Skip to main content

M_5_Stelle, oramai, purtroppo è……….
un Movimento non più “Paragonabile”

OVVERO …………IN “DECLINO SENZA PARAGONE

 Commenti & Considerazioni di TORQUATO CARDILLI 

Non è un gioco di parole, né una battuta di spirito, anche se all’orecchio di tutti suona evidente il riferimento all’espulsione dal M5S del senatore Paragone. Purtroppo per quanti avevano creduto nella prospettiva di un rinnovamento radicale del paese è motivo di sconforto assistere allo spettacolo che il Movimento sta dando di sé, mentre per tutte le forze della reazione, comunque vestite ed inquadrate, lo sfaldamento dell’immagine del M5S è motivo di gioia che vira verso l’euforia.

Il Popolo dei 5 Stelle, che ha dato una severa lezione alla vecchia politica nel 2013 e poi ha raccolto un trionfo nel 2018, si sta squagliando. Più passano i giorni e più il fenomeno appare inarrestabile per l’inconsistenza ideologica dei suoi rappresentanti che volevano abbattere i vecchi schemi senza sapere come sostituirli, per il loro atteggiamento ondivago, per le lotte e le rivalità intestine, per l’incapacità di assumere responsabilità istituzionali. 
Dal 2018, in un anno e mezzo il M5S ha perso tutte le elezioni lasciando per strada oltre sei milioni di elettori che ovviamente non erano attivisti, ma cittadini di ogni classe sociale, disgustati dalla politica dei vecchi partiti, pronti a firmare una cambiale in bianco e a dare fiducia ai giovani che proclamavano l’onestà, la purezza delle intenzioni contrarie ad ogni forma di corruzione, la volontà di soddisfare le esigenze dei meno abbienti.

Nel vuoto che si è creato per arginare l’ondata di reflusso verso l’estrema destra salviniana, è emerso il nuovo Movimento delle Sardine ispirato agli stessi principi di rifiuto della vecchia politica capace di accendere le stesse speranze per la protezione dell’ambiente e per la ricerca suscitate all’inizio dell’avventura politica dei 5 stelle. 
Seppure in misura meno eclatante di quanto accaduto per l’elettorato, anche tra gli attivisti del M5S si è fatta strada la sensazione di scoraggiamento e di insoddisfazione come testimonia il declinante numero dei votanti sulla piattaforma Rousseau ad ogni richiesta referendaria interna.

Il M5S è entrato in Parlamento con le vele gonfie dal crescente consenso popolare e vi ha portato una falange di 339 eletti tra deputati e senatori, cioè il 35,87% del totale dei seggi con una massa d’urto pari a quella della Democrazia Cristiana dei tempi migliori. Ma allora gli eletti erano persone politicamente colte con un alto senso dello Stato e della democrazia, solidamente anti fascisti, ancorati alla disciplina di partito verso la linea politica scaturita dal congresso e impersonata dal Segretario politico, mentre oggi pur con una maggioranza di diplomati e laureati il M5S ha elevato al seggio parlamentare pochi professionisti estranei al Movimento, scelti personalmente dal Capo (che spesso ha difettato di accuratezza di giudizio), insieme a persone senza arte né parte, inesperte, in alcuni casi al limite del ridicolo per idee estemporanee irreali, con il solo titolo di merito curricolare di aver partecipato ai banchetti di propaganda ed ai meet up spesso in contrasto tra di loro.

L’ottima filosofia dell’uno vale uno, il cosiddetto voto capitario della democrazia diretta, va bene quando consente a tutti di esprimere le proprie idee, ma occorre un gruppo non oligarchico, abbastanza largo e rappresentativo, che sappia fare la sintesi da sottoporre all’approvazione della maggioranza. Nel M5S non è stato realizzato il luogo di confronto, di analisi, di visione strategica ben oltre le piccole esigenze locali, proiettata verso un orizzonte più ampio comprendente i problemi europei ed internazionali, sicché la filosofia dell’uno vale uno si è rivelata una trappola che ha impedito la formulazione e l’attuazione di una politica coerente con le esigenze del paese e con le promesse elettorali.

