
Riserva Umana
Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in Attualità.
a cura Agostino Agamben
Soggettività sospese tra inclusione e potere nell’economia del management contemporaneo
L’attenzione non si posa su un soggetto emblematico, ma su una categoria marginale eppure significativa, che – nel contesto economico, manageriale e sociale – riflette una condizione di eccezione permanente; si tratta di quegli attori che si muovono nell’area residuale, come gli “indiani di riserva”, i quali partecipano ma restano, per così dire, “di riserva”, non protagonisti realizzati del potere economico, del comando organizzativo, del protagonismo sociale. Questo non significa che manchino di potere o di capacità, bensì che la loro condizione rimane in sospeso: la riserva si configura come spazio di attesa, ma anche come riserva di potenzialità non dispiegate, di soggetti che rimangono in stand by, nel limite stesso della norma economica e manageriale. Come in uno stato d’eccezione permanente, dove il diritto all’azione si gioca nella zona grigia tra inclusione ed esclusione, tra visibilità formale e invisibilità reale.
Si profila qui una doppia tensione: da un lato, l’“indiano di riserva” è già incluso nella trama dell’organizzazione, nel sistema produttivo o nella sfera sociale; dall’altro, resta escluso nel momento in cui si misura con la pratica effettiva del potere, con le decisioni veramente decisive. In questa condizione si delinea una soggettività sospesa, in cui il soggetto è chiamato a “fare”, ma in realtà non ha accesso pieno alla scena. Egli è una risorsa programmata ma non dispiegata, un potere latente che rimane tale, come se la sua attualizzazione fosse permessa ma non concessa.
In termini manageriali, il “riservista” è impiegato in ruoli periferici, anche strategici, ma sempre in via transitoria, sempre sotto – come fosse un’astuzia del sistema per mantenere duttili e mobili le risorse umane, pronte a subentrare, pronte a essere usate, senza però consentire la loro piena autonomia. Questa forma di potere gestisce identità potenziali, mai attuate, permettendo all’organizzazione di conservare un surplus umano invisibile ma pronto, che può essere mobilitato all’occorrenza. Qui si innesta la logica del management come gestione dell’eccezione, come governo del potenziale mai realizzato.
A livello economico, questa figura è essenziale nel garantire la flessibilità del capitale umano: essa si rivela funzionale alla manutenzione di una capacità di riserva, una mobilità interna, la modulabilità dell’impiego. Ma nello stesso tempo il riservista manifesta una doppia ferita: da un lato, è spazio di risparmio manageriale (non si investe nella progressione di carriera, nella formazione avanzata, nella delega di potere); dall’altro lato, è prodotto di una modalità stratificata di esclusione: esclusione distante, formalmente inclusa (“sei assunto”) ma sostanzialmente esclusa dall’accesso al perimetro decisionale. Così, l’economia traduce la riserva umana in una risorsa che non consuma costi di investimento, ma opaca la dignità soggettiva, incrina la formazione pluridimensionale, nega la pienezza della partecipazione.
Sul versante sociale questo jam di inclusione/esclusione si riverbera in un sentimento di infantilizzazione del riservista: “sei dentro, ma solo come copertura, come riserva, non come soggetto”. Si crea una soggettività con il fiato breve, capace di azione solo nel caso dell’eccezione, pronta ma spaventata, sospesa tra l’obbligo di disporre e la difficoltà di disporre. Il riservista vive in una condizione d’ansia permanente: la sua soggettività è vincolata da una biopolitica manageriale che regola il suo tempo, la sua motivazione, la sua attesa. È figura paradigmatica dell’uomo che attende, salvo essere impiegato solo quando serve, e per un tempo limitato. Qui, la riserva coincide con la precarietà ontologica e organizzativa.
