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Linee di Frattura

Scritto da Ottavia Scorpati il . Pubblicato in .

A cura di Ottavia Scorpati

Pandemia, ripartenza globale e violenza di genere: come il COVID-19 ha trasformato le logiche economiche, ridefinito gli equilibri geopolitici e amplificato le fratture sociali, svelando le nuove linee di faglia del mondo contemporaneo.

La pandemia di COVID-19 ha rappresentato molto più di una crisi sanitaria: è stata un evento tellurico che ha scosso le fondamenta dell’economia mondiale e accelerato mutamenti profondi nei rapporti di forza geopolitici. Le conseguenze non si sono limitate alla contrazione dei PIL o ai lockdown generalizzati: ciò che è stato colpito al cuore è l’architettura stessa della globalizzazione, basata su interdipendenze fragili, supply chain iperottimizzate e una fiducia eccessiva nella stabilità sistemica.

Il mondo post-COVID si presenta oggi segnato da due direttrici parallele ma convergenti: da un lato, una regionalizzazione crescente degli scambi e delle filiere produttive, spinta dalla necessità di resilienza strategica e sicurezza nazionale; dall’altro, una frammentazione dell’ordine internazionale, in cui la cooperazione multilaterale lascia spazio a un ritorno alla politica di potenza, alle sfere di influenza, e a una competizione sempre più accesa per il controllo delle tecnologie e delle risorse.

La rivalità tra Stati Uniti e Cina ne è l’esempio più evidente: la pandemia ha acuito la tensione già latente, trasformando il confronto commerciale e tecnologico in una vera e propria battaglia per l’egemonia nel XXI secolo. Nel frattempo, crisi collaterali come la guerra in Ucraina e le vulnerabilità energetiche globali hanno reso chiaro che il mondo non sta tornando alla “normalità”, ma sta attraversando una fase di ridefinizione multipolare, in cui i centri di potere si spostano e si moltiplicano.

All’interno di questo scenario, la dimensione sociale — spesso relegata in secondo piano — diventa centrale. La pandemia ha messo a nudo le contraddizioni del modello di sviluppo globale: le disuguaglianze si sono amplificate, le fasce deboli si sono ulteriormente precarizzate, e fenomeni strutturali come la violenza di genere sono esplosi con una forza che li ha resi ineludibili. In questo senso, non è più possibile separare la ripresa economica dalle sue ricadute sociali e politiche: ogni strategia di ricostruzione deve oggi confrontarsi con la necessità di una giustizia sistemica, di una sostenibilità che non sia solo ambientale ma anche umana, e di un nuovo contratto globale che metta al centro l’equità, la sicurezza e la dignità delle persone.

Nel 2023, il mondo si ritrova a fare i conti con le macerie e le metamorfosi lasciate dalla pandemia, un evento che ha travolto ogni aspetto dell’esistenza collettiva – dall’economia alla geopolitica, fino alle strutture più intime del vivere sociale. L’urto del COVID-19 non è stato un semplice incidente di percorso, ma un vero acceleratore di dinamiche preesistenti e, al contempo, un detonatore di crisi inedite. Gli effetti di lungo periodo si sedimentano in un terreno già segnato da disuguaglianze strutturali, tensioni geopolitiche latenti, e modelli produttivi fragili, restituendo un panorama instabile, in continua ridefinizione. Ed è proprio nell’intersezione fra economia globale, assetti geopolitici e ingiustizie sociali, come la violenza di genere, che si disegna il senso profondo della nuova epoca post-pandemica.

L’economia globale ha subito un trauma senza precedenti, seguito da una ripresa altrettanto disomogenea. Dopo la contrazione storica del PIL mondiale nel 2020, la risposta dei governi è stata imponente: interventi fiscali straordinari, politiche monetarie ultra-espansive, nuove architetture finanziarie come il Next Generation EU. Tuttavia, la ripartenza non è stata né lineare né equa. Le economie avanzate hanno saputo reagire grazie a risorse istituzionali consolidate, mentre molte realtà del Sud Globale sono rimaste impantanate in una spirale di debito, inflazione, e scarsità vaccinale. Il virus ha colpito i sistemi produttivi in modo asimmetrico: l’arresto dei trasporti internazionali e la paralisi della logistica hanno fatto esplodere le fragilità delle catene globali del valore, già troppo concentrate, troppo esposte, troppo dipendenti da hub specifici come la Cina per componentistica, materie prime, o farmaci.

La risposta a questa vulnerabilità si è concretizzata in una nuova logica produttiva: reshoring, nearshoring, e un ritorno al concetto di autonomia strategica, tanto nelle economie occidentali quanto in quelle asiatiche. È il principio della resilienza a sostituire, almeno in parte, quello dell’efficienza. Ma questa trasformazione comporta costi rilevanti, rischi inflattivi e un allontanamento dalle logiche iper-globali del passato. Il capitalismo globale sembra dunque piegarsi su sé stesso, riconfigurandosi su base regionale e geopolitica: un nuovo equilibrio instabile in cui economia e politica non sono più separabili.

Proprio sul piano geopolitico, la pandemia ha agito da moltiplicatore delle tensioni sistemiche esistenti, specialmente tra Stati Uniti e Cina. Se il decennio precedente aveva visto una progressiva escalation commerciale e tecnologica tra le due potenze, l’emergenza sanitaria ha accelerato questa deriva verso il confronto strategico. Pechino, pur al centro di critiche per l’opacità nella gestione iniziale del virus, ha sfruttato la crisi per espandere la sua influenza diplomatica attraverso la “diplomazia delle mascherine” e quella dei vaccini, cercando di rafforzare la sua posizione nel Sud Globale. Washington, dal canto suo, ha risposto con politiche di contenimento sempre più assertive: blocchi tecnologici, alleanze militari rinnovate, investimenti in settori critici come semiconduttori e intelligenza artificiale.

