
L’Eretico Necessario del Cinema Italiano Contemporaneo
Scritto da Fulvio Muliere il . Pubblicato in Attualità.
A cura di Fulvio Muliere
Tra laicità e sacro, memoria storica e visione autoriale: un viaggio nell’opera di un regista che ha trasformato il cinema in uno spazio critico della coscienza collettiva
Nel corso degli ultimi sessant’anni, il cinema italiano ha attraversato mutamenti profondi, oscillando tra il bisogno di rinnovamento formale e il rischio di appiattimento narrativo. In questo panorama, Marco Bellocchio ha rappresentato un punto fermo e, al contempo, una frattura. Autore irregolare, spigoloso, radicale, ha fatto della sua poetica un’indagine instancabile sul corpo sociale e sull’inconscio collettivo dell’Italia contemporanea. La sua opera si pone in dialogo costante con la tradizione cinematografica e letteraria del nostro Paese, ma si distacca nettamente da ogni forma di compiacimento estetico o ideologico. Bellocchio non filma per decorare, ma per interrogare; non per confortare, ma per mettere a nudo.
Il suo cinema è spazio dialettico, tensione tra contrapposti: fede e ragione, potere e individuo, memoria e presente, giustizia e vendetta. Un’eresia continua rispetto agli standard dominanti, una liturgia laica che prende sul serio il dolore, la storia, la morte, e soprattutto la coscienza. In un’epoca in cui il linguaggio audiovisivo tende spesso a semplificare o spettacolarizzare, Bellocchio è rimasto fedele a una visione che non teme la complessità. Questo approfondimento si propone di attraversare i nodi principali della sua filmografia, mostrando come il suo sguardo abbia saputo incidere a fondo nella carne viva del Paese, elevando il cinema a forma suprema di interrogazione etica, politica e spirituale.
Marco Bellocchio si impone come una figura centrale nella costellazione del cinema italiano contemporaneo non solo per la longevità della sua carriera, ma per la costante tensione etica, filosofica e spirituale che attraversa tutta la sua produzione. Bellocchio non è un autore accomodante, non cerca il consenso, non segue le mode: egli scava. Scava nella psiche dell’individuo, nella memoria collettiva, nella storia d’Italia, nella religione, nella politica, nella famiglia e nelle istituzioni. Ogni suo film si configura come un esercizio di pensiero critico, un laboratorio cinematografico dove l’immagine non illustra ma interroga, non spiega ma destabilizza. La sua poetica nasce da un’urgenza interiore che sfida ogni semplificazione ideologica. È il cinema dell’eresia, della contraddizione, della frattura.
La genealogia intellettuale e spirituale di Bellocchio si radica nei grandi autori del secondo Novecento italiano, ma non si limita a una loro riproposizione estetica. Piuttosto, li reinventa. Da Antonioni apprende l’indagine sul vuoto e sull’alienazione, da Pasolini la tensione sacrale e l’amore per le figure marginali, da Visconti l’attenzione per il tempo storico, dai Taviani e da Olmi l’intreccio tra etica e visione. Tuttavia, se gli uni perseguivano coerenze stilistiche forti — l’estetismo viscontiano, il marxismo pasoliniano, la sacralità olmica — Bellocchio rompe, sposta, disfa e ricompone. Il suo è un cinema in lotta con se stesso. Un cinema senza stile fisso, perché animato da uno spirito dialettico. È un autore che ha fatto della frattura la sua cifra e della tensione fra opposti il suo modo di esistere artisticamente.
