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Made in Italy e  L’infanzia sospesa

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura Agostino Agamben

La politica e il livello socio-economico dell’infanzia negata, appunti sul paradigma dello sfruttamento agricolo minorile nelle filiere italiane, tra esclusione giuridica, invisibilità sociale e crisi della modernità

L’infanzia, per come l’abbiamo costruita nella modernità occidentale, è una finzione normativa. Lontana dal divenire naturale o dalla linearità biologica, la categoria del “bambino” è un dispositivo politico ed economico che garantisce l’integrità di una certa idea di civiltà. Ma proprio come ogni costrutto che si vuole universale, esso contiene al suo interno un vuoto strutturale: un’esclusione originaria che ne permette il funzionamento. Esistono bambini — anzi, infanzie — che sono incluse nella società solo attraverso la loro esclusione, e che vivono una condizione di invisibilità ontologica: sono bambini privati del diritto di essere bambini.

Nel rapporto Piccoli schiavi invisibili di Save the Children, si registra l’esistenza di un segmento sommerso, trascurato e sistematicamente cancellato del nostro tessuto economico-sociale: quello dei figli dei braccianti agricoli sfruttati, in particolare nelle aree italiane della provincia di Latina e della Fascia trasformata di Ragusa. Questi non sono semplicemente bambini poveri. Sono soggetti che non hanno accesso alla cittadinanza, all’assistenza sanitaria, al diritto all’istruzione e all’identità anagrafica. Ma ciò che è più grave: la loro esistenza è integrata in una filiera economica che funziona esattamente in virtù della loro cancellazione.

L’invisibilità non è una dimenticanza. È un meccanismo. E come ogni meccanismo, funziona secondo logiche precise. Nel caso del sistema agroalimentare italiano, la necessità di mantenere competitività nei mercati internazionali, di garantire margini alla grande distribuzione e di sostenere un’idea fittizia di sostenibilità territoriale, richiede che una parte della forza-lavoro sia esclusa dal diritto. È ciò che potremmo definire, parafrasando Foucault, una governamentalità dell’infanzia sfruttata: una forma di potere che agisce non proibendo, ma includendo i corpi minorili nella sfera economica proprio attraverso la loro esclusione da quella giuridica.

Questi bambini non sono clandestini. Sono cittadini “mancati”, potenzialmente italiani, potenzialmente europei. Ma questa potenzialità resta sospesa, come in una zona grigia di sovrapposizione tra diritto e fatto, tra corpo e documento, tra presenza e assenza.

La filiera agricola come dispositivo di produzione dell’invisibile

Non è possibile comprendere la condizione di questi bambini senza situarla all’interno della logica del sistema agroalimentare. In Italia, la produzione agricola si è riconfigurata negli ultimi trent’anni come un ambito di iper-sfruttamento a basso costo, fondato su manodopera straniera, precaria, stagionale, e spesso priva di diritti. L’agricoltura intensiva del Sud — ma non solo — ha bisogno di tempi rapidi, raccolti abbondanti e margini minimi. Questo comporta che le imprese agricole competano non più sull’innovazione, ma sulla compressione del costo del lavoro.

La presenza di caporalato, di lavoratori irregolari, e di intere comunità marginalizzate non è una disfunzione del sistema: è la sua modalità operativa. In questa configurazione, i bambini non lavorano sempre esplicitamente — almeno non in età pre-adolescenziale — ma sono assorbiti nel meccanismo come appendici silenti della forza-lavoro dei genitori. Vivono nei campi, negli alloggi di fortuna, lontani da servizi, scuole, reti sociali. Crescono in un contesto in cui la distinzione tra produzione e riproduzione, tra lavoro e famiglia, viene completamente annullata.

Si forma così una generazione che non ha spazio per l’infanzia, perché l’infanzia stessa diventa superflua, accessoria. Il tempo del gioco viene assorbito dal tempo del lavoro. La formazione identitaria, che per altri avviene in ambienti scolastici, ludici e protetti, per loro si sviluppa nella precarietà, nella marginalità e in un tempo sempre sospeso: in attesa del raccolto, in attesa del permesso, in attesa del riconoscimento.