Nel testo di Agamben sulla “nuda vita” troviamo un’analoga tensione tra inclusione giuridica e esclusione effettuale: il riservista è una vita che conta, la cui esistenza è tutelata, ma il cui valore effettivo è marginale. Nella modernità manageriale, l’indiano di riserva è una vita potenzialmente operativa, ma priva di autorità, subordinata all’autorità altrui. È il paradigma contemporaneo dell’eccezione: non è fuori della norma, ma è sottratto alla norma operativa, “attraversato dalla norma” ma incorporato nella sua sospensione.
Da qui si diparte un’analisi gestionale: se il management deve disporre di riserve, cosa significa gestirle? Si tratta di una governance che protegge la liquidità organizzativa – di manodopera, di competenze, di progetti –, ma si configura al tempo stesso come governamentalità dell’attesa: esseri umani sospesi, condannati a restare pronti, potenzialmente presentisti, tuttavia relegati all’impossibilità di disporre di una traiettoria chiara. L’azienda diventa allora un campo di battaglia tra identità coatte e potenzialità incerte, dove l’investimento uomo è calibrato per farne leva solo in casi eccezionali, evitando la stabilità che genererebbe senso di appartenenza e autonomia. Il riservista viene mantenuto “a riserva” per conservare la malleabilità delle risorse, rimandando ogni delega effettiva al momento dell’imprevisto.
Tale modello mostra il volto nichilistico del rapporto fra capitale e soggettività: l’umano-riserva viene ridotto a stock emotivo e produttivo, capace di essere attivato ma non autorizzato a fiorire. Soggiace qui una tensione tra l’economia dell’aspettativa (si paga poco, si investe poco, ma si lascia la promessa aperta) e l’economia della sospensione (nessun passo di avanzamento, ma alcuna certezza di stagnazione). Il management, in ciò, impersona il potere di mantenere soggetti nella condizione indifferenziata dell’attesa: non più beni produttivi, ma presenze non dispiegate. E tuttavia, in questo vuoto si conserva una potenza latente: il riservista resta un soggetto capace di esercizio, perché il sistema non ha potuto ignorarne le competenze, pena istituire un vuoto operativo.
Se allarghiamo la riflessione al piano sociale più vasto, il paradigma dell’indiano di riserva si riversa nella condizione di numerosi attori sociali e lavorativi: giovani laureati senza sbocchi, ma “abilitati”, migranti regolari che restano sospesi in attesa di ruoli, ma formalmente dotati della documentazione; freelance iscritti a ordini professionali che attendono clienti significativi, precari impiegati a chiamata in servizi pubblici, operatori della sharing economy attivi solo a chiamata. Il comune denominatore: appartenenza formale al tessuto pubblico/privato, ma esclusione reale dallo spazio del potere effettivo, dalla possibilità di costruire traiettorie durature. Qui la “riserva” non si legge solo come margine, ma come terreno di possibile tensione costituente: la sospensione può divenire punto di partenza per progettare nuove forme di inclusione, non gerarchica; può essere slancio potenziale per una “sovversione gentile” dell’ordine costituito.
Questa prospettiva dirige lo sguardo a una politica della riserva: come trasformare la condizione sospesa in condizione attiva, non mediante investimenti devitalizzanti (carriere prefissate, posizioni garantite), ma attraverso spazi di agonalità partecipativa – reti di corresponsabilità, micro autonomie robuste, laboratori di decisioni collettive dentro le organizzazioni. Si potrebbe pensare a una politica organizzativa che “cura” la riserva non come scorta, ma come cantiere; non come standby, ma come frontiera deliberativa. Sotto questa luce, i riservisti potrebbero diventare fonti di innovazione, di democraticizzazione interna, poiché portatori di prospettive esterne e prontezza critica.
Il management, per farsi portatore di questa politica, dovrebbe abbandonare la logica della riserva a fini meramente reattivi, per orientarsi verso una relazione creativa con la riserva: non blindare il potenziale nella morsa dell’attesa, ma attivarlo in contesti partecipativi, a flusso variabile, a piccoli progetti sperimentali, reti fra riservisti e risorsisti (manager centrali). Bisogna passare da una governance dell’eccezione latente a una governance della co-costruzione, dove la riserva è incoraggiata a partecipare davvero, a mettere in potenza il suo sapere, facendo emergere la potenza implicita nell’attesa.
