
Rose fragili
Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in Attualità.
a cura Agostino Agamben
Un viaggio tra confini della politica, le rose raccontano storie di precarietà, sfruttamento e crisi climatica, intrecciando vite che sfidano l’esclusione e ci interrogano sulla fragilità del nostro tempo.
Tiene tra le mani un mazzo di rose. Non lo stringe: lo sostiene come si porta qualcosa che non ci appartiene, qualcosa che ci è stato affidato per un tempo limitato, qualcosa che deve essere offerto prima che appassisca. Cammina per i marciapiedi, tra tavolini all’aperto e luci intermittenti, e ogni sera ricomincia da capo, come un rito laico che non promette salvezza.
Ogni tanto ne vende qualcuna. La rosa non è mai solo una rosa. In essa si compie un’economia invisibile, un gesto che eccede la merce e la carità. Chi acquista la rosa, infatti, non compra il fiore: cerca di riscattare un attimo di compassione, oppure di alleggerire il peso della propria festa. Nella rosa si intrecciano due storie: quella del compratore, che fugge dalla colpa del benessere, e quella del venditore, che ha già imparato a sorridere anche quando viene respinto.
È nato a Dacca. Questo non significa soltanto che proviene da una determinata latitudine. Significa che è figlio di un’estremità del mondo: un punto in cui le acque salgono, la terra retrocede, il tempo accelera e la politica è sostituita dalla sopravvivenza. Il Bangladesh non è solo un Paese: è un paradigma. È la soglia in cui l’umano appare nella sua nuda vita, nuda e insieme coperta da un fango che non è solo fisico ma anche giuridico, storico, climatico.
La città – Dacca – sorge là dove si incontrano tre fiumi: Gange, Brahmaputra, Meghna. Non è un caso. I luoghi dove le acque si intrecciano diventano inevitabilmente luoghi di confine, di passaggio, di trasfigurazione. Ma il passaggio oggi è impossibile. Non si passa più da un luogo a un altro: si migra da una condizione d’impossibilità a un’altra condizione d’impossibilità. Dalla miseria alla marginalità. Dal disastro climatico alla tolleranza compassionevole dei quartieri benestanti di una città europea.
È uno dei tanti. E nel suo essere uno dei tanti è già cifra, segno, sintomo. Non è individuo, ma figura. Non è un caso particolare, ma l’universalità dell’anonimato. La sua pelle è scura, la sua voce sommessa, il suo sguardo mai diretto, se non per pochi istanti. E in questo breve sguardo, spesso evitato, si deposita tutta la verità di un mondo. Quel mondo in cui la relazione tra gli esseri umani è mediata dalla merce, dalla legge, dalla distanza.
Chi ha il potere di restare fermo, osserva. Chi è costretto a muoversi, vende fiori. L’immobilità oggi è un privilegio.
La rosa, simbolo dell’Occidente, nasce altrove. Non soltanto a livello botanico, ma anche nella catena di eventi che la produce. Addis Abeba, Ziway, la Rift Valley: i luoghi dove la rosa nasce sono luoghi in cui la terra non appartiene più a chi la abita. I contadini etiopi non possiedono la terra, la coltivano per conto altrui. La cura non è mai libera: è sempre subordinata, indirizzata, industrializzata.
Le serre dell’Afriflora, lungo le rive del lago Ziway, non sono soltanto impianti produttivi. Sono dispositivi politici. Qui la natura è addomesticata, il lavoro regolato al millimetro, la vita ridotta a gesto ripetitivo. Un miliardo di rose all’anno, per l’Europa. Ogni rosa porta con sé una quantità invisibile di fatica, di aria essiccata, di acqua rubata, di tempo irrecuperabile.
Chi lavora nelle serre non vive: esiste. È il lavoratore che non lavora per sé, ma per un altro. Non solo un altro uomo, ma un altro sistema, un’altra logica, un’altra forma di mondo. È l’alienazione nella sua forma più pura: quella che non ha nemmeno più bisogno di coscienza per perpetuarsi.
E allora, chi cammina tra i tavoli dei ristoranti, non vende soltanto fiori. Porta addosso la traccia di una catena globale che parte da Dacca e arriva, passando per l’Etiopia, per il porto di Djibouti, per un cargo refrigerato, per una dogana che non chiede passaporti ai fiori ma li pretende dagli uomini.