L’infanzia come soglia: tra diritto e nuda vita

Giorgio Agamben, nel suo lavoro sul concetto di homo sacer, ha descritto la condizione del soggetto che può essere ucciso ma non sacrificato, incluso nella legge solo nella forma della sua esclusione. Il bambino invisibile del settore agricolo italiano incarna una forma nuova di nuda vita: non è fuori dal diritto, ma è esposto ad esso solo nella sua forma negativa. Vive in un mondo giuridico da cui è escluso per struttura, e in cui il riconoscimento della sua esistenza — anagrafica, sanitaria, educativa — dipende da gesti eccezionali: l’intervento dell’associazione, l’insegnante che compra i quaderni, il pediatra che chiude un occhio.

In questa zona grigia, il bambino non è né pienamente soggetto né oggetto. È una funzione del sistema produttivo. Non può rivendicare diritti, ma può — e deve — produrre. Non può iscriversi all’anagrafe, ma può aiutare nella raccolta. Non può accedere a un centro sportivo, ma può lavorare per 20 euro al giorno durante l’estate. Il suo corpo è una merce in attesa di essere integrata nel ciclo produttivo in modo pieno, ma già ora ne è parte, marginale e necessaria.

Questa non è una forma arcaica di sfruttamento, ma una configurazione pienamente moderna. È il risultato di politiche migratorie che negano vie legali di accesso, di regolazioni del lavoro agricolo che lasciano ampi margini di informalità, di una cultura produttiva che misura il valore sulla base della resa economica e non della dignità umana.

La scuola come campo di resistenza

All’interno di questo scenario, la scuola diventa uno dei pochi spazi di possibile resistenza. Ma si tratta di una resistenza fragile, disarmata, spesso isolata. In molte scuole della provincia di Latina, ad esempio, più della metà degli alunni sono figli di braccianti stranieri, in prevalenza indiani. Gli insegnanti devono inventarsi metodi di comunicazione con bambini che non parlano l’italiano, che non hanno mai avuto contatti con una cultura scolastica strutturata, che spesso arrivano privi di materiale e con un’attenzione ridotta, perché affaticati da una vita già piena di lavoro e responsabilità.

In queste scuole, la lingua non è solo una barriera comunicativa: è una frontiera simbolica. Senza un adeguato sostegno linguistico, il bambino resta straniero anche dentro la classe. La sua presenza fisica non si traduce in partecipazione. La scuola, che dovrebbe essere spazio di liberazione, diventa così un altro luogo di esclusione silenziosa, in cui l’integrazione è affidata alla buona volontà del singolo insegnante e non a un sistema strutturato.

Eppure, proprio in questa fragilità si manifesta una possibilità. Quando un’insegnante acquista i materiali didattici per un bambino sfruttato, compie un atto etico che interrompe, seppur momentaneamente, la logica dello scambio economico. Quando una scuola accoglie, ascolta, inventa strategie per trattenere i bambini nell’aula, essa apre uno spazio di controsenso rispetto alla brutalità del sistema. La scuola, in questo contesto, diventa non un’istituzione, ma un gesto: fragile, singolare, ma resistente.

L’infanzia interrotta: il lavoro precoce come destino

Il passaggio al lavoro vero e proprio avviene, secondo i dati del rapporto, già tra i 12 e i 13 anni, ma in alcuni casi anche a 7 o 8. Inizia come un aiuto estivo, poi diventa un’abitudine, poi una necessità. I bambini crescono sapendo che il loro valore è nella capacità di contribuire. La loro infanzia si interrompe non con un trauma visibile, ma con una progressiva assuefazione. Non c’è un evento che segna il passaggio: è una dissolvenza. Non c’è rottura, perché non c’è mai stato un vero inizio.

