
Materia attiva dell’oro diventa linguaggio
Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in Economia e Politica.
A cura di Agostino Agamben
In un presente dominato dall’incertezza e dall’erosione dei riferimenti economici, sociali e simbolici, l’oro riemerge come soglia, rifugio, linguaggio. Non è solo materia o moneta: è un orizzonte che interroga il nostro rapporto con il tempo, la fiducia, il rischio. Investire in oro oggi non è un gesto tecnico, ma un atto culturale e politico: un modo per prendere posizione nell’instabilità, per scegliere cosa attraversare e cosa lasciare indietro.
Il prezzo dell’oro continua a risalire, e ogni nuovo record è come un’eco che risuona in un vuoto: un segno che torna su sé stesso, un’immagine che si piega e ritorna, un simbolo che si intreccia con ciò che non si può toccare. Non si tratta, dunque, di mera cronaca dell’economia, ma di un evento che reclama di essere pensato come soglia, come frammento di ciò che sfugge all’orizzonte regolare. Investire – in oro – non significa semplicemente puntare su un asset, bensì scegliere una posizione nell’incertezza, decidere di abitare il confine.
L’oro, fin dai tempi antichi, si è caricato di doppia appartenenza: da un lato è materia, peso, misura; dall’altro è segno, residuo, icona. Non è “solo” moneta, non è “solo” riserva. Nella crisi esso si conferma come dispositivo che media tra il visibile e l’invisibile, tra lo statuto del valore e l’esperienza dell’inatteso. È bene rifugio non solo perché è percepito come stabile, ma perché è impermeabile – non del tutto – alla logica del capitale finanziario che si auto rinnova, si moltiplica, si dissolve. In esso insiste qualcosa che non si acquista del tutto: un residuo di disappropriazione.
Dunque l’oro non è neutro. È soglia che pulsa, guardiana del margine. Ogni volta che il prezzo sale, non è solo il valore che s’innalza, ma la linea di tensione che si sposta. Il mercato crede di calcolare, ma è sempre in parte disarmato davanti a quel che rimane fuori della formula. Goldman Sachs, nel suo bollettino del 6 maggio 2025, conferma la traiettoria rialzista: 3.700 dollari l’oncia come previsione «base», scenari estremi che toccano 3.880 o, nelle ipotesi più radicali, 4.500 dollari, in presenza di shock sistemici. Queste cifre, però, non sono semplici stime: trasformano l’oro in dispositivo di anticipazione.
Se la recessione dovesse colpire con durezza, si dice, gli ETF legati all’oro attrarrebbero flussi talmente massicci da trascinare l’oncia verso 3.880. E nel caso di rotture radicali – rotture della credibilità monetaria, pressioni sulla Fed, crisi del sistema bancario – addirittura 4.500 entro il 2025. A lungo termine, la traiettoria tende verso 4.000 entro la metà del 2026. Se queste cifre fossero confermate, dovremmo dire che il prezzo dell’oro non sale: trascina con sé un paradigma simbolico che riscrive le coordinate dell’economia.
Ma come ogni paradigma simbolico, l’oro non è impermeabile: affiora il rischio. Se l’inflazione crollasse, se la stabilità monetaria tornasse a respirare, se i mercati recuperassero fiducia, quel margine potrebbe ritirarsi, restare come segreto inutilizzato, come soglia che non è stata attraversata. E chi ha investito – nel momento dell’ascesa – sarà chiamato a restare sospeso tra due poli: quello del guadagno possibile e quello del vuoto che avanza.
Cerchiamo allora di costruire un sistema di ragione che attraversi questi poli. Primo: l’incertezza macroeconomica è forte e persistente. Guerre commerciali, rivalità Usa Cina, conflitti nel Medio Oriente, fragilità delle grandi economie occidentali: tutto pesa. Secondo: le banche centrali oscillano tra rigidità e adattamento. I tassi reali restano bassi, ma la fiducia nella linea futura è instabile. Si valuta che la Fed possa subire pressioni politiche o che debba cambiare corso — e ciò diventa esso stesso fattore di ansia. Terzo: la domanda fisica e finanziaria dell’oro si intreccia con le strategie statali: le banche centrali accrescono le riserve, i privati comprano lingotti e monete, gli ETF diventano canali meccanizzati della paura e della speranza.
