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Prova che cambiare è Possibile per Salvare il Clima

Scritto da Fulvio Muliere il . Pubblicato in .

a cura di Fulvio Muliere

Come la determinazione globale nella lotta all’assottigliamento dell’ozonosfera può ispirare nuove strategie per affrontare le sfide ambientali di oggi

Nel corso degli ultimi decenni, il mondo ha assistito a una delle più straordinarie dimostrazioni di cooperazione internazionale in ambito ambientale: la lotta contro il buco nell’ozonosfera. Un fenomeno che, agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, ha rappresentato per anni il simbolo tangibile di una minaccia globale e che, grazie a un intervento rapido e deciso della comunità scientifica e politica, ha mostrato che anche problemi ambientali complessi possono essere affrontati con successo. Quando, negli anni Ottanta, i dati scientifici rivelarono il progressivo assottigliamento dello strato di ozono nella stratosfera, la reazione collettiva fu tanto decisa quanto inaspettata. La firma del Protocollo di Montréal nel 1987, seguita da una lunga serie di azioni concrete, ha segnato l’inizio di una transizione verso un uso più responsabile delle sostanze chimiche e una maggiore consapevolezza del nostro impatto sul pianeta.

Questa esperienza, che ha portato negli anni a una progressiva ricostituzione dello scudo protettivo dell’ozono, rappresenta oggi un punto di riferimento imprescindibile nel dibattito sul cambiamento climatico. Sebbene le due crisi differiscano per complessità, scala e implicazioni economiche, il precedente dell’ozono ci mostra che la convergenza tra scienza, politica e industria può produrre risultati concreti e misurabili. Se allora il mondo seppe mobilitarsi contro una minaccia invisibile ma letale, oggi, di fronte all’urgenza della crisi climatica, possiamo e dobbiamo riscoprire quello stesso spirito di collaborazione e quella stessa fiducia nella nostra capacità di cambiare rotta.

Da questa riflessione prende avvio il seguente testo, che ripercorre in modo approfondito la vicenda del buco dell’ozono, analizzandone le cause, le conseguenze e soprattutto le risposte che la comunità internazionale è riuscita a mettere in campo. Un caso emblematico che non solo testimonia ciò che è stato fatto, ma offre indicazioni preziose su ciò che possiamo ancora fare per il futuro del pianeta.

A partire dagli anni Ottanta, la comunità scientifica e l’opinione pubblica mondiale hanno rivolto una crescente attenzione al fenomeno allarmante del buco nell’ozonosfera, una minaccia ambientale che per molto tempo ha incarnato l’immagine della catastrofe ecologica imminente, ben prima che il cambiamento climatico diventasse il centro del dibattito globale. Il problema emerse con chiarezza quando si rilevò un’improvvisa e consistente diminuzione dello strato di ozono nella stratosfera sopra l’Antartide. La scoperta, resa nota nel 1985 dal British Antarctic Survey, suscitò uno shock collettivo. Improvvisamente divenne evidente che l’atmosfera terrestre, fino ad allora ritenuta un involucro inviolabile e immutabile, era invece vulnerabile all’impatto delle attività umane. Le implicazioni per la salute umana, per gli ecosistemi e per l’equilibrio climatico furono immediatamente riconosciute come potenzialmente devastanti.

L’ozonosfera è una fascia dell’atmosfera situata tra i 10 e i 50 chilometri di altitudine, all’interno della stratosfera, in cui si concentra la maggior parte dell’ozono atmosferico, una molecola formata da tre atomi di ossigeno. Questo gas, pur rappresentando una minima parte della composizione atmosferica – circa tre molecole ogni dieci milioni di molecole d’aria – svolge una funzione vitale: assorbe fino al 99% delle radiazioni ultraviolette (UV) emesse dal Sole, in particolare quelle più pericolose per gli esseri viventi, le UV-B e le UV-C. In assenza di questo scudo naturale, la superficie terrestre verrebbe raggiunta da livelli di radiazione tali da compromettere la sopravvivenza di molte forme di vita. Le piante soffrirebbero alterazioni nei processi fotosintetici, gli animali – inclusi gli esseri umani – andrebbero incontro a una crescita esponenziale di tumori cutanei, problemi alla vista, danni al DNA e indebolimento del sistema immunitario.

