dominare la scena. L’unità mostrata per un giorno evaporò in pochi mesi. E come oggi, anche allora, si rivelò quanto l’assenza di una visione duratura renda sterile anche la vittoria più netta.
Lepanto diventa così un archetipo. Non solo una battaglia navale, ma una lezione sulla fragilità delle alleanze improvvisate, sulla necessità di una coerenza tra obiettivi strategici e strumenti politici. Ed è questa lezione che risuona nel nostro tempo. Perché, oggi, le guerre si combattono con altri mezzi ma con la stessa logica: dominio, propaganda, influenza. I dati sono i nuovi mari da controllare. Gli algoritmi sono le galeazze contemporanee, in grado di decidere quali informazioni siano rilevanti, chi debba ricevere cure mediche, quali rischi devono essere contenuti e quali amplificati. Eppure, come allora, anche le tecnologie più sofisticate si infrangono contro la mancanza di una visione condivisa.
Oggi, le tecnologie emergenti e il potere predittivo degli algoritmi stanno riscrivendo il concetto stesso di potere. Se nel Cinquecento l’informazione strategica viaggiava lentamente, oggi è l’algoritmo a prevedere crisi, mercati, comportamenti politici, perfino conflitti. Le grandi potenze e le corporazioni digitali utilizzano questi strumenti per anticipare, orientare, modellare il reale, mentre il cittadino diventa un nodo passivo di una rete in cui tutto è sorvegliato, classificato, ottimizzato.
Eppure, l’intelligenza artificiale e la militarizzazione dell’informazione spostano il conflitto dal campo fisico a quello cognitivo. Non si combatte più solo per il territorio, ma per la mente collettiva. Le guerre si infiltrano nei social network, nei motori di ricerca, nelle bolle informative. Come le galeazze veneziane dominavano il mare con la potenza di fuoco, oggi la supremazia si gioca nella capacità di manipolare la realtà percepita, nel generare consenso o disordine attraverso narrazioni costruite ad arte.
Nel Mediterraneo contemporaneo, crocevia di civiltà e scontro tra mondi, si ripetono le stesse dinamiche: frontiere instabili, movimenti migratori trattati come minacce, potenze regionali che cercano di ritagliarsi sfere d’influenza, interventi umanitari piegati a logiche geopolitiche. La Turchia, discendente diretta di quell’Impero Ottomano, si muove oggi tra NATO e Russia, tra autoritarismo e diplomazia, mantenendo quell’ambiguità strategica che già nel Cinquecento era arma e risorsa. Intorno, l’Europa sembra incapace di trasformare la propria ricchezza economica e la propria tradizione democratica in potere geopolitico concreto.
Ma questa debolezza si riflette anche nella sovranità digitale. Le reti su cui si regge il mondo globale — cavi, server, cloud, infrastrutture critiche — non sono pienamente controllate dagli Stati. L’Europa, come la Venezia del tardo Rinascimento, possiede sapere e capitale, ma dipende tecnologicamente da attori esterni, incapace di difendere il proprio spazio digitale come faceva con i suoi porti e le sue rotte.
Le crisi globali — dal cambiamento climatico alle pandemie, dal collasso della biodiversità all’instabilità energetica — pongono sfide che richiederebbero la stessa capacità di mobilitazione mostrata alla vigilia di Lepanto. Ma manca ciò che mancò allora: una coerenza tra paura e progetto, tra emergenza e visione.
A tutto ciò si aggiunge una crisi della rappresentanza politica. I cittadini faticano a riconoscersi nelle istituzioni; i leader rincorrono il consenso a breve termine, ignorando il pensiero strategico. Il risultato è una sfiducia sistemica crescente, che erode le fondamenta stesse della democrazia liberale e paralizza le risposte collettive, proprio quando servirebbe un nuovo patto sociale e geopolitico.
Nel vuoto lasciato dai progetti politici, esplodono nuove “crociate ideologiche”: guerre culturali, revisionismi, conflitti identitari e polarizzazione permanente. La disinformazione agisce come una forma di sabotaggio interno, che logora il tessuto sociale, divide comunità, delegittima ogni forma di mediazione. Così come nel Cinquecento la religione fu usata per mascherare gli interessi geopolitici, oggi le ideologie digitali mascherano vuoti di potere e mancanza di prospettiva.
A tutto questo si somma
la sfida più strutturale: la transizione energetica. Le nuove rotte del potere passano attraverso il controllo di fonti rinnovabili, materie prime critiche e tecnologie verdi. Chi saprà riconvertire i propri sistemi produttivi in modo sostenibile dominerà il secolo. Come accadde a Venezia, che perse centralità quando mutarono le rotte del commercio globale, anche oggi chi resta indietro nella corsa energetica rischia l’irrilevanza. Il Mediterraneo, ancora una volta, è al centro: corridoio per gasdotti, per cavi sottomarini, per rotte marittime cariche di significati politici oltre che economici.
L’errore del passato, il limite delle grandi vittorie simboliche, fu quello di confondere l’emergenza con la strategia. E questo errore si ripete oggi, ogni volta che una crisi viene affrontata con strumenti provvisori, ogni volta che si invoca l’unità internazionale per poi tornare immediatamente al proprio interesse nazionale. Lepanto fu celebrata in tutte le chiese d’Europa, ma dimenticata nei trattati successivi. Oggi celebriamo summit sul clima, sulla salute, sulla cybersicurezza, ma poi ci arrendiamo alla logica del profitto, alla sovranità competitiva, alle gerarchie economiche.
Il mondo ha bisogno di una governance che non si limiti a gestire le crisi, ma che sappia prevenirle, integrando sicurezza e giustizia, tecnologia e umanità. Ha bisogno di alleanze non nate dalla paura, ma dalla consapevolezza di un destino comune. Perché la lezione di Lepanto non sta nel trionfo, ma nella velocità con cui si tornò a uno stato di disgregazione. Sta nella necessità di passare dalla battaglia al progetto, dal simbolo alla struttura.
Oggi, come allora, il Mediterraneo ci osserva. E nella sua instabilità riflette la nostra incapacità di visione. Lepanto è lo specchio che ci dice che senza coerenza, ogni vittoria è effimera. E che senza una vera volontà collettiva, ogni algoritmo resta solo un’illusione di potere.