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Repubblica in Bilico

Scritto da Ottavia Scorpati il . Pubblicato in .

                                                                                                                                                 A cura di Ottavia Scorpati

Il crocevia fragile tra eredità coloniale.
Dopo le rivolte del maggio 2024, l’arcipelago del Pacifico torna al centro del dibattito politico francese. Tra Parigi e Nouméa si gioca una partita complessa che intreccia rivendicazioni identitarie, instabilità istituzionale, pressioni economiche e interessi strategici globali. Un’analisi integrata delle dinamiche che mettono in discussione il modello postcoloniale della V Repubblica.

La Nuova Caledonia, isola distante oltre sedicimila chilometri dalla Francia continentale, è diventata negli ultimi anni uno dei punti nevralgici del dibattito politico nazionale e della riflessione sulla presenza francese nel mondo. Dopo il fallimento del processo referendario sancito dagli Accordi di Nouméa e il ritorno della violenza nelle strade di Nouméa nel maggio 2024, la questione caledoniana non può più essere considerata un semplice problema d’oltremare. Si tratta di una crisi a più livelli, che coinvolge la sovranità dello Stato, l’identità dei popoli indigeni, la tenuta delle istituzioni locali e la capacità della Francia di agire come potenza responsabile nel Pacifico. Mentre le divergenze tra il presidente Emmanuel Macron e il ministro d’oltremare Manuel Valls si fanno più evidenti, l’assenza di una strategia politica coerente rischia di aprire una nuova fase di instabilità. In questo contesto, ogni parola diventa esplosiva, ogni ritardo una miccia pronta ad accendersi. Per comprendere appieno le dinamiche in gioco, è necessario adottare una prospettiva trasversale che unisca economia, geopolitica e antropologia, riportando al centro del discorso non solo gli interessi strategici della Francia, ma anche la voce — troppo a lungo ignorata — dei caledoniani.
A oltre un anno dai disordini che hanno incendiato le strade di Nouméa nel maggio 2024, la Nuova Caledonia continua a rappresentare una delle principali faglie politico-istituzionali all’interno della Repubblica francese. Ciò che potrebbe apparire come una crisi circoscritta a un remoto arcipelago del Pacifico, rivela invece le profonde tensioni che percorrono il rapporto fra centro e periferia nella V Repubblica. La questione caledoniana incarna la complessità delle sfide postcoloniali in un’epoca di globalizzazione, transizione ecologica e competizione geopolitica nell’Indo-Pacifico, dove Parigi tenta di mantenere un ruolo strategico attraverso la proiezione dei suoi territori d’oltremare.
Lo scenario si è progressivamente deteriorato. Le tensioni tra forze indipendentiste e lealisti rimangono acute, alimentate dall’assenza di un accordo politico condiviso dopo i tre referendum tra il 2018 e il 2021, che pure avevano visto una maggioranza contraria all’indipendenza. Il boicottaggio dell’ultimo scrutinio da parte del Fronte di Liberazione Nazionale Kanako Socialista (FLNKS) ha delegittimato l’esito, esponendo le falle strutturali dell’accordo di Nouméa del 1998. Quella che era stata concepita come una transizione verso una forma stabile di autogoverno, si è bloccata nella palude di un processo che ha smesso di essere inclusivo. Le rivolte del maggio 2024, scatenate dal tentativo di modificare il corpo elettorale, hanno rappresentato il punto di rottura di un equilibrio istituzionale ormai logoro.
Il ministro d’oltremare Manuel Valls, nominato nel dicembre successivo ai disordini, ha cercato di rianimare il processo negoziale proponendo una nuova formula: una “sovranità con la Francia”. Una proposta volutamente ambigua sul piano semantico, che evita termini carichi di implicazioni politiche, come “indipendenza-associazione”, nel tentativo di tracciare una via intermedia tra la rottura definitiva e l’assimilazione. L’obiettivo è preservare la cornice repubblicana garantendo, al tempo stesso, un riconoscimento pieno del diritto all’autodeterminazione del popolo kanak. Tuttavia, questa strategia si scontra con due ostacoli fondamentali: la crescente radicalizzazione dei lealisti, da un lato, e l’impazienza degli indipendentisti, dall’altro, esasperati dalla lentezza e dall’ambiguità delle trattative.
A Parigi, il confronto tra il presidente Emmanuel Macron e lo stesso Valls ha assunto un carattere sempre più visibile. Macron, pur dichiarando di voler favorire il dialogo, ha mostrato una maggiore vicinanza alle posizioni lealiste, probabilmente in risposta alle pressioni dell’elettorato conservatore e dell’establishment militare e industriale. Il tentativo dell’Eliseo di convocare a Parigi, prima dell’estate, tutti i protagonisti caledoniani per rilanciare un dialogo interrotto, è stato interpretato come un segnale di riaccentramento del dossier. Un’azione che, pur mascherata da volontà di mediazione, ha rappresentato una netta smentita della linea prudente e decentrata adottata dal ministro Valls. La contesa tra i due, che affonda le radici nella rivalità politica pre-2017 e nella comune pretesa di interpretare l’eredità di Michel Rocard — l’architetto degli Accordi di Matignon — rischia di paralizzare ogni iniziativa governativa.
La posta in gioco va ben oltre il solo destino della Nuova Caledonia. In ballo c’è l’intero modello di governance dei territori d’oltremare. Il rifiuto del governo di accettare la proposta del senatore Georges Naturel per ampliare il corpo elettorale — ritenuta “irricevibile” — ha evitato lo scoppio di nuove rivolte, ma ha anche confermato la difficoltà di conciliare rappresentanza democratica e coesione sociale in un territorio dove i rapporti tra le etnie restano fortemente squilibrati.
