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L’italiano perduto

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura Agostino Agamben

Elogio alla Crusca: una riflessione profonda sulla perdita delle istituzioni linguistiche e sulla lenta dissoluzione della lingua italiana sotto l’invasione anglosassone, tra il rischio di smarrire l’identità culturale e la necessità di custodire un patrimonio di pensiero e memoria collettiva

Negli ultimi decenni, o forse sarebbe più corretto dire negli ultimi anni, assistiamo a una progressiva erosione di ciò che una volta era il custode insostituibile della lingua italiana: l’Accademia della Crusca, insieme alla Dante Alighieri. Questo lento ma inesorabile sgretolamento non è solo la perdita di un’istituzione, ma la dissoluzione di un dispositivo di salvaguardia del pensiero e della parola che ci definisce come comunità. Nel vuoto lasciato da queste antiche sentinelle, una marea di termini anglosassoni si riversa nelle nostre conversazioni, nei giornali, nelle trasmissioni televisive e persino nei testi accademici. Non si tratta più di un semplice innesto linguistico, ma di un’invasione che rischia di dissolvere la trama stessa della nostra lingua.

Questo fenomeno, che potrebbe apparire come un semplice caso di evoluzione linguistica, assume in realtà una dimensione politica e culturale. La lingua non è solo uno strumento di comunicazione, ma il luogo dove si sedimentano le forme del nostro pensiero, le strutture della nostra identità. L’uso indiscriminato di termini anglosassoni – spesso coniati per esigenze di marketing o tecnologia – non è un innocuo fenomeno di moda, ma una forma di colonizzazione simbolica che sottrae al nostro idioma la sua capacità di definire e comprendere il mondo.

C’è da considerare, tuttavia, che non tutti i prestiti sono da rifiutare. Alcune parole straniere hanno trovato un ingresso legittimo perché indicano realtà nuove o specifiche che la nostra lingua non aveva ancora nominato: «stop», «sandwich», «tilt», «cardigan», «drink», «cocktail». In questi casi, la lingua si arricchisce senza perdita di sé, accogliendo ciò che manca senza sostituirsi a ciò che è già presente. Ma è proprio questo il punto: quando la lingua straniera soppianta termini che esistono e sono profondamente radicati nel nostro vocabolario, si assiste a una perdita irreparabile.

Prendiamo «mobbing», che può essere sostituito da «molestie», o «share» che ha un chiaro corrispettivo in «percentuale». Per «audience» abbiamo «ascolto», per «on-line» «in linea». Questi esempi, che si moltiplicano, mostrano come la lingua italiana sia capace di esprimere concetti contemporanei senza dover rinunciare alla propria integrità. Si potrebbe persino sostenere che l’uso eccessivo di termini anglosassoni è una forma di resa culturale, una rinuncia alla propria storia linguistica e, quindi, alla propria autonomia culturale.

È importante interrogarsi sul motivo profondo di questa scelta lessicale. Non si tratta solo di comodità o di necessità comunicativa, ma di un fenomeno più ampio, che riflette un mutamento nei rapporti di potere e nella percezione del valore culturale. L’inglese, come lingua egemone del capitalismo globale, impone una gerarchia linguistica che tende a marginalizzare tutte le altre lingue, riducendole a semplici strumenti di comunicazione secondaria. Questa dinamica, ben analizzata da filosofi e linguisti, è la forma più sottile di un’imperialismo che non si manifesta solo nella politica o nell’economia, ma nel lessico quotidiano.

In questo senso, la scomparsa dell’Accademia della Crusca, e più in generale delle istituzioni che promuovono e tutelano la lingua italiana, non è un fatto accidentale. È la manifestazione di una crisi più profonda, di una perdita di volontà collettiva di mantenere viva una lingua che non sia un semplice mezzo funzionale, ma un orizzonte di senso. La Crusca, nella sua storia, è stata un presidio di memoria e di cura, un luogo dove la lingua veniva trattata come un organismo vivente da preservare, da nutrire, da far crescere. Oggi quel presidio sembra abbandonato.