Là dove l’uomo è controllato, la rosa passa libera. Là dove la pelle è scrutinata, il petalo è ammirato. Questa inversione è il segno di un ordine rovesciato, di una gerarchia che non ha più a che fare con l’umano ma con il valore d’uso e il valore di scambio.
Nel linguaggio dell’economia, il fiore ha un valore perché appassisce. L’uomo ha valore solo quando produce, e quando non produce, diventa eccedenza. È eccedenza. È ciò che non serve, ma che si tollera, purché resti ai margini. È incluso in quanto escluso, come direbbe il mio maestro.
E tuttavia, nel gesto di porgere una rosa, c’è una forma di resistenza. Una forma minima, fragile, ma presente. È un’offerta che chiede in cambio uno sguardo. Una moneta, certo, ma anche un riconoscimento. In questo gesto si ripete – inconsapevolmente – il rito antico del dono. Ma il dono è oggi impossibile. Il dono presuppone reciprocità. E noi abbiamo perduto la possibilità di restituire.
Il Bangladesh sprofonda. Le Sundarbans si ritirano centimetro dopo centimetro, inghiottite da maree che non sono più cicliche ma continue. Il mare avanza come un debito, e il debito – si sa – non perdona. Ogni centimetro di terra perduto è un futuro cancellato.
La foresta di mangrovie – che dovrebbe proteggere – è oggi una soglia. Non più baluardo, ma confine. I contadini seminano riso resistente al sale. È una battaglia silenziosa contro l’invasione dell’acqua. Ma non è il mare l’unico nemico. È il tempo stesso che si contrae, si accelera, si stringe. Le stagioni non tornano, gli animali migrano in ritardo, le piogge diventano catastrofi.
C’è qualcosa di profetico in tutto questo. Il mondo che viene è già qui. Non è futuro: è presente distribuito in modo diseguale. La distopia non è un domani: è l’oggi vissuto da altri. Il pescatore del Bangladesh, il floricoltore etiope, il venditore di rose: sono testimoni del tempo che ci aspetta.
Ma noi non vediamo. O vediamo e distogliamo lo sguardo. Come con chi passa accanto al tavolo, mostra le sue rose e poi si allontana, senza che nessuno dica nulla. E il silenzio – questo silenzio – è l’ultima forma della nostra responsabilità.
Nel gesto di rifiutare la rosa, si consuma il piccolo esorcismo quotidiano contro la realtà. Eppure, ogni rifiuto è già un’ammissione. Lo sa. Per questo non si ferma. Passa, come un angelo muto, tra i tavoli, tra le nostre vite, tra i nostri piccoli disastri quotidiani, portando con sé una bellezza che nessuno vuole davvero guardare.
La catena che lega Dacca e poi l’Etiopia non si spezza, anzi si allunga, si infittisce. Perché non si tratta solo di una storia di migrazioni o di economia globale, ma di una trasformazione radicale del modo in cui il potere si esercita sulla vita. Michel Foucault ha scritto che la politica è quella tecnica di potere che prende in carico la vita stessa, regolando nascite, morti, salute, malattia. Oggi questa presa è resa ancora più crudele, perché si esercita su corpi privati di ogni altro diritto, se non quello di sopravvivere – o, meglio, di non morire subito.
Non è un rifugiato solo politico o economico: è il rifugiato climatico che porta con sé il peso di una crisi planetaria che ci riguarda tutti, anche se per molti resta invisibile. Il Bangladesh, con la sua densità umana esasperata, è una terra di confine non solo geografico ma ontologico: il confine tra natura e cultura, tra uomo e ambiente, tra stabilità e catastrofe. Qui, ogni giorno, il limite si sposta, e l’umano diventa una figura sempre più esile, precaria, instabile.
Questa precarietà si traduce in un’esistenza fatta di piccoli spostamenti, di movimenti incessanti e di esclusione strutturale. Gira per le strade, ma la sua permanenza è precaria come la terra da cui è fuggito. Non si tratta di un semplice fenomeno migratorio, ma di una produzione sistematica di un “non luogo”, un limbo in cui il corpo esiste senza appartenere, senza radici, senza futuro.
