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Malattie croniche infantili: il bivio tra politica e inclusione

Scritto da Ottavia Scorpati il . Pubblicato in .

A cura di Ottavia Scorpati

Le malattie inguaribili in età pediatrica non sono solo una questione sanitaria, ma un nodo cruciale che coinvolge il sistema economico, sociale e politico di un Paese. Con oltre 35.000 bambini affetti in Italia, la scarsità di cure palliative pediatriche adeguate evidenzia un modello di welfare frammentato e diseguale, con conseguenze economiche significative per famiglie e comunità. Affrontare questa fragilità significa investire in un nuovo patto civile e geopolitico, dove inclusione, innovazione e governance integrata diventano leve strategiche per una società più giusta e resiliente.Il tema delle malattie inguaribili in età pediatrica rappresenta oggi un punto cruciale, un crocevia che interseca questioni sanitarie, economiche, educative, culturali e geopolitiche, diventando uno specchio profondo del grado di maturità di un sistema-Paese. Non è soltanto una sfida clinica, ma una questione che interpella l’intera società e il modo in cui essa decide di rispondere alla fragilità nella sua forma più disarmante: quella di un bambino che non può guarire. Quando una diagnosi sconvolge la vita di un minore, non è solo la medicina a dover intervenire, ma tutto l’ecosistema sociale: le famiglie, le scuole, le istituzioni sanitarie, le comunità locali, fino ai decisori politici e alla governance globale. La qualità della risposta a questa fragilità, o la sua assenza, riflette cosa intendiamo per dignità, inclusione e cittadinanza.

In Italia oltre 35.000 bambini convivono con patologie inguaribili, ma solo il 15% accede a percorsi adeguati di Cure Palliative Pediatriche (CPP). Questo dato non è un mero indicatore tecnico, bensì una spia chiara di un sistema sanitario ancora troppo centrato sull’ospedale, sull’urgenza e sulla frammentazione degli interventi. Le CPP non sono il “prima della fine”, bensì il “durante la vita”: esse accolgono la persona nella sua interezza, considerando le sue relazioni, le emozioni, la crescita e persino i sogni, rappresentando una forma profonda di accompagnamento, un presidio di senso laddove sembra mancare.

Tuttavia, queste cure restano marginali nei Livelli Essenziali di Assistenza, ostacolate da rigidità normative, carenze di personale specializzato e soprattutto da un’impasse culturale: l’incapacità collettiva di affrontare il dolore infantile senza cadere né nella pietà né nel silenzio, come se non parlarne potesse esorcizzarlo. Ma il silenzio isola: isola il bambino, la famiglia e chi vorrebbe esserci ma non sa come. In questo silenzio si cela una perdita economica, sociale e politica di enorme portata. Le stime europee indicano che l’esclusione sociale e sanitaria dei bambini con patologie croniche produce oltre 20 miliardi di euro annui di costi indiretti. In Italia, ogni famiglia con un bambino affetto da malattia inguaribile subisce in media una riduzione del 35% del proprio reddito, affrontando povertà, interruzioni lavorative, disagio psicologico e isolamento. Questo non è solo un danno economico, ma una grave falla nella democrazia, che non riesce a tutelare chi non ha voce.

Non si tratta solo di una questione sanitaria o economica, ma di un problema politico e geopolitico di portata globale. L’articolo 24 della Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia sancisce il diritto di ogni bambino al miglior stato di salute possibile, ma a oltre trent’anni dalla sua ratifica questo diritto rimane ancora largamente incompiuto. Le Cure Palliative Pediatriche non sono garantite in modo equo né tra Paesi europei né tra territori dello stesso Stato, delineando una nuova geografia delle disuguaglianze sanitarie, simbolo di un’Europa a due velocità, incapace di garantire coesione e giustizia intergenerazionale. In un mondo segnato da pandemie, crisi ambientali, guerre e migrazioni, sacrificare i più fragili significa incrinare il patto civile. La salute non è più solo una condizione biologica, ma un’infrastruttura politica, un bene relazionale che produce fiducia, senso di appartenenza e resilienza collettiva.

In questo quadro, la Fondazione Maruzza Lefebvre D’Ovidio Onlus propone una trasformazione radicale attraverso il progetto DARE, una sfida culturale ed educativa che coniuga innovazione e responsabilità. Il verbo “dare” significa sia offrire sia osare, partendo dall’idea che si possa educare alla fragilità, trasformare il dolore in legame e costruire comunità a partire dalla vulnerabilità. DARE si basa su due pilastri: il videogioco “Zeno e Violetta” e un percorso scolastico di service learning. Entrambi i linguaggi sono pensati per coinvolgere i giovani nel loro codice emotivo e narrativo, affinché possano confrontarsi con i “mostri” dell’indifferenza, della paura e del pregiudizio. Nel videogioco, ogni livello diventa un esercizio di empatia e allenamento emotivo, mentre a scuola si attiva un laboratorio di cittadinanza attiva in cui gli studenti, formati come peer educator, diventano portatori di cambiamento, generatori di senso e protagonisti di una cultura inclusiva.