La dinamica dunque non è lineare: non è che l’oro salga “perché c’è inflazione” o “perché c’è incertezza”, ma piuttosto che l’oro sale man mano che l’insicurezza diventa norma e l’ordinario salta la soglia. È un effetto cumulativo: quanto più il sistema percepisce che non può più ignorare il rischio, tanto più l’oro reclama spazio. E qui compare il gesto dell’investitore: non è un atto tecnico, ma un atto di testimonianza — testimonianza del fatto che si riconosce un punto di fusione tra finanza e esistenza.
A partire da questa prospettiva si può rivedere la domanda: è il momento giusto per investire in oro? Non si può rispondere con un sì o un no: si può rispondere che oggi investire in oro è assumersi, in pieno, la tensione del tempo. Significa iscriversi in quella soglia che si sposta, che reclama di essere attraversata ma che non garantisce l’attraversamento con esito felice.
Se l’oro, oggi, si aggira fra i 2.300 e i 2.400 dollari l’oncia (valore indicativo) — e se le proiezioni rialziste dovessero confermarsi — chi entra ora potrà raccogliere benefici rilevanti. Ma occorre farlo con misura e vigilanza. L’operazione non dev’essere totale: non si investe tutto, non si attende la perfezione. L’acquisto deve essere modulato, fra resistenza e possibilità, fra fiducia e sospetto. È come percorrere un confine senza sapere se si troverà altro lato: chi entra oggi lo fa come un esploratore, non come un dominatore.
Chi già possiede oro dovrà reinterpretare la propria posizione: moltiplicare la sensibilità al contesto, rimodulare le quote, non restare un monolite. Ogni asset – anche l’oro – può consumarsi come forma se rimane inerte al movimento del tempo. Un portafoglio bilanciato non è quello che ignora l’oro o lo celebra come assoluto, ma quello che sa modulare la soglia del non tutto.
E tuttavia, l’oro rimane al centro non solo per ragioni economiche, ma perché rifrange in sé le tensioni globali: i dazi, i conflitti, le strategie di controllo dei confini economici e politici. Quando Trump firma l’accordo con Londra – togliendo i dazi su acciaio e alluminio, concedendo riduzioni tariffarie sulle auto – non si tratta semplicemente di misure commerciali: è una ridefinizione della spazialità economica. Ciò che era mercato comune diventa terreno di bilateralismo. Il Regno Unito ottiene vantaggi che l’Europa non può garantire; l’Italia resta in bilico, esposta a nuovi flussi e nuove esclusioni.
L’intesa Usa Uk, che elimina i dazi per acciaio e alluminio britannici (25%) e riduce quelli sulle auto fino al 10% per le prime 100 mila unità, è presentata come “storica”. Ma dietro la retorica si apre un’operazione di ridefinizione dello spazio del commercio: si delegittima l’unione europea come soggetto negoziale unitario. L’accordo si gioca nel confine che delimita il “noi” e il “loro” nel mercato globale. E l’Italia, stretta fra industria e export, rischia di essere spinta ai margini: i prodotti italiani potrebbero perdere accesso o subire penalità competitive. Non è solo una questione di dazi: è questione di destinatari e di percorsi.
Il mondo del Private Equity paga il prezzo della paura. Il primo trimestre 2025 registra 445 miliardi di dollari investiti — un calo del 4,1% rispetto al trimestre precedente — e soprattutto un drastico calo nel numero delle operazioni: da 4.960 a 3.760, meno 24%. Gli operatori si ritraggono, sospendono decisioni, attendono che la soglia della stabilità riemerga. Le Americhe resistono con un certo vigore (da ~240 a ~287 miliardi), mentre il complesso EMA (Europa, Medio Oriente, Asia) arretra fortemente nei numeri e nei valori. È come se il centro del capitale cercasse riparo – non necessariamente nel suo alveo originario – ma in quella regione che preserva margine simbolico.
I settori che attraggono più capitale restano TMT (117,4 miliardi), industriale (66,4), energia e risorse naturali (61,5). Infrastrutture e trasporti girano attorno ai 44,4 miliardi nel solo primo trimestre. Ma ciò che colpisce è il rallentamento generalizzato: gli investitori si fanno spettatori, sospesi in attesa. È l’immobilismo di chi è consapevole che ogni scelta può essere travolta da un vento improvviso.