E’ mancata un’organizzazione seria a livello di management, a livello di contatto con la società (meglio non parlare delle penose figure definite “facilitator” e “navigator”), a livello finanziario affidato alla raccolta di piccole donazioni che per loro natura non possono avere il carattere della continuità. 
Ogni rivoluzione, e quella dei 5 Stelle è stata una rivoluzione democratica nel modo di fare politica che non sarà più uguale a prima, non sopravvive alla fase dell’entusiasmo, dello spontaneismo e del volontarismo se non si dà una seria organizzazione adeguata a  perseguire concordemente un obiettivo e a trasformare in realtà le aspirazioni.

Da parte loro gli eletti si sono trovati improvvisamente immersi nell’opulenza (è sufficiente ricordare che quasi l’80% di essi aveva un reddito risibile o nessun reddito prima delle elezioni), nei vantaggi, nei privilegi, nelle facilitazioni della casta, combattuta fino al giorno prima.

Ciascuno, in modo del tutto anarchico e senza disciplina (parola sancita dalla Costituzione e presto dimenticata), ha coltivato la falsa convinzione di essere al centro del mondo, di essere detentore della verità, stando ben attento a non pregiudicare la protezione della propria posizione economica del tutto insperata, rinnegando la fedeltà al programma elettorale, a costo di violare le norme liberamente sottoscritte di parsimonia, di sobrietà, di morigeratezza, di volontaria contribuzione alle spese organizzative.

Lusingati dalla conquista del potere hanno ripiegato malamente le logore bandiere di guerra (Tav, Tap, F35, Rai, Banca di Stato, Alitalia, Ilva, investimenti pubblici, ambiente e trivelle, riforma della burocrazia, rinegoziazione degli accordi europei, rottura dei monopoli dannosi ala società, ecc.) e hanno soffocato le poche idee valide, anche se divergenti dalla linea del capo, con battibecchi astiosi e inconcludenti che hanno sfociato nel progressivo snaturamento della propria  essenza.

Ben sapendo che non avrebbero mai più pescato il biglietto della fortuna, si sono aggrappati all’unico obiettivo che ha sostituito tutte le belle intenzioni di una volta: quello di durare ad ogni costo. Per questo pur allontanandosi dalla casa madre non affosseranno il Governo che significherebbe elezioni anticipate.

Alla Camera hanno cambiato casacca in 13 ed al Senato in 11, in parte espulsi senza discussione, poco dopo l’elezione, alcuni per aver mentito sui rimborsi o falsificato le prove, sul passato giudiziario, sull’appartenenza alla massoneria, altri per il conclamato assenteismo, o per non aver accettato di soprassedere sui principi cardine del programma elettorale.

Ciò che stupisce è che buona parte dei fuoriusciti, in forte contraddizione con lo spirito programmatico preelettorale, sia confluita nella Lega (il partito con il più alto numero di indagati, ben 22, cioè il doppio di Forza Italia che ne ha 14, il triplo del PD che ne ha sette, il sestuplo di Fratelli d’Italia con 4).

Che si sia trattato di uscita volontaria o di espulsione poco importa. Ciò che conta è il fatto che la leadership non è stata capace di amalgamare le posizioni, di essere inclusiva, di smussare le asperità e di ottenere con il conforto della maggioranza il rispetto della disciplina.

Quando si vince una battaglia la gloria spetta al comandante, ma quando si perde è lui il primo a dover fare un esame di coscienza, a dover accettare le critiche anziché reagire in modo puerile, a rivedere la strategia. Non ha insegnato nulla l’errore di Renzi restio ad ogni analisi dei motivi della sconfitta, precipitato dal 40% dei consensi ad un misero 5%?