Questa naturalizzazione del lavoro minorile è uno degli effetti più perniciosi del paradigma dello sfruttamento. Perché quando il bambino stesso interiorizza l’idea che “deve aiutare”, che

“così si fa nella famiglia”, che “tutti lavorano”, allora la forma più profonda dello sfruttamento ha avuto successo: ha trasformato l’eccezione in norma, ha cancellato il conflitto tra gioco e lavoro, ha dissolto la possibilità stessa del dissenso. Il bambino, in questa configurazione, non è più soggetto da proteggere, ma attore invisibile di un’economia della sopravvivenza che lo consuma sin dalla nascita.

Il tempo dell’infanzia viene sottratto lentamente, goccia dopo goccia, senza alcun evento traumatico riconoscibile, ma attraverso una serie di rinunce strutturali: il primo giorno di scuola saltato per accompagnare il genitore nei campi; il compito non fatto perché si è tornati troppo tardi; l’estate passata a raccogliere pomodori invece che a giocare. È in queste micro-scelte quotidiane, spesso necessarie, che si costruisce l’infanzia negata. E con essa, una forma di cittadinanza mutilata.

La logica dell’eccezione permanente

Il sistema che permette tutto questo non funziona solo attraverso la violenza diretta, ma mediante un regime di eccezione permanente. In teoria, questi bambini dovrebbero essere tutelati da una molteplicità di norme internazionali, nazionali, costituzionali. Ma nella pratica, ogni diritto viene sospeso in nome di un’emergenza strutturale: mancano le risorse, mancano i mediatori, mancano le condizioni per applicare le leggi. In nome di questa carenza sistemica, si crea uno spazio extragiuridico — una zona franca — in cui la legge è sospesa e dove ogni violazione diventa inevitabile.

La figura del minore figlio di braccianti agricoli sfruttati si situa esattamente in questo interstizio: non è formalmente escluso dalla protezione, ma questa protezione non si attiva mai. Vive sotto un regime in cui ogni diritto è teorico e ogni dovere è pratico. L’invisibilità diventa così non solo una condizione materiale, ma una strategia amministrativa.

Il Comune non lo registra, il medico non lo cura, la scuola lo accoglie a metà, il lavoro lo assorbe del tutto. E nessuna di queste istituzioni riesce a prendersene carico, perché ciascuna si scarica sull’altra la responsabilità. È questa la struttura profonda della disresponsabilizzazione diffusa, tipica della governance neoliberale: tutti sono responsabili in teoria, nessuno in pratica.

L’infanzia come dispositivo politico

Ma non si tratta solo di una crisi etica o amministrativa. L’infanzia — in questo caso — è anche un campo di battaglia simbolico. È attraverso la rappresentazione dell’infanzia che una società articola i propri confini morali, le sue soglie di accettabilità. Quando l’infanzia viene negata, invisibilizzata, distrutta, ciò che viene colpita è l’idea stessa di futuro. È come se la società dicesse, attraverso questi corpi, che non c’è tempo per il futuro. Che l’unico tempo possibile è quello del lavoro, della produzione, della sopravvivenza.

Il bambino invisibile diventa allora il simbolo vivente di una temporalità spezzata. Non può progettare, non può desiderare, non può immaginare. Tutto il suo tempo è già colonizzato dal presente economico. In questo senso, l’infanzia negata non è solo una tragedia umana: è una dichiarazione politica. Dice: non c’è posto per chi non produce. Non c’è spazio per una vita improduttiva, non c’è risorsa per ciò che non si trasforma in valore di scambio.

Ed è forse proprio qui che il capitalismo mostra il suo volto più feroce: nel non poter tollerare l’infanzia, cioè la pura esistenza sprovvista di utilità. L’infanzia è ciò che eccede, ciò che si sottrae alla logica del profitto — ed è per questo che va integrata con violenza o espulsa silenziosamente.

