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Soglie di pietra

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura di Agostino Agamben

Le grotte preistoriche del Capo di Leuca come luoghi liminali tra natura, mito e ricerca: una riflessione sulla memoria del paesaggio, i saperi intrecciati della scienza e l’ascolto del tempo profondo, alla luce della conferenza promossa da ARCHÈS a Palazzo Strafella.

Morciano di Leuca (LE), 19 luglio 2024

Si sogna una linea che distingua ciò che è visibile da ciò che è invisibile, ciò che il tempo ha consumato da ciò che ancora pulsa sotto la pietra. Allora le grotte preistoriche del territorio costiero del Capo di Leuca non sono semplici cavità nella roccia, ma soglie. Ognuna apre su un altrove più antico, su un presente che si resiste a cancellare. Le pareti calcaree custodiscono non soltanto impronte di mani o tracce di fuoco, ma un modo di abitare il mondo che precede la loro stessa nozione: un modo di abitare che si estende al silenzio, al buio, al lumen tra il dentro e il fuori.

E si scopre che queste grotte, disseminate lungo un tratto di costa che pare non avere fine, non sono luogo di una sola disciplina. Sono geologia in primo luogo: il calcare, le stratificazioni, le pieghe del paesaggio, l’acqua che ha scavato, l’aria che ha evaporato. Ma anche botanica: microsistemi vegetali che si insediano nel salmarino, specie tenaci che sfidano la desalinizzazione, licheni che disegnano arabeschi al buio. Archeologia: la materialità dell’umano primitivo, le ossa, gli utensili, i frammenti, i segni lasciati da mani che non hanno nome. E antropologia: il gesto del culto, la superstizione che torna nell’ombra, il mito che avvolge il luogo come un mantello tremulo.

Non esiste confine netto tra la scienza che descrive e la poesia che evoca, e ieri sera a Palazzo Strafella questa interpenetrazione è diventata la sostanza. Ombretta Renzo ha evocato i saluti istituzionali non come protocollo, ma come ricordo che ogni gesto politico è già testimonianza. Marco Cavalera non si è limitato a presiedere, ma ha guidato, ha tenuto un arco tra i relatori e il pubblico, tra chi ha studiato e chi ascolta, lasciando che il discorso fluisse, che la curiosità si accendesse.

Si parla spesso di “vecchi studi” come se fossero reliquie da deporre, invece essi resistono: gli appunti di geologi ottocenteschi, le mappe confuse, le osservazioni botaniche e naturalistiche che non seguivano modelli rigidi, ma una passione curiosa. E questi studi vecchi non sono ostacoli, ma semenze. Sono ciò da cui partire per nuove prospettive, per nuove aperture verso un sapere che sia insieme scientifico e immaginativo. Le grotte, nelle antiche carte, sono spesso segnalate con nomi che sfumano, con indicazioni vaghe: “grotta presso la scogliera”, “antro sommerso all’alta marea”. Ciò che l’immagine moderna pretende definito è invece oscillante, incerto. È proprio in quell’oscillazione che abita il fascino più profondo.

Che cosa significa riscoprire? Significa tornare, significa guardare con occhi che non siano soltanto quelli dell’analisi. Significa riconoscere che la roccia stessa è gesto di tempo; che l’acqua è memoria; che il vuoto interno della grotta è presenza. Un vuoto che non manca, ma che trattiene, che ospita. Che cosa significa studiare quelle pitture – se ci sono –, quelle impronte – se resistono –, quei sedimenti – se non cancellati –, significa inoltrarsi in uno spazio che è già destinazione di un rito, di una forma di pensiero che precede la parola definita, il giudizio storico sistematico.

Il territorio costiero non è frontiera, ma interstizio: tra mare e terra, tra luce e ombra, tra superficie e ipogeo. Il Capo di Leuca, il lembo estremo, è più che un margine geografico: è margine ontologico. Qui il suono del mare entra, il vento scolpisce, la luce muta. Le grotte costiere, poche raggiungibili via terra, la maggior parte lungo la costa, raggiungibili “sottocosta”, richiedono che si navighi—non solo con la barca, ma con l’immaginazione e con l’umiltà. L’umiltà di fronte all’erosione, al tempo, alla natura che continuamente rinnova e distrugge.

E c’è un continuo dispiegarsi di stratificazioni: la stratificazione rocciosa, la stratificazione del mito, della superstizione, del culto primordiale. Queste grotte sono state soglie di riti? Luoghi liminali di passaggio fra il profano e il sacro? Si pensa alle comunità che hanno popolato queste coste: pescatori, contadini, guardiani del mare, forse rifugiati dalle tempeste, forse da fame, forse da guerre. Cosa cercavano in queste grotte? Riparo, contemplazione, orientamento cosmico, ascesi? E come il paesaggio costiero con il suo promontorio battuto dai venti, le maree che entrano e ritornano, è memoria che si disperde, così il gesto umano nel tempo si perde, ma lascia traccia: un lembo di tessuto, un coccio rotto, un dislivello, un graffito.

Quando un accademico parla, parla di dati stratigrafici, di carbonio radiocarbonio, di isotopi, di depositi, di catene montuose interiori, ma l’ascoltatore avverte il riverbero di una voce più antica, la voce della pietra. Non è un orpello romantico, è qualcosa che reclama presenza. La scienza che descrive bene quegli ossidi, quelle concrezioni calcaree, quegli scheletri di vegetazione salmastra, è quella che sa ascoltare. E ascoltare non significa soltanto misurare, ma lasciarsi interrogare. Lasciarsi trasformare.