Di Maio aveva parlato all’inizio della legislatura di testuggine pronta a superare ogni difficoltà ed ha finito per trovarsi tra le mani una maionese impazzita, senza collante, né speranza di creare il necessario riassetto ed equilibrio tra le varie componenti.

Due espulsioni su tutte hanno fatto scalpore: quelle dei senatori De Falco e Paragone, contrari ad accettare a occhi bendati ed a votare per una linea politica non approvata dai gruppi parlamentari, né dalla base degli attivisti, mentre un amico del capo della prima ora, l’eurodeputato Corrao, pur non avendo votato per la presidente della Commissione Europea, è stato chiamato nell’empireo del movimento a ricoprire il ruolo di “facilitator”.

Quello tra Di Maio e Paragone è diventato ormai un conflitto all’arma bianca sotto lo sguardo del padrino di duello Di Battista. In fondo l’accusa di Paragone al capo politico è stata di un comportamento ondivago: se si annuncia la revoca delle concessioni ad Atlantia, che ha la responsabilità della mala gestione delle autostrade, non lo si può dire nei giorni dispari, mentre in quelli pari si allacciano trattative con i Benetton per salvare il carrozzone dell’Alitalia, oppure non si può accusare la Banca d’Italia di “culpa in vigilando” per  il dissesto delle banche popolari e poi non trarne le dovute conclusioni in difesa dei risparmiatori truffati, oppure non si può proclamare l’acqua pubblica o la difesa degli utenti senza fare nulla per tagliare a favore della collettività gli enormi utili di colossi come Enel, Eni, Acea, oppure continuare a menare il can per l’aia sulle questioni dell’ILVA e ancora una volta dell’Alitalia già costate all’Erario, cioè alle tasche dei cittadini, una montagna di miliardi, ecc.

Anche se il dissidio tra i due non finisse nell’aula di un Tribunale l’espulsione arreca più danno che giovamento al Movimento in crisi di consensi e di identità, soprattutto alla luce del comportamento di Fioramonti che, dimessosi da ministro della cultura, ha voluto conservare seggio e appannaggio per approdare al gruppo misto e si è ben guardato dal consegnare tutti gli arretrati dovuti alle casse del Movimento.

Le uscite volontarie di questo tipo meritano solo biasimo perché se motivate da insanabili contrasti ideologici avrebbero dovuto portare all’abbandono del seggio e non alla conservazione di tutte le prebende senza più dovere versare al Movimento la quota di finanziamento prevista secondo un impegno scritto assunto all’atto della candidatura. 
Quella di aver preteso la firma su tale impegno a versare al movimento parte degli emolumenti, pena una multa pecuniaria salatissima, si è rivelata una misura cervellotica; meglio sarebbe stato pretendere una fideiussione bancaria o una lettera irrevocabile di versamento del contributo dovuto.

La metà dei parlamentari del M5S non è in regola con le restituzioni e i famosi probi viri (Andreola, Berti e Dadone che curriculum giuridico amministrativo hanno?) non potranno proporre al capo politico di espellere dai propri ranghi la metà dei gruppi parlamentari.

Il Movimento ha innovato nell’avvicinare i cittadini alle scelte politiche con lo strumento del voto on line, ha portato a casa leggi positive come quella anticorruzione, sulla prescrizione, sul reddito di cittadinanza, sulla riduzione del numero dei parlamentari, sulla riduzione dei costi della politica, ma senza intaccare le incrostazioni corruttive che strozzano il paese, dopo ogni compromesso al ribasso si è accontentato di questi risultati appariscenti che non influiranno sul welfare dei cittadini.

Mancano tre anni esatti alla fine della legislatura: sarà capace di risalire la china? Sarà capace la convocazione degli stati generali, prevista in primavera, per la Pasqua di resurrezione del Movimento? Tutto dipenderà dall’umiltà di riconoscere gli errori e dalla creazione di un’atmosfera di rinnovato impegno.

Torquato Cardilli

Lascia un commento