Il ruolo delle istituzioni: retorica e inazione

Il linguaggio delle istituzioni, quando si confronta con questi fenomeni, tende a oscillare tra due poli: la retorica della compassione e la gestione dell’ordine pubblico. Da un lato, si moltiplicano le dichiarazioni di principio: “è inaccettabile”, “dobbiamo intervenire”, “nessun bambino deve restare indietro”. Dall’altro, si attivano meccanismi di controllo, censimento, repressione del lavoro nero. Ma nessuna di queste due modalità arriva al cuore del problema.

Perché intervenire davvero, significherebbe modificare le condizioni di possibilità dello sfruttamento agricolo. E questo, a sua volta, implicherebbe mettere in discussione l’intera filiera: i rapporti tra piccoli produttori e grande distribuzione, la fiscalità, i meccanismi di concorrenza sleale, la logica del prezzo minimo garantito. In altre parole, significherebbe politicizzare l’economia agricola.

Ma questo tipo di operazione è esattamente ciò che il sistema politico contemporaneo tende a evitare. La governance neoliberale, infatti, si fonda sulla depoliticizzazione dei processi economici: ogni disuguaglianza è presentata come inevitabile, ogni ingiustizia come un effetto collaterale di necessità strutturali.

Così, i bambini continuano a vivere nei campi, tra i pesticidi e le serre, mentre i Comuni discutono sulla residenza anagrafica e i Ministeri pubblicano linee guida.

La soglia dell’abitazione: la casa come luogo della marginalità

Un altro elemento che emerge con forza dal rapporto è la condizione abitativa dei minori sfruttati. Vivono spesso in alloggi malsani, condivisi da più famiglie, senza accesso all’acqua potabile, alla luce, o ai servizi igienici di base. Non si tratta solo di povertà materiale, ma di una vera e propria negazione dello spazio. La casa — che per la gran parte dell’infanzia borghese è il luogo della protezione, dell’intimità, della formazione simbolica — diventa per questi bambini un luogo di compressione, di affollamento, di promiscuità forzata.

Il diritto all’abitare, allora, si intreccia profondamente con quello all’educazione, alla salute, alla dignità. Non si può studiare in 12 persone su 55 metri quadri. Non si può giocare in un campo agricolo sotto il sole di luglio. Non si può dormire in una baracca di plastica e zinco, e poi essere pronti per l’apprendimento scolastico alle 8 del mattino.

La condizione abitativa, in questo senso, è uno dei dispositivi attraverso cui la marginalità si riproduce. Non è un effetto del lavoro nero: è la sua premessa. Perché la mancanza di casa, come la mancanza di documenti, è ciò che garantisce la disponibilità assoluta del corpo alla produzione. Dove non c’è casa, c’è campo. Dove non c’è letto, c’è serra. Dove non c’è stanza, c’è container.

Il paradosso della sostenibilità

Ci troviamo, dunque, di fronte a un paradosso crudele: l’Italia celebra le proprie eccellenze agroalimentari, promuove il made in Italy, esporta prodotti biologici, partecipa a fiere internazionali sulla sostenibilità ambientale. Ma dietro ogni pomodoro etichettato come “naturale”, ogni grappolo d’uva venduto come “eco-compatibile”, ogni cestino di fragole “a chilometro zero”, si nasconde un’economia che si regge sullo sfruttamento sistematico di vite infantili.

La sostenibilità, in questo contesto, è un simulacro. Una retorica pubblicitaria che nasconde una realtà profondamente insostenibile — sia dal punto di vista sociale che etico. Perché non può esserci nulla di “verde” in un prodotto che nasce dalla sofferenza. Non può esserci nulla di “sano” in un’economia che priva i bambini del diritto al gioco, alla crescita, alla felicità.

Il problema non è solo economico. È ontologico. È una questione di che tipo di umanità stiamo costruendo. Di quale futuro stiamo immaginando. E se la risposta è: uno in cui la produttività giustifica tutto, allora non siamo più di fronte a un fallimento delle politiche sociali. Siamo di fronte a una crisi di civiltà.

 

 

 

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