La composizione e il comportamento delle radiazioni UV variano in funzione della loro lunghezza d’onda. Le UV-C, altamente energetiche e pericolose, vengono quasi completamente bloccate dallo strato di ozono. Le UV-B, meno energetiche ma comunque dannose, sono schermate solo parzialmente: una piccola frazione riesce a penetrare fino alla superficie, causando danni alla pelle e agli occhi, ma anche stimolando, in modo controllato, la produzione di vitamina D. Le UV-A, ancora meno energetiche, attraversano quasi indisturbate l’atmosfera e sono responsabili dell’invecchiamento precoce della pelle. L’equilibrio tra l’assorbimento e il passaggio di queste radiazioni rappresenta un esempio perfetto di omeostasi naturale che regola il delicato rapporto tra la vita e l’ambiente. La riduzione anche minima di questo equilibrio produce effetti a catena difficili da controllare.

A partire dagli anni Settanta, le osservazioni effettuate dai satelliti e da stazioni meteorologiche rilevarono un’anomalia preoccupante nella distribuzione dell’ozono: un assottigliamento costante dello strato nella zona antartica. Gli scienziati individuarono nei clorofluorocarburi (CFC) e in altri idrocarburi alogenati i principali responsabili di questo processo di distruzione. Queste sostanze, una volta rilasciate nell’atmosfera, si accumulano nella stratosfera e, sotto l’azione dei raggi UV, rilasciano atomi di cloro e bromo, altamente reattivi. Un singolo atomo di cloro è in grado di distruggere migliaia di molecole di ozono in un ciclo catalitico che non si arresta facilmente. L’uso dei CFC era allora diffusissimo: si trovavano nei refrigeranti, negli spray propellenti, nei solventi e in molti dispositivi elettronici.

La risposta della comunità internazionale fu sorprendentemente rapida ed efficace. Nel 1987, appena due anni dopo la pubblicazione dei dati drammatici sul buco antartico, fu firmato il Protocollo di Montréal. Questo accordo, sottoscritto inizialmente da 24 Paesi e successivamente ratificato da tutte le nazioni riconosciute dall’ONU, rappresenta uno dei primi esempi di cooperazione globale vincolante in materia ambientale. L’intesa prevedeva la graduale eliminazione dei CFC e di altre sostanze ozono-lesive, secondo un calendario differenziato per i Paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo, tenendo conto delle rispettive capacità tecnologiche ed economiche. Il principio di responsabilità comune ma differenziata veniva così applicato in maniera pragmatica ed efficace, garantendo sostegno finanziario e tecnico ai Paesi meno avanzati tramite la creazione del Fondo Multilaterale per l’Ozono nel 1991.

Gli effetti del Protocollo non si fecero attendere. Le industrie chimiche, inizialmente riluttanti, si adeguarono rapidamente alla nuova regolamentazione grazie a una combinazione di incentivi economici, pressioni normative e spinte reputazionali. I CFC furono progressivamente sostituiti dagli idroclorofluorocarburi (HCFC), meno dannosi ma ancora imperfetti, e poi dagli idrofluorocarburi (HFC), che pur non danneggiando l’ozono, si rivelarono potenti gas serra. Anche questi ultimi sono oggi oggetto di misure correttive. Il risultato complessivo di questo processo è visibile nei dati raccolti da enti come la NASA e la NOAA: il buco nell’ozono si sta lentamente richiudendo e, secondo le previsioni, potrebbe tornare ai livelli pre-1980 tra il 2040 e il 2070, a seconda delle latitudini.

Questo successo ha molteplici significati. Non solo ha dimostrato che la cooperazione internazionale può funzionare, ma ha anche evidenziato il potere della scienza di influenzare le decisioni politiche quando comunicata in modo chiaro, accessibile e credibile. La percezione diffusa del rischio – grazie a una comunicazione efficace e a immagini d’impatto – ha permesso una mobilitazione collettiva senza precedenti. Il buco dell’ozono è diventato un simbolo tangibile di minaccia ambientale, capace di coinvolgere l’opinione pubblica, le istituzioni e il mondo produttivo. Il suo impatto psicologico fu fondamentale: a differenza del cambiamento climatico, spesso percepito come lontano e astratto, l’idea che un raggio solare potesse causare un tumore immediato ha avuto un effetto galvanizzante.