Con “I pugni in tasca”, nel 1965, Bellocchio frantuma il linguaggio cinematografico italiano con la forza iconoclasta di un vangelo sovversivo. La famiglia borghese, vista da sempre come il nucleo protettivo e morale della società, si rovescia nella sua versione tossica, paralizzante, patologica. Il protagonista, affetto da epilessia, incarna una figura tragica e disturbante: non si ribella per conquistare la libertà, ma per distruggere le fondamenta su cui è cresciuto. L’omicidio non è solo un atto psicotico, è un gesto simbolico. Ogni azione del protagonista ha un valore rituale, sacrale e blasfemo. Il film è costruito come una passione laica, una discesa negli abissi della psiche familiare e sociale. È il grido di un’Antigone al maschile, che urla la verità di fronte a un mondo dominato dall’ipocrisia e dalla rimozione.
Negli anni Settanta e Ottanta, Bellocchio sposta la sua attenzione sulla follia, indagando non solo il manicomio come istituzione repressiva, ma la follia come dimensione ontologica. Con “Matti da slegare” (1975), in collaborazione con Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, Bellocchio si schiera con Franco Basaglia nel denunciare la violenza della psichiatria istituzionale. Ma non si ferma alla denuncia sociopolitica. In “Enrico IV” (1984), la follia assume una valenza più metafisica. Il protagonista si rifugia nella finzione, e la finzione diventa realtà. La verità non è mai data, ma sempre in bilico tra lucido delirio e tragica consapevolezza. La psiche, nel cinema bellocchiano, è un campo di battaglia tra ciò che siamo e ciò che ci è stato imposto di essere. L’identità, lontana dall’essere un dato stabile, si mostra fragile, multipla, sovversiva.
Il rapporto con la religione è una delle linee di forza più persistenti del suo cinema. Ma non si tratta di un’ostilità anticlericale superficiale. Bellocchio non è un miscredente in cerca di scandalo: è un laico che interroga il sacro con sincerità e angoscia. In “L’ora di religione” (2002), racconta la vicenda di un pittore agnostico che si trova coinvolto nel processo di beatificazione della madre. Il film decostruisce la logica della santità istituzionalizzata, ma non rinuncia a cercare una spiritualità autentica, incarnata nel dubbio, nel corpo, nel dolore. Bellocchio mostra come la religione, quando si allea con il potere, diventi un dispositivo di controllo e colpa. Ma al tempo stesso lascia aperta la porta a una redenzione possibile, forse addirittura necessaria. La sua laicità è abitata dal sacro, la sua critica è spinta dal desiderio di verità.
Con “Rapito” (2023), Bellocchio ritorna alla ferita dell’infanzia violata, raccontando il caso di Edgardo Mortara, strappato alla sua famiglia ebraica per essere cresciuto come cattolico. Il film affronta il potere ecclesiastico come macchina di imposizione e controllo. Tuttavia, Bellocchio non si scaglia contro la fede, ma contro la sua degenerazione autoritaria. Il personaggio di Pio IX è rappresentato come un nuovo Inquisitore dostoevskiano, che preferisce una salvezza imposta a una libertà rischiosa. La domanda radicale che il film pone è: può esistere amore senza libertà? E può esistere una verità che non sia scelta ma imposizione? In questa tensione tra dogma e grazia, tra obbedienza e scelta, si gioca la potenza tragica del film.
Nel cinema di Bellocchio, la morte non è mai un evento terminale, ma un momento di disvelamento. La sua riflessione sulla morte dialoga idealmente con Luchino Visconti, e in particolare con “Il Gattopardo”. Mentre Visconti rappresenta la morte di un mondo con sontuosità barocca — il ballo finale come requiem — Bellocchio sceglie una messa in scena più scabra, più interiore. Nei suoi film, la morte è silenziosa, fatta di camere vuote, corpi immobili, respiri sospesi. È nella morte che si rivela il fallimento della borghesia, l’impotenza delle istituzioni, la crisi dell’identità. Ma anche la possibilità di un risveglio. La morte non è solo fine, ma inizio di una nuova consapevolezza. Come nella sequenza finale di “Fai bei sogni”, dove il lutto non si chiude, ma si trasforma in occasione di verità.
