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Sovranismo regionale

Sovranismo regionale

Scritto da Gabriele Felice il . Pubblicato in .

Sovranismo regionale per uno sviluppo umano: macroregioni autosufficienti come alternativa etica alla globalizzazione selvaggia.

Questo contributo si collega idealmente al mio precedente articolo “Sovranismo e Terzo Mondo”, in cui analizzavo le contraddizioni della globalizzazione.

Oggi più che mai il sogno di un mercato globale illimitato si scontra con fratture profonde: instabilità politica, crisi alimentari e dipendenze economiche che amplificano le disuguaglianze. Nel tuo lavoro dimostri con forza che la soluzione non è nella rincorsa a scambi sempre più sfrenati, ma nella creazione di macroregioni dotate di un proprio mercato interno, capaci di azzerare l’import-export per i generi vitali e di promuovere l’autosufficienza.

capaci di azzerare le importazioni alimentari e di riallocare risorse verso l’autosufficienza.

Immagina un emisfero nord che mantiene intatto il suo sistema produttivo, mentre le grandi economie del Terzo Mondo si organizzano in cerchie regionali solidali – dall’America Latina all’Africa subsahariana – ispirandosi a una visione etico-economica che va da Walras a Pareto, fino alle rigorose lezioni di Allais sul valore comparativo dei mercati. Questo paradigma:

  • Libera i contadini dal giogo delle multinazionali agro-alimentari, restituendo loro dignità e controllo sulle proprie terre.
  • Rende etica la teoria di Ricardo, trasformando il vantaggio comparato in equità territoriale.
  • Protegge dall’instabilità globale grazie a insiemi regionali associati, dove gli scambi interni possono prosperare in un quadro di norme condivise e preferenze liberali.

In questo contesto, la sovranità politica non è retorica, ma condizione imprescindibile: solo governi capaci di formulare e attuare strategie economiche autonome possono garantire uno sviluppo dal volto umano, che combatta fame e povertà endemica e ponga le basi per una crescita sostenibile e partecipata.

Concludendo, la macroregionalizzazione non è un’utopia: è un atto di coraggio collettivo. È l’atto di chi sceglie di mettere al centro la vita delle persone, di chi intende forgiare mercati forti, resilienti e capaci di dialogare, ma anche di proteggersi.

 

Ma per essere davvero solide, queste macroregioni devono concentrarsi su quattro pilastri chiave:

  1. Alimentare
    Ogni macroarea darà priorità alla coltivazione di prodotti volti esclusivamente al proprio fabbisogno, non “export-oriented”. In questo modo le popolazioni non saranno più costrette a incendiare e disboscare vaste aree per procurarsi terra da coltivare solo per sfamarsi, ma potranno nutrirsi in modo dignitoso e sostenibile.
  2. Risorse naturali

Ogni macroregione godrà del pieno possesso e controllo delle proprie risorse (acqua, minerali, foreste etc.), liberandosi dalle dipendenze esterne e potendo reinvestire direttamente sul territorio per innovazione e sviluppo locale.

  1. Farmaceutico
    È indispensabile che ogni blocco regionale sviluppi capacità di ricerca, produzione e distribuzione di farmaci per le malattie endemiche nel proprio territorio — anche per quelle patologie che le grandi case farmaceutiche occidentali trascurano per ragioni di mercato. Solo così si garantisce il diritto alla salute senza dover dipendere da interessi esterni.
  2. Ambientale
    Ogni macroregione diventa responsabile della gestione e tutela del proprio ecosistema: difesa del suolo, della biodiversità e della qualità dell’aria e dell’acqua. Le eccedenze di produzione, ovvero il “di più”, potranno infine diventare oggetto di scambi internazionali, ma mai a scapito della capacità di rigenerazione del territorio.

Questi quattro pilastri non sono compartimenti stagni, ma elementi di un progetto corale: alimentazione sana, risorse protette, salute garantita e ambiente tutelato sono le fondamenta per costruire macroregioni forti, resilienti e capaci di dialogare fra loro in un equilibrio davvero umano.

 

Nell’emisfero nord del pianeta potrebbe continuare il sistema economico attuale, ma con crescenti difficoltà e tensioni, poiché la centralità strategica del cosiddetto Terzo Mondo — un tempo considerata marginale rispetto all’Europa occidentale e al Giappone — è oggi ben più rilevante.

Tuttavia, con una visione politica chiara e una ristrutturazione delle catene del valore in senso regionale, è ancora possibile attuare i necessari riadattamenti economici, costruendo macroregioni capaci di autosufficienza produttiva e di resilienza strategica, riducendo la dipendenza da dinamiche globali sempre più instabili.