Ecco che allora l’oro, in questo contesto, non è opzione secondaria: è dispositivo di misura, traccia residua che richiama il soggetto all’attesa attiva. Non è un “bene parziale” ma un segno di posizione: fra fiducia e dubbio, fra potenza e vulnerabilità.
Allo stesso modo, il cinema italiano entra in questa trama. Quando Trump annuncia l’intenzione di imporre un dazio del 100% sui film stranieri, non sta mirando solo al fatturato: sta rivendicando il controllo dell’immaginario e del flusso simbolico. Il cinema diventa confine culturale: quello che si esporta è ciò che si attribuisce valore, e imporre barriere equivale a ridefinire la comunità possibile degli spettatori. Il “fare film in America” diventa slogan daziario, ma è anche gesto di sovranità simbolica: chi decide cosa si vede, decide cosa si pensa.
Se il cinema italiano esporta tra 106 e 156 milioni di euro (tra il 2023), se i film italiani in Francia sono un quinto dei biglietti francesi in Italia, se la Germania esporta più cinema verso di noi di quanto noi esportiamo a loro — e se questo squilibrio risulta strutturale — allora un dazio del 100% su film stranieri sarebbe colpo diretto non solo all’economia culturale, ma al senso stesso di internazionalità. In questo disegno, l’oro e il cinema coincidono come soglie: ciò che si può esportare è ciò che è riconosciuto come valore, e ciò che viene imposto come barriera indica da che parte è il potere.
Similmente, la prospettiva di dazi farmaceutici negli Usa – fino al 25% – introduce un’altra linea di tensione fra vita e mercato. Il farmaco è vita, e imporre barriere su ciò che salva significa che la sovranità si estende nel corpo. L’Italia, esportatrice per oltre 10 miliardi di dollari di farmaci verso gli Usa, si troverebbe a doversi ridurre sotto il peso di una scelta altrui: non perdere valore commerciale, ma perdere la relazione con ciò che cura. Di nuovo il confine: la salute che passa attraverso dogane, tariffe, esclusione. Il farmaco diventa soglia di negoziazione politica.
E dietro tutte queste crisi – energetica, agricola, commerciale – si muove la questione dell’approvvigionamento russo. L’Unione europea contempla lo stop totale al gas russo entro il 2027, con blocco dei nuovi contratti già entro fine anno, clausole di forza maggiore, dazi al 100% sui fertilizzanti russi e bielorussi dal luglio 2025. Idee forti. Ma tutto ciò resta fragile fino a che non si tracciano i contorni del possibile. La Commissione cerca di disegnare linee coerenti, ma i Paesi dell’Unione dissentono: Ungheria e Slovacchia resistono, i costi dell’agricoltura temono rimbalzi. Le materie prime, i fertilizzanti, la logistica: tutto può diventare arma finanziaria.
In questo mosaico, l’oro permane come figura residua: non richiede concessioni, non si plasma ai contratti, non obbedisce del tutto. È metallo che testimonia, più che dominare. Non è facile dire che oggi sia il “momento giusto” per investire in oro — ma è certo che oggi investire in oro significa assumersi una testimonianza del tempo. È voler segnare, nel proprio portafoglio, un frammento di confine, un margine di dissenso nei confronti della dissoluzione automatica del valore.
Chi entra ora lo fa con consapevolezza: non come dominatore dell’economia, ma come abitante del confine. Non come calcolatore, ma come interprete della soglia che si sposta. E chi già vi è dentro dovrà continuare a muoversi, a leggere i segnali che dall’energia, dalla cultura, dalla geopolitica emergono. L’oro non deve diventare dogma, né l’investimento miracoloso: deve restare tensione, residuo, gesto di resistenza.
In questo tempo incerto, l’oro è ancora – forse sempre – il luogo in cui si misura la distanza tra il possibile e l’inesprimibile. E investire in oro non è semplicemente investire in metallo: è prendere posto in una soglia del pensiero economico, dove il valore non si esaurisce nella formula, e l’evento del rischio non è rimosso, ma accolto.