In questo passaggio, il profilo filosofico di Agamben emerge con forza: la vita sospesa che non è vita piena, eppure esiste; la soggettività che attende di essere interpellata, ma solo se il dispositivo si apre alla sua chiamata. Allo stesso modo, il riservista manageriale è potenzialità, vita che non ha ancora mostrato se stessa in tutto il suo esercizio, ma che reclama un atteggiamento responsabile da parte del dispositivo economico organizzativo. Occorre evitare che la riserva diventi forma di sfruttamento silenzioso (precarity camuffata) o biopolitica addomesticata, e piuttosto accoglierla come un “tempo costituente” interno ai processi aziendali.
Proiettando lo sguardo sull’economia globale, questa figura non è minore: il lavoro distribuito, le gig economy, il lavoro smart, i coworking, le piattaforme di crowdworking suscettibili di attivare soggetti tecnicamente qualificati ma sottoutilizzati, presentano incarnazioni multiple dell’indiano di riserva. Lungi dall’essere ininfluenti, costoro configurano la spina dorsale invisibile della produzione contemporanea. Se il sistema li mantiene nella riserva, lo fa per motivi di flessibilità, per evitare costi fissi, per abbattere la negoziazione collettiva, per ritardare l’attribuzione del valore. Ma questa logica, se non corretta, può portare a un impoverimento cognitivo e morale del sistema socioeconomico, perché sottrae potenziali iniziative, spinge alla disillusione, frattura il senso condiviso dell’agire. Si crea così l’esclusione inclusiva, un paradosso che individua un nucleo centrale della crisi del lavoro contemporaneo.
E tuttavia, dentro questa dinamica, può affacciarsi una forma di contropotere. La riserva, messa in contatto tra sé, durante i tempi in cui “non serve”, può tessere reti, costruire discorsi comuni, elaborare pratiche alternative. Si tratta di una auto-organizzazione emergente della riserva, che può diventare soggetto collettivo, non più in attesa passiva ma in progettazione attiva. Ciò può generare forme ibride di governance, dove la pressione della riserva produce nuove soggettività partecipanti: forme di autogestione, cooperative orizzontali, network deliberativi che includono la riserva come suo elemento costitutivo. In questo modo, la riserva si ribalta da status di sospensione a risorsa costituente.
In questo tejido, si rivelano potenzialità politiche inattese: i riservisti possono diventare apostoli della trasformazione, non perché chiamati dall’alto, ma perché in grado di offrire una critica costruttiva, una spinta evolutiva, una logica di partecipazione condivisa. Se restano inattivi, sono spesa sprecata; ma se emergono come soggetto, possono fare da avanguardia metodologica, piloti di processi innovativi, raccordi fra livelli verticali e orizzontali dell’organizzazione.
Del resto, il paradigma della riserva può diventare paradigma di una società in cui si coltiva non tanto la centralizzazione del potere, quanto l’attivazione diffusa, la partecipazione plurale, il dialogo tra livelli e ruoli. Non si tratta di democrazia manageriale fine a sé stessa, ma di un nuovo stile di potere, che non delega semplicemente, ma intreccia, non comanda solo, ma coopera. E i riservisti, in questa chiave, non sono elementi laterali, ma snodi: punti di passaggio, tra il possibile e l’attuale, tra la potenzialità e l’attivazione, tra l’attesa e la decisione.
Non v’è in tutto ciò fine definitiva: il testo non si conclude, come da richiesta. Resta aperto, scorre, continua a interrogare. Poiché la riserva non è materia da chiudere, ma da coltivare, da tenere in tensione, da mantenere in relazione. E ogni sistema organizzativo – domanda cruciale – deve decidere: vuole riservisti come semplici riserve, o vuole riservisti come risorse vive? La risposta cambia tutto.