Oggi, di fronte alla crisi climatica globale, il successo della lotta al buco dell’ozono viene spesso citato come modello. Tuttavia, occorre sottolineare che le due problematiche, pur avendo elementi in comune, presentano differenze strutturali significative. Il problema dell’ozono era legato a una famiglia di composti relativamente limitata, prodotta da settori industriali specifici, e sostituibile con tecnologie alternative. Il cambiamento climatico, invece, è intrinsecamente connesso all’intero sistema energetico globale, ai modelli di produzione e consumo, al trasporto, all’agricoltura, agli stili di vita. Ridurre le emissioni di CO₂ non significa solo cambiare alcuni processi industriali, ma trasformare radicalmente l’economia mondiale. Le fonti fossili, cuore della crisi climatica, rappresentano tuttora la spina dorsale della produzione energetica in molti Paesi, e sono protette da interessi economici e politici enormi.

Eppure, l’esperienza dell’ozono insegna che un cambiamento è possibile, anche quando si parte da situazioni critiche. In primo luogo, insegna il valore di una scienza unificata e credibile, capace di costruire consenso e orientare l’azione pubblica. L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), pur tra mille difficoltà, svolge oggi un ruolo simile a quello giocato dagli organismi scientifici nell’epoca del Protocollo di Montréal. In secondo luogo, mostra l’importanza di meccanismi vincolanti e di strumenti di equità, come i fondi per la transizione e i calendari differenziati per i Paesi con capacità economiche diverse. In terzo luogo, indica la necessità di rendere il problema “visibile”, concreto, umano: solo così l’opinione pubblica può sentirsi parte della soluzione.

La cooperazione internazionale resta la condizione necessaria per affrontare crisi ambientali di portata planetaria. Il successo del Protocollo di Montréal si basa anche sulla capacità di superare le rivalità ideologiche dell’epoca: Stati

Uniti e Unione Sovietica, pur divisi da una Guerra Fredda ancora in corso, trovarono un terreno comune nella difesa della salute pubblica. La sicurezza ambientale venne riconosciuta come un nuovo pilastro della sicurezza nazionale e globale. In modo analogo, oggi le tensioni tra Occidente e potenze emergenti, come Cina e India, devono lasciare spazio a una convergenza su obiettivi condivisi. Le diseguaglianze storiche in termini di emissioni – il cosiddetto debito ecologico – devono essere affrontate tramite strumenti di giustizia climatica: tecnologia condivisa, finanziamenti per l’adattamento, riconoscimento del diritto allo sviluppo.

Una sfida ulteriore consiste nel coinvolgere i livelli di governance subnazionali: regioni, città, comunità locali. Mentre la lotta all’ozono fu gestita essenzialmente a livello intergovernativo, il contrasto al cambiamento climatico richiede una mobilitazione capillare. Le decisioni su trasporti, edilizia, gestione dei rifiuti e uso del suolo vengono spesso prese a livello locale. Le città possono diventare veri e propri laboratori di innovazione e partecipazione, capaci di sperimentare soluzioni replicabili altrove. Il ruolo dei cittadini, in quanto consumatori, elettori e promotori di cultura, è oggi più centrale che mai. La transizione ecologica, per avere successo, deve diventare un progetto collettivo.

Il caso dell’ozono dimostra infine che l’industria può adattarsi, innovare e persino trarre beneficio da nuove regole ambientali, se queste sono chiare, stabili e accompagnate da investimenti. Le grandi multinazionali chimiche seppero trasformare la crisi in opportunità, investendo in ricerca e sviluppo di alternative più sicure. Lo stesso dovrà accadere con le energie rinnovabili, con la mobilità sostenibile, con l’agricoltura rigenerativa. Il profitto non è per forza nemico dell’ambiente, ma deve essere incanalato entro limiti ecologici invalicabili. Le istituzioni devono creare i presupposti affinché il mercato lavori in funzione del bene comune.

Guardare al successo nella protezione dell’ozonosfera significa comprendere che il cambiamento è alla nostra portata. Non sarà né facile né rapido, ma è possibile. Le grandi crisi ambientali possono diventare occasioni per riscrivere il nostro rapporto con il pianeta, con la tecnologia e con l’economia. Il buco dell’ozono non è solo una storia di allarme, ma anche una storia di riscatto collettivo. Una testimonianza concreta del fatto che, quando scienza, politica e società civile agiscono insieme, il futuro può essere ancora costruito.

 

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