La vendita delle rose diventa allora un gesto di sopravvivenza e insieme una forma di testimonianza, una memoria vivente del conflitto tra territori e poteri. Ogni rosa è un segno di un territorio sottratto, di un ecosistema distrutto, di un patto infranto tra umanità e natura. Non è solo un bene di consumo: è un dispositivo di comunicazione, una parola non detta che attraversa le frontiere.
Eppure questa parola è muta. L’Europa riceve un miliardo di rose dall’Africa orientale e dal Sud Asia, ma non vuole ascoltare la voce che queste rose portano. La globalizzazione ha trasformato il mondo in un grande mercato, ma ha spezzato la continuità storica e affettiva che teneva insieme le comunità. Il risultato è un mondo di fratture, di relazioni mediate, di identità frammentate.
In Etiopia, il fenomeno del land-grabbing è la manifestazione più drammatica di questa frattura. La terra – che un tempo era elemento centrale di un rapporto di comunità, di appartenenza, di storia – diventa merce, investimento, proprietà di uno Stato distante o di una multinazionale straniera. I lavoratori delle serre sono espropriati due volte: della terra e della propria dignità. Sono corpi sacrificati sull’altare di un profitto globale, corpi che non hanno altro ruolo se non quello di riprodurre vite altrui e generare merci.
Questo meccanismo è la quintessenza della politica contemporanea: un potere che non uccide direttamente, ma che mantiene in vita solo per far produrre, che trasforma la vita in mera sopravvivenza, in una “vita nuda” senza diritti, senza protezione, senza speranza. La condizione dei lavoratori è quella della vita ridotta a fatto biologico, sottoposta a regolamenti e sfruttamento senza mediazioni politiche.
C’è in tutto ciò una tragedia che è insieme politica, ecologica e ontologica. Il sistema economico globale produce soggetti precari, “esclusi inclusi” come li definirebbe Agamben, che non trovano mai il proprio posto nel mondo, che sono sospesi tra l’essere e il non essere, tra la cittadinanza e la marginalità. Il confine non è più un luogo, ma uno stato d’eccezione permanente.
Il capitalismo, in questo senso, ha trasformato il mondo in un grande campo di battaglia invisibile dove si combatte la guerra per la sopravvivenza, ma questa guerra è nascosta dietro i sorrisi delle vetrine, dietro la trasparenza dei fiori, dietro il desiderio effimero di bellezza.
Le figure che vendono rose diventano così figure paradossali di questa condizione: rappresentano la delicatezza della vita e la sua brutalità, la promessa della bellezza e la violenza del mercato. Il gesto di porgere una rosa è al tempo stesso un’offerta e una richiesta, un modo di dire “io esisto” e “tu guarda”.
Non c’è salvezza, né redenzione in questo scambio. C’è solo la cruda verità di un mondo che si consuma sotto i nostri occhi, di un’umanità che si divide tra chi ha e chi non ha, tra chi può scegliere e chi deve accettare. Eppure, nel gesto mutevole, c’è anche la testimonianza di un’umanità che resiste, anche se invisibile, anche se frammentata.
Dall’altra parte del mondo, le Sundarbans, con le loro mangrovie agonizzanti, sono il confine tra un passato ormai irrimediabilmente perduto e un futuro che non si lascia afferrare. In questo paesaggio di acqua e fango si incarna l’impossibilità di un ritorno, l’irreversibilità della catastrofe.
La natura, che un tempo era pensata come un qualcosa di separato dall’umano, si fa oggi teatro di una crisi che coinvolge l’umano nella sua totalità. Il cambiamento climatico non è solo un fenomeno ambientale, ma un fenomeno politico e filosofico, perché mette in crisi le categorie stesse con cui pensiamo il mondo e la nostra presenza in esso.
È un richiamo a ripensare la politica non come dominio o governo, ma come cura e custodia, non come potere ma come responsabilità. Con il mazzo di rose, forse il più inconsapevole tra i nostri maestri: ci ricorda che il futuro è già qui, che la crisi è il presente, e che la nostra capacità di abitare il mondo dipende dalla nostra capacità di riconoscere queste vite mutevoli, fragili, portatrici di storie che non possiamo più ignorare.