Il risultato è una nuova Guerra Fredda, non più ideologica ma sistemica, incentrata su controllo tecnologico, supremazia industriale e accesso a risorse chiave. Il mondo si polarizza lungo assi strategici, e si frammenta in blocchi regionali, ognuno intento a garantire la propria sicurezza economica e militare. Il conflitto in Ucraina, esploso nel 2022, ha rafforzato questa dinamica, spingendo l’Europa verso una corsa alla diversificazione energetica e accelerando il passaggio alle fonti rinnovabili. La geopolitica dell’energia si è spostata, aprendo nuove rotte del gas, rilanciando il nucleare in alcuni paesi, e rafforzando l’importanza delle terre rare per le tecnologie verdi. L’instabilità diventa così la regola: pandemie, guerre, shock climatici e cibernetici si intrecciano in una catena di crisi sistemiche, dove nessun attore può più permettersi l’autarchia, ma neppure una dipendenza assoluta.

Dentro questo scenario, la società civile ha subito scosse profonde. Le disuguaglianze economiche, già marcate prima della pandemia, si sono acuite in modo drammatico. Lavoratori precari, donne, migranti e giovani hanno pagato il prezzo più alto, mentre le multinazionali tech hanno visto crescere profitti e potere d’influenza. La gig economy si è imposta come nuova normalità per milioni di persone, trasformando il lavoro in un’attività frammentata, deregolata, iper-flessibile. Ma dietro la narrazione dell’“adattabilità” si nasconde un’esplosione di insicurezza sociale: assenza di tutele, burnout, difficoltà nell’accesso alla casa e alla sanità. Le nuove forme di lavoro hanno ampliato il divario tra chi può permettersi la flessibilità e chi la subisce.

In questo contesto di vulnerabilità, la violenza di genere è esplosa come fenomeno parallelo ma interconnesso. Durante i lockdown, milioni di donne si sono ritrovate imprigionate in case che invece di offrire protezione diventavano luoghi di violenza. L’isolamento ha privato molte di loro di vie di fuga, sostegno psicologico, protezione legale. I numeri dell’OMS parlano chiaro: una donna su tre nel mondo ha subito violenza fisica o sessuale almeno una volta nella vita, ma durante la pandemia la frequenza e la gravità degli episodi è aumentata. E se questo dato è spaventoso in sé, lo è ancora di più per il suo significato sistemico: la violenza di genere non è un “effetto collaterale” della crisi, ma uno dei suoi sintomi più rivelatori. È nella disparità di potere, nella diseguaglianza economica, nella marginalizzazione culturale che trova le sue radici.

Il danno economico è ingente: la violenza di genere produce una perdita globale stimata tra il 3% e il 5% del PIL, secondo la Banca Mondiale. Non è solo una tragedia umana, ma un ostacolo alla crescita, all’innovazione, alla sostenibilità. Le società che non proteggono le donne perdono capitale umano, produttività, coesione sociale. E questo vale sia nei contesti di pace che in quelli di guerra. Nei conflitti armati, la violenza sessuale è usata come arma strategica, come metodo di sottomissione e terrore. E quando si passa alla ricostruzione, le donne sono sistematicamente escluse dai tavoli negoziali, nonostante la risoluzione ONU 1325 imponga il contrario. Le politiche pubbliche, per essere realmente efficaci, devono dunque partire da un approccio sistemico alla violenza, che includa istruzione, protezione legale, empowerment economico, e una profonda trasformazione culturale.

La tecnologia può giocare un ruolo cruciale: dai sistemi di allerta rapida come il “Signal for Help” ai centri antiviolenza digitali, fino a piattaforme educative contro gli stereotipi di genere. Ma da sola non basta. Servono politiche pubbliche integrate, finanziamenti strutturali, e soprattutto volontà politica. Perché la violenza di genere non si combatte con la retorica, ma con l’azione continua e strutturata. E la pandemia ha mostrato che le emergenze non colpiscono tutti allo stesso modo: chi già era vulnerabile lo è diventato di più. Le donne, in particolare, sono state al centro di una tempesta perfetta fatta di disoccupazione, precarietà, invisibilità e violenza. Riconoscere questa realtà è il primo passo per cambiarla.

Nel 2023, l’umanità si trova così davanti a un bivio. Da un lato, una spinta centripeta verso l’autarchia, il confronto geopolitico, l’individualismo economico. Dall’altro, la consapevolezza che solo con cooperazione, solidarietà e giustizia sociale si possono affrontare le crisi sistemiche del nostro tempo. La pandemia ha distrutto certezze, ma ha anche aperto spiragli: nella produzione di vaccini, nella digitalizzazione della sanità, nella diffusione di una coscienza ambientale più matura. Ma senza un cambiamento strutturale – che includa la lotta alla violenza, la redistribuzione delle risorse, l’inclusione delle donne nei processi decisionali – questi spiragli rischiano di richiudersi in fretta. La pandemia ci ha mostrato cosa succede quando ignoriamo i segnali d’allarme. Il futuro dipenderà dalla nostra capacità di ascoltarli, e di agire di conseguenza.

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