Sul piano economico, la Nuova Caledonia presenta un paradosso emblematico: è tra i maggiori detentori mondiali di riserve di nichel, risorsa strategica per la transizione energetica globale, eppure versa in uno stato di crisi produttiva e sociale. La dipendenza da un unico settore, associata alla fragilità delle infrastrutture e alla scarsità di competenze tecniche locali, impedisce la costruzione di un’economia diversificata e resiliente. Gli indipendentisti accusano Parigi di mantenere un controllo neocoloniale sulle miniere, attraverso una rete di accordi con investitori stranieri — in particolare giapponesi e australiani — che esclude le comunità locali dalla gestione e dai benefici delle risorse. I lealisti, invece, vedono nella permanenza nel quadro francese l’unico appiglio per evitare il collasso economico. Entrambe le visioni, tuttavia, sembrano ignorare la necessità di un nuovo modello di sviluppo territoriale che integri autonomia, giustizia sociale e sostenibilità ambientale.
L’elemento geopolitico aggiunge un ulteriore livello di complessità. In un’epoca in cui il Pacifico è diventato l’epicentro della rivalità tra Stati Uniti e Cina, la presenza francese nella regione — che include anche la Polinesia e Wallis e Futuna — ha assunto un valore strategico rinnovato. La Nuova Caledonia ospita una delle basi militari più importanti del Pacifico sud-occidentale e rappresenta per la Francia una leva cruciale per partecipare al quadro di sicurezza indo-pacifico costruito con Australia, Giappone e Stati Uniti. Ogni scenario di indipendenza viene perciò osservato con apprensione dagli ambienti militari e diplomatici francesi, che temono un vuoto di potere potenzialmente riempito da attori rivali come la Cina, già molto attiva nella regione attraverso investimenti e diplomazia economica. La visione neogaullista della “sovranità indivisibile” si intreccia così con le logiche di deterrenza, rendendo il dossier caledoniano una questione di sicurezza nazionale.
Ma è sul piano umano e sociale che si gioca la sfida più profonda. La società caledoniana è attraversata da fratture storiche che il processo di Nouméa non ha saputo sanare. I kanak, pur rappresentando circa il 40% della popolazione, continuano a subire forme sistemiche di esclusione: hanno minore accesso all’istruzione superiore, al lavoro stabile, alle strutture sanitarie. Le comunità caldoches, economicamente più integrate, temono invece una perdita di diritti e status in caso di indipendenza. A queste si aggiungono minoranze di origine asiatica, polinesiana, wallisiana, che vivono in una posizione ambigua, spesso strumentalizzata da entrambe le parti. Il tessuto sociale è, di fatto, frammentato. I giovani kanak, pur sempre più urbanizzati e connessi al mondo, manifestano un senso di estraneità crescente rispetto a una Repubblica francese che percepiscono come lontana e indifferente.
È in questo contesto che le parole di Valls assumono una valenza diversa. Il richiamo al dialogo e alla moderazione, al rispetto reciproco e alla pazienza negoziale, appare come un tentativo — forse tardivo — di ridare centralità alla dimensione relazionale della politica, laddove le dichiarazioni incendiarie e gli ultimatum sembrano dominare il discorso pubblico. Tuttavia, anche la figura del ministro è contestata. I leader lealisti, da Sonia Backès a Nicolas Metzdorf, ne hanno chiesto le dimissioni, accusandolo di aver abbandonato la difesa degli interessi francesi. Gli indipendentisti, dal canto loro, pur apprezzando il cambio di tono, restano diffidenti rispetto alle reali intenzioni di Parigi.
La posizione di Marine Le Pen, espressa durante una visita a Nouméa nel maggio 2025, è emblematica delle contraddizioni francesi. Pur riconoscendo che i referendum non hanno chiuso definitivamente il dibattito sull’autodeterminazione, ha proposto di rimandare ogni nuova consultazione “di quarant’anni”, congelando di fatto ogni possibile evoluzione istituzionale. Una scelta che, lungi dal calmare le acque, ha generato nuove tensioni. Per molti, rimandare il problema equivale a perpetuare una forma di colonialismo silenzioso, una sovranità imposta che non trova più legittimità tra ampi settori della popolazione.
La prossima scadenza, le elezioni provinciali previste entro novembre, si presenta come uno spartiacque. Se si svolgeranno senza un accordo politico, rischiano di esasperare le divisioni e di conferire legittimità solo alle posizioni più estreme, marginalizzando le componenti moderate e disincentivando ogni forma di compromesso. Lo
scenario che si profila è quello di una crisi irreversibile, in cui le istituzioni perdono credibilità e la violenza torna a essere strumento di pressione.
La Nuova Caledonia, dunque, non è solo una questione territoriale. È un banco di prova per la Francia postcoloniale, una cartina di tornasole della capacità dello Stato di reinventare sé stesso nel rispetto delle sue periferie storiche. In un mondo dove il colonialismo non è più né economicamente sostenibile né moralmente giustificabile, ogni ritardo, ogni compromesso al ribasso, rischia di essere interpretato come una difesa dell’ingiustizia. La finestra negoziale è stretta, ma ancora aperta. Spetta ai protagonisti politici francesi e caledoniani trovare il coraggio, la lucidità e la responsabilità di attraversarla.

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