Il disinteresse o la debolezza di queste istituzioni non si limita a un problema tecnico o accademico: investe la nostra capacità di pensare e di esistere. Ogni lingua porta con sé una visione del mondo, una specifica ontologia. La lingua italiana, con la sua storia plurimillenaria, custodisce una particolare maniera di articolare il tempo, lo spazio, la relazione tra individuo e comunità. Quando si abbandonano i termini italiani a favore di equivalenti inglesi, si perde anche quella complessità, quel tessuto semantico che permette di abitare il mondo in modo differente.

Se «intelligence» viene sostituito con «servizi segreti», o «devolution» con «decentramento amministrativo», non si tratta solo di un cambio di parole, ma di un cambio di prospettiva politica e culturale. Il primo termine, preso dall’inglese, richiama un immaginario di modernità globale, di tecnologia e potere diffuso, mentre il secondo richiama una prassi storica e un rapporto più diretto con la politica locale. Così pure «signing» e «closing», che dovrebbero essere sostituiti da «contratto preliminare» e «contratto finale», evocano non solo processi legali, ma anche un modo diverso di concepire le relazioni contrattuali, il rapporto tra le parti, la formalizzazione della volontà.

La presenza insistente di termini inglesi nella lingua italiana non è dunque solo un problema di comunicazione, ma un sintomo di un cambiamento antropologico: un mutamento nella forma stessa della nostra soggettività collettiva. Quando si perde la lingua, si perde qualcosa di più che un semplice insieme di parole; si perde una certa idea di comunità, di memoria, di identità.

Ma vi è un altro aspetto che merita attenzione: la frattura generazionale che questo fenomeno produce. Gli anziani, che rappresentano i custodi della tradizione linguistica, si trovano spesso alienati da un linguaggio che non riconoscono più, un linguaggio in cui i termini inglesi dominano e frammentano la continuità con il passato. La lingua diventa così un luogo di conflitto, di esclusione e di incomprensione. Questo non è un dettaglio secondario, ma un indice della crisi stessa della comunità linguistica.

Eppure, non si tratta di opporsi all’innovazione o al cambiamento, ma di riflettere su quali siano i confini e i limiti dell’innovazione. La lingua non è un contenitore neutro, ma un campo di battaglia dove si gioca la possibilità stessa di comprendere e di farsi comprendere, di appartenere a una storia e a un destino comune. Rinunciare a questo terreno significa consegnarsi a un futuro dove la comunicazione è funzionale, ma il pensiero è impoverito.

La Crusca, come simbolo di questa difesa, merita dunque non solo un elogio per quanto ha fatto nel passato, ma anche un rilancio nel presente. Non si tratta di nostalgia o di un ritorno a forme chiuse e rigide, ma di una consapevolezza che la lingua italiana ha ancora in sé risorse immense, una capacità di adattarsi e di crescere senza perdere la propria specificità. Questa risorsa è un patrimonio comune che va custodito e valorizzato, non abbandonato.

Non può essere solo il mercato, o la moda, o la tecnocrazia a decidere il destino della lingua. Vi è un’urgenza etica e politica di recuperare la lingua come spazio di libertà, di pensiero critico, di appartenenza. Solo così possiamo opporci a una globalizzazione che rischia di livellare tutte le differenze e di ridurre la cultura a un prodotto di consumo.

Così come la filosofia ha bisogno della precisione del linguaggio per pensare, così la società ha bisogno di una lingua che non sia solo strumento di comunicazione, ma di riflessione e di coesione. La Crusca, allora, non è solo un’istituzione, ma un simbolo di questa necessità, una chiamata a preservare ciò che ci rende umani in un’epoca di crescente omologazione.

 

 

 

 

 

 

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