Questa logica generativa si estende ben oltre la scuola, trovando eco nei processi di rigenerazione urbana e ambientale, come nelle foreste cittadine, spazi pensati non solo per migliorare la qualità dell’aria ma come luoghi di cura collettiva, dove gioco, relazione e memoria si intrecciano. In questi ambienti naturali, la fragilità viene accolta in modo non medicalizzato, favorendo la partecipazione alla vita pubblica senza stigma, perché la natura accoglie senza giudicare. Ogni città che investe nel verde pubblico costruisce salute mentale, coesione sociale e capitale relazionale.

Il valore di progetti come DARE si misura anche in termini ESG (Environmental, Social, Governance) e di Social Return on Investment (SROI), poiché contribuiscono a ridurre la dispersione scolastica, prevenire il disagio, rafforzare i legami comunitari e preparare le nuove generazioni ad affrontare le crisi con strumenti emotivi solidi. In un’epoca di tensioni climatiche, sociali e politiche, il capitale relazionale si conferma la risorsa più strategica e irrinunciabile.

La posta in gioco è profondamente culturale: spostare lo sguardo dalle Cure Palliative Pediatriche come “fine vita” a riconoscerle come un pilastro del welfare del XXI secolo, un indicatore di civiltà. Una nazione non si definisce solo per ciò che sa curare, ma per come sa prendersi cura. Prendersi cura è un atto politico, tecnico e culturale che fonda la pace sociale, la giustizia intergenerazionale e uno sviluppo umano autentico. L’Italia, grazie all’impegno della Fondazione Maruzza, può diventare promotrice in Europa di un modello integrato e replicabile, centrato sul bambino fragile non come problema da risolvere, ma come leva di innovazione, un modello che coniuga sanità, educazione, ambiente, tecnologia e cultura, e che osa educare alla vulnerabilità come forza e non come limite.

Una civiltà che include il dolore è una civiltà che sa generare futuro. Una scuola che parla di malattia educa alla vita. Una comunità che accoglie la fragilità tiene insieme il proprio destino. Un giovane che impara ad ascoltare il dolore sarà un cittadino capace di costruire pace. Nel cuore di ogni società matura esiste una domanda silenziosa e ineludibile: cosa facciamo quando un bambino non può guarire? La risposta non è solo medica, ma politica, culturale e umana. Dipende da noi tutti, perché una società che sceglie di non voltarsi dall’altra parte diventa essa stessa cura.

In un contesto geopolitico segnato da dinamiche di potere sempre più pragmatiche, come dimostrano le strategie di Cina, Russia e altri attori internazionali che agiscono coerentemente per tutelare e ampliare i propri interessi strategici, l’Occidente appare spesso diviso e privo di una visione strategica condivisa. Frammentato tra priorità interne e politiche non coordinate, fatica a fornire risposte unitarie ai grandi dossier globali: dai conflitti armati alle crisi ambientali, dalle migrazioni alla transizione energetica. Questa assenza di leadership coesa lascia spazi vuoti che vengono rapidamente occupati da potenze con valori democratici e umanitari differenti. Di fronte a questa realtà, la comunità internazionale, in particolare l’Unione Europea e i grandi Paesi democratici, ha non solo una responsabilità politica ma un obbligo morale: agire per prevenire l’erosione del diritto internazionale, tutelare i diritti umani e rafforzare i meccanismi di cooperazione e sicurezza collettiva. Il tempo delle analisi è finito, servono scelte coraggiose e una nuova capacità di visione comune.

In definitiva, prendersi cura di chi non può guarire significa ridefinire l’idea stessa di civiltà, costruire un nuovo patto terapeutico che integri sanità, educazione, ambiente, cultura e digitale, promuovendo trasparenza tecnologica e giustizia algoritmica in un’epoca in cui intelligenza artificiale, digital twin e medicina predittiva stanno ridefinendo i confini della cura. Serve una governance internazionale condivisa, capace di garantire equità di accesso, etica dell’innovazione e tutela della persona, contrapponendo al pragmatismo geopolitico un modello fondato sui diritti, la solidarietà e la dignità umana.

Educare alla vulnerabilità è costruire futuro, è trasformare la fragilità da problema a risorsa, da limite a leva generativa. Perché una società che include il dolore è una società che sa generare futuro, una scuola che parla di malattia è una scuola che educa alla vita, una comunità che accoglie la vulnerabilità è una comunità capace di affrontare le crisi senza spezzarsi. Un giovane che ha imparato ad ascoltare il dolore sarà domani un cittadino capace di costruire pace.

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