La sera stessa di ieri, parlando di geologia, si è detto che la costa è un altare sospeso tra il mare e la terra. Le onde lambiscono la base delle grotte, le rocce sporgono come pilastri di un tempio che non si vede: solo le sue fondamenta primordiali. Le grotte sono architetture naturali che il tempo ha costruito, modificate poi dall’umano: forse qualche intervento, forse il solo passaggio, lo scontro, l’incendio, l’abbandono. Ma la natura non è sfondo: è protagonista. Le alghe marine, i licheni, le stalattiti, le concrezioni, ogni goccia che cade dal soffitto della grotta è scrittura, è tempo che scivola.

E poi la botanica: risulta che specie quasi invisibili si addensano nell’ombra, resistendo. Quali radici penetrano la roccia? Quali muschi disegnano reticoli di vita dove non sembrerebbe esserci sostegno? E il sale, l’umidità, l’assenza di luce modulano la vita, la deformano, la proteggono. Tutto ciò fa pensare non alla marginalità, ma all’essenza di ciò che è vivere — vivere non come dominio, ma come semplice accadere.

Archeologia: le ossa, i ciottoli, i cocci, gli utensili, forse armi, forse oggetti di uso quotidiano, forse rituali. E la mano dell’uomo che ha inciso, scavato, modellato. Si sono presentati studi nuovi, risultati che suggeriscono che alcune grotte non siano soltanto rifugi ma luoghi di incontro, forse di sepoltura, forse di culto. La relazione tra il gesto ornamentale e il gesto utile, fra l’oggetto consuetudinario e l’arte nascosta. Un oscillare tra funzione e simbolo. E l’antropologia si ferma sul punto in cui l’umano diventa mito.

E il mito non è invenzione: è catena di segni, respirazione del mondo. Le superstizioni cui si riferisce la serata, i culti primordiali, non sono residui arretrati da archiviare, ma tracce viventi che lavorano nell’immaginario collettivo, che risalgono perhaps nei sogni, nella paura del mare, nell’inaudito del vento notturno, nei bagliori nelle acque. La gente ha guardato queste grotte con rispetto, forse con timore: pensava che il mare nascondesse spiriti, che il mare restituisse voci. Quelle grotte, fra le maree e la luce, diventavano ipostasi dell’oltre, limiti sensibili dell’umano.

Nuove prospettive di ricerca suggerite ieri sera non sono tecniche, né soltanto metodologiche: sono paradigmi. Come ripensare il paesaggio come entità viva. Come pensare le grotte non come risorse da valorizzare per il turismo, ma come soglie spirituali, spazi etici in cui l’umano possa misurarsi con la sua propria origine. Come stabilire che il conoscere non sia dominio ma dialogo. È stato suggerito che archeo-botanici, geologi, antropologi collaborino in una forma di ricerca che non sia somma di discipline separate, ma intreccio in cui ciascuna disciplini se stessa con l’ascolto delle altre.

Si è parlato di scavi recenti che hanno messo in luce, ad esempio, strati carboniosi che suggeriscono fuochi controllati; microlaminazioni che documentano flussi di mare diversificati; ossa di animali selvatici che indicano reti di caccia e raccolta; artefatti litici che mostrano non soltanto funzione, ma cura, estetica. Eppure permane il mistero: non sappiamo il nome di chi fece quel gesto, non sappiamo la forma esatta del rito, non sappiamo se fosse luce o ombra la materia privilegiata. La nostra presenza è tarda, frammentaria.

E nel frammento ritroviamo la potenza. Nel residuo di un vaso, nel graffio su una parete, nel colore sbiadito sulle superfici calcaree. Queste tracce, quasi invisibili, comunicano un’apertura, indicano un’aprirsi che non si chiude. E allora il lavoro della conservazione non consiste solo nel proteggere, isolare, rendere accessibile, ma nel rispettare il margine di indeterminatezza, il confine tra ciò che si sa e ciò che si suppone, tra apertura e rimozione.

La proposta di ARCHÈS, con la passione che ieri ha risuonato nella voce dei relatori, è quella di offrire presto al pubblico non solo visite, non solo itinerari turistici, non solo guide illustrate, ma cammini del pensiero, spazi di esperienza, luoghi dove il silenzio possa tornare portatore, dove l’ombra delle volte si confonda con l’ombra del proprio respiro. Turisti, appassionati, studiosi: non spettatori ma partecipi. Il sud-Salento, così ricco, non ha bisogno solo che si valorizzi il patrimonio, ma che si riconosca il desiderio che esso suscita: il desiderio di stare in ascolto, di confrontarsi con ciò che è precedente a noi ma non estraneo.

La serata a Morciano non segnala solo un evento, ma un passaggio. Si muove ora un moto di riscoperta che non premia il facile splendore, non applaude la superficie, non si accontenta dell’immagine folgorante. Vuole la profondità, i segni che non si consumano nell’occhio distratto, ma operano nella memoria; vuole che la luce non solo illumini, ma faccia emergere l’ombra che la rende possibile.

E così le grotte del Capo di Leuca sono chiamate a essere luogo dell’attenzione, luogo della cura. Cura del sapere, cura della natura, cura del mito. Cura che non trattiene il passato come feticcio, ma che lascia che ciascuna pietra, ciascuna concrezione, ciascuna impronta, sia episodio vivo di una storia che non sta alle spalle, ma abita il presente. In essa, l’umano si riconosce in ciò che lo precede e in ciò che lo attraversa, in ciò che lo lega al tempo profondo. Ogni elemento—roccia, segno, fiore, suono del mare—è voce che parla non solo del mondo antico, ma del mondo che noi siamo e di quello che potremmo diventare, se sapessimo attendere il silenzio, se sapessimo guardare l’ombra, se sapessimo abitare la soglia.

 

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