Bellocchio affronta la politica con uno sguardo etico e filosofico che rifiuta ogni riduzionismo ideologico. La sua riflessione sul caso Moro, sviluppata in “Buongiorno, notte” (2003) e poi ripresa e ampliata in “Esterno notte” (2022), rappresenta una delle vette più alte del suo cinema. Moro non è solo un personaggio storico, ma una figura quasi cristologica. Sacrificato per un bene superiore che nessuno riesce a definire, abbandonato dalle istituzioni, tradito dal suo stesso mondo. Bellocchio non cerca colpevoli semplici: interroga il sistema, la società, l’intera cultura politica italiana. La domanda che emerge non è solo “chi ha ucciso Moro?”, ma “perché l’abbiamo lasciato morire?”. In questa riflessione, il cinema diventa teologia civile, luogo di elaborazione della memoria e della colpa collettiva.
Il dialogo tra cinema e letteratura è costante nella sua poetica. Come Visconti con Tomasi di Lampedusa, anche Bellocchio è capace di trasformare la parola in immagine senza mai banalizzarla. Ma mentre Visconti si immerge nella sontuosità del tramonto aristocratico, Bellocchio preferisce l’asprezza del disincanto. Se “Il Gattopardo” trova nel ballo un’epifania della fine, Bellocchio cerca epifanie nel lutto, nella crisi, nella frattura. Anche il suo rapporto con i modelli letterari — da Verga a Pirandello, da Dostoevskij a Kafka — non è mai illustrativo. Bellocchio non adatta: interpreta, attraversa, distorce. In “Enrico IV”, Pirandello diventa il pretesto per riflettere sulla finzione della coscienza. In “Rapito”, Dostoevskij è lo spettro che guida la riflessione sul male, sul potere e sul perdono.
La dimensione del corpo è centrale nella sua
visione del mondo. Non c’è mai un’astrazione disincarnata: la politica, la religione, la famiglia, l’ideologia, tutto passa per il corpo. Un corpo che soffre, che ama, che si ammala, che urla. Il corpo femminile, in particolare, è spesso il luogo di una doppia violenza: patriarcale e simbolica. In “La condanna” (1991), Bellocchio affronta un caso di presunto stupro ponendo domande disturbanti sulla percezione della colpa, sul desiderio, sulla giustizia. Non offre soluzioni, ma apre ferite. In “Sbatti il mostro in prima pagina” (1972), il corpo della vittima diventa strumento di manipolazione mediatica, e la verità si dissolve nel rumore dell’ideologia. È nel corpo che si misura la distanza tra legge e giustizia, tra morale e verità.
Bellocchio è anche autore della memoria. Ma la sua non è nostalgia: è archeologia del trauma. In “Marcia trionfale” (1976), racconta la caserma come luogo di alienazione e disumanizzazione. In “Il traditore” (2019), affronta la figura di Tommaso Buscetta non per assolverlo o condannarlo, ma per mostrarne la complessità tragica. Buscetta diventa un personaggio shakespeariano, diviso tra lealtà e sopravvivenza, tra vendetta e redenzione. La mafia non è ridotta a cliché: è mostrata nella sua dimensione rituale, teatrale, sacrale. Anche qui, Bellocchio non moralizza, ma problematizza. E lo fa con una potenza visiva e narrativa che lo rende uno dei pochi registi capaci di fare cinema civile senza cadere nella retorica.
Il cinema di Bellocchio è un cinema che si interroga, che si ferisce, che cerca. Non ha soluzioni, ma domande. Non costruisce mondi perfetti, ma mostra le crepe del reale. È un cinema della frattura, della dissonanza, del non-finito. Come nella musica di Mahler o nelle pitture di Francis Bacon, l’armonia è sempre spezzata, e proprio in quella rottura emerge una verità più profonda, più radicale. Non si tratta solo di raccontare storie, ma di mettere in crisi le narrazioni dominanti. Il suo sguardo non consola, ma inquieta. E proprio per questo è necessario.