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Moda sostenibile e moda responsabile

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura Agostino Agamben

Fra sogni e contraddizioni

In un’epoca dominata dalla frenesia del nuovo e dalla corsa incessante all’innovazione, il concetto stesso di “moda” appare come un paradosso nella misura in cui si cerca di coniugarlo con la sostenibilità. La moda, infatti, è per sua natura un fenomeno del divenire, un’onda continua di cambiamento che si propaga nel tempo breve e si consuma rapidamente, imponendo un ritmo accelerato di produzione e consumo. Eppure proprio in questo movimento incessante si annida la contraddizione più profonda: come può qualcosa che fonda la sua esistenza sul mutamento e sull’obsolescenza essere al contempo sostenibile?

La domanda sembra rimbalzare sulla superficie delle campagne pubblicitarie e delle dichiarazioni d’intenti, senza mai trovare una risposta pienamente convincente. L’industria della moda si presenta come uno dei più imponenti agenti di trasformazione del pianeta, ma anche come una delle fonti più ingombranti di inquinamento e sfruttamento. Il dato non è nuovo: si calcola che essa contribuisca per almeno un decimo alle emissioni globali di gas serra e che la quantità di rifiuti tessili prodotti ogni anno sia in crescita esponenziale. Non è quindi un mero problema tecnico o gestionale, ma un problema che tocca la radice stessa di un modello di sviluppo fondato sull’espansione illimitata e sul consumo incessante.

All’interno di questo quadro, il termine “moda sostenibile” si configura come un ossimoro, un’increspatura semantica che tradisce un tentativo di saldare due realtà contrapposte. Da un lato, la sostenibilità richiama l’idea di un rispetto rigoroso dei limiti ambientali, di un equilibrio fragile e necessario con il mondo naturale; dall’altro, la moda, nel suo movimento perpetuo, sembra irridere a ogni vincolo, trascinando il desiderio e il consumo verso un infinito senza confini.

La crisi climatica, con la sua evidenza implacabile, ha posto la questione al centro dell’agenda globale, ma la risposta del sistema moda è stata, fino a oggi, contraddittoria. Le dichiarazioni d’intenti, i patti per il clima, le campagne di sensibilizzazione non sono riusciti a modificare sostanzialmente la traiettoria di crescita e spreco. Questa dissonanza tra parole e fatti apre uno spazio ambiguo, quello del greenwashing, dove la retorica della responsabilità ambientale rischia di diventare una maschera che nasconde l’inerzia strutturale del sistema.

Se allora la sostenibilità appare come un ideale distante, non resta che un passo laterale: quello della responsabilità. Diversa dalla promessa illusoria della sostenibilità, la responsabilità si configura come un orizzonte etico, una chiamata all’azione che prende atto delle contraddizioni e degli ambiti complessi in cui ci muoviamo. La responsabilità implica un riconoscimento delle conseguenze delle proprie scelte, una pratica che si declina nel quotidiano e che non si limita alla dimensione ambientale, ma si estende all’equità sociale, alla trasparenza, alla cura.

In questa prospettiva, la “moda responsabile” non nega la natura del fenomeno, ma ne mette in luce le ambiguità, aprendosi a una riflessione critica che può diventare terreno di trasformazione. La moda, in quanto pratica sociale e culturale, esprime la tensione tra il desiderio di novità e la necessità di limite, tra la dimensione simbolica e quella materiale. È una forma di comunicazione, un modo per costruire identità e relazioni, un campo dove si negoziano appartenenza e differenziazione.

Le dinamiche contemporanee, inoltre, sono segnate dall’irrompere del digitale, del virtuale, del metaverso, che spostano la moda in territori nuovi, ibridi, in cui la materialità si dissolve e si trasforma in esperienza immateriale. Qui il problema si complica ulteriormente: la moda virtuale riduce l’impatto fisico diretto, ma alimenta un consumo simbolico che conserva la sua forza performativa e può amplificare i ritmi di consumo.

L’esperienza della Generazione Z appare emblematicamente ambivalente: consapevole dei rischi ambientali, ma al contempo immersa in un circuito accelerato di consumo e rappresentazione, che intreccia reale e virtuale, desiderio e strategia di identità. Questo doppio movimento impone una riflessione profonda su come la responsabilità possa abitare anche questi nuovi spazi, senza perdere di vista la materialità delle conseguenze.

Nel concreto, si possono individuare esempi che, pur nella loro parzialità, offrono una possibilità di praticare una moda responsabile. Il caso di Golden Goose, con la sua proposta di riparazione artigianale delle sneaker, mette in luce una dimensione di cura e durata che si oppone alla logica dell’usa e getta. La “perfetta imperfezione” che caratterizza i suoi prodotti invita a riconoscere la bellezza nell’usura, nella storia degli oggetti, aprendo uno spazio dove la responsabilità si intreccia con l’estetica e con l’etica.

La riparazione, in questo contesto, non è solo un atto tecnico, ma un gesto simbolico, una forma di resistenza che rallenta il tempo della moda, recupera il valore dell’esistente e costruisce una relazione più autentica con il mondo materiale. Allo stesso modo, l’attività di raccolta e riciclo si propone come dimensione collettiva, in cui il gesto individuale si inserisce in una rete più ampia di rigenerazione.

Ma questi esempi, pur importanti, non cancellano la complessità strutturale del sistema. La moda resta un fenomeno economico globale che coinvolge milioni di lavoratori, produttori, consumatori, legislatori. Ridurre drasticamente i consumi, seppur necessario, impone scelte dolorose e articolate, soprattutto in relazione alle disuguaglianze sociali e territoriali. La responsabilità diventa allora una pratica di equilibrio, un tentativo di articolare un’etica che tenga insieme dimensioni ambientali, sociali, culturali ed estetiche.

Il rischio, se non si cambia il paradigma, è quello di perpetuare una forma di illusione collettiva, di alimentare un sogno che non ha la forza di trasformarsi in realtà. La moda può così diventare un riflesso deformato delle contraddizioni del nostro tempo, una rappresentazione estetica che maschera l’assenza di soluzioni concrete.

La sfida è dunque duplice: da un lato, decostruire i miti e le narrazioni che accompagnano la moda contemporanea, restituendo a “responsabilità” il suo peso etico e critico; dall’altro, inventare nuove forme di produzione e consumo, nuovi modi di pensare e praticare la moda che superino l’idea di crescita infinita e abbraccino la complessità delle relazioni tra uomo, natura e società.

Solo in questo spazio sospeso tra desiderio e limite, tra sogno e realtà, la moda può aspirare a essere non solo un fenomeno estetico, ma un campo di azione capace di trasformare se stessa e il mondo che la circonda. La responsabilità, intesa come pratica quotidiana e come tensione permanente, si presenta come il possibile fondamento di questa trasformazione.

Di fronte a questo scenario, appare urgente un ripensamento critico che non indulgere né alla nostalgia per un passato idealizzato né al cinismo rassegnato. La moda sostenibile non può essere una semplice etichetta da apporre a prodotti o iniziative, ma deve diventare un modo di abitare il mondo, un impegno a custodire ciò che ci sostiene e a riconoscere la fragilità dei nostri equilibri.

La trasformazione della moda, quindi, non è solo una questione tecnica o commerciale, ma una sfida filosofica e culturale che interroga la nostra capacità di pensare il tempo, il desiderio, la relazione tra sé e l’altro, tra l’individuo e la comunità. È una sfida che chiede di superare la contrapposizione tra innovazione e tradizione, tra consumo e cura, tra estetica e etica.

In questo senso, la responsabilità non è un limite alla creatività, ma il suo terreno più autentico, la condizione per una nuova forma di libertà che si misura con la realtà e con il futuro. Solo così la moda può diventare un luogo di speranza, un campo di sperimentazione che mette in crisi le logiche del profitto e apre a nuove possibilità di relazione e di vita.

Ecco che, allora, la moda responsabile non si presenta come una soluzione definitiva, ma come un processo aperto, un invito a ripensare continuamente le nostre pratiche, a interrogare le nostre scelte, a mantenere viva la tensione tra ciò che desideriamo e ciò che è necessario. In questa sospensione si gioca il possibile destino della moda e forse, più in generale, del nostro modo di abitare il mondo.

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