Auspico la nascita di una sorta di Comunità Economica latino-americana, africana, asiatica… ispirata ai modelli teorici di Walras, Pareto e Allais — quest’ultimo Premio Nobel per aver formalizzato con rigore matematico i concetti di equilibrio ed efficienza dei mercati. I vantaggi di tale visione sarebbero oggi straordinari:

  • Un accesso molto più ampio e sovrano alle risorse naturali, grazie a economie integrate su base regionale.
  • Una coesione culturale e valoriale sufficiente a delineare modelli di sviluppo autonomi e alternativi a quelli imposti da fuori.
  • La possibilità concreta di raggiungere l’autosufficienza alimentare, convertendo le colture e liberando milioni di persone dal ricatto della fame e del debito.
  • All’interno di queste macroregioni, la teoria del vantaggio comparato tornerebbe a essere strumento di progresso condiviso, e non più giustificazione delle disuguaglianze globali. 

 

Non credo alla possibilità di un modello “universale”: “Non si può costruire una società di libero mercato dall’alto, perché un mercato libero non può esistere dove non c’è gente con idee economiche” (K.Popper, 1998).

 

Condizioni imprescindibili per una macroregionalizzazione autentica

Se davvero si vuole imboccare la strada della macroregionalizzazione come risposta alla crisi della globalizzazione selvaggia, bisogna avere il coraggio di riconoscere che non bastano assetti economici e accordi commerciali. La costruzione di blocchi regionali resilienti richiede una trasformazione politica, etica e culturale profonda.

Sembra verosimile, oggi come ieri, che ogni progetto regionale debba poggiare su fattori sia economici che extraeconomici: risorse naturali, volontà di cooperazione, visione condivisa e, soprattutto, una governance ispirata a criteri di responsabilità, coesione e sviluppo umano.

In particolare, ci sono alcuni punti nodali che andrebbero affrontati con urgenza:

 

Governance vitale e competente

Non è sufficiente che i governi siano formalmente legittimi: devono essere etici, capaci, orientati al bene comune.

Vitalità politica significa due cose:

che il governo miri realmente allo sviluppo del Paese;

che attui politiche effettivamente utili alla crescita civile, sociale ed economica.

Tutto ciò richiede la formazione di quadri politici e amministrativi all’altezza, il vero anello debole di troppi PVS. La qualità della leadership è la prima leva dello sviluppo.

 

Centralità dell’agricoltura

Il modo in cui viene trattata l’agricoltura nei programmi di sviluppo è un indicatore fondamentale.

Non si può più sacrificare l’autosufficienza alimentare in nome delle monoculture per l’export.

Ogni macroregione deve nutrire prima il proprio popolo, e poi eventualmente commerciare il surplus.

È anche una questione di dignità e stabilità sociale.

 

Decentramento efficace e strutture intermedie

Non tutto può essere demandato agli apparati centrali: occorrono agenzie locali, strutture intermedie, organismi indipendenti, radicati nel territorio e nella comunità.

La macroregionalizzazione deve favorire la partecipazione dal basso, non sostituire un globalismo verticale con un regionalismo autoritario.

 

Una sfida etica e spirituale

Ogni sviluppo materiale è, in definitiva, vano se non arricchisce di significato la vita umana.

L’etica, la religiosità e la spiritualità sono risorse decisive per i Paesi del Sud del mondo: rappresentano la memoria, l’identità, la coesione interiore. Non vanno cancellate ma salvaguardate, riconosciute e valorizzate.

Uno sviluppo che calpesta i valori tradizionali è uno sviluppo senza anima.

 

Un nazionalismo sano e costruttivo

In molti PVS, ciò che in Occidente chiamiamo con sospetto “nazionalismo” è in realtà una forza di emancipazione.

È rispetto per le proprie radici, è rifiuto del trapianto meccanico di modelli esterni, è desiderio di trovare soluzioni autoctone e innovative ai problemi locali.

Se sorretto da cultura, intelligenza e compassione, può essere un potente motore di sviluppo autonomo e dignitoso.

 

L’autosufficienza alimentare: il fondamento dimenticato della giustizia

“La protezione dell’agricoltura deve essere considerata come vitale: economicamente, ma anche sociologicamente e culturalmente. È interesse di ogni associazione regionale mantenere un livello di produzione agricola che possa assicurarle in ogni circostanza la sua indipendenza alimentare.”

— Maurice Allais, Premio Nobel per l’Economia

 

In un mondo che ha fatto dell’agricoltura una leva di profitto e di speculazione globale, parlare di autosufficienza alimentare suona rivoluzionario. Ma è proprio questo il terzo pilastro della macroregionalizzazione: ogni blocco regionale deve essere in grado di nutrire il proprio popolo, prima ancora di pensare all’export.

 

Fino a pochi anni fa ci raccontavano che non c’era alcun legame tra il nostro consumo smisurato di carne, zuccheri e grassi e la fame dei bambini nel Sud del mondo. Ma è falso. Dati alla mano, associazioni come Frères des Hommes e Terre des Hommes hanno dimostrato che la nostra sovralimentazione sottrae cibo e terra a chi ne ha più bisogno.

 

Non rubiamo direttamente il pane ai poveri. Lo facciamo indirettamente, ogni volta che:

 

destiniamo milioni di tonnellate di cereali all’allevamento intensivo invece che al consumo umano,

importiamo soia, mais e manioca prodotti su terre africane e sudamericane dove un tempo si coltivavano miglio, sorgo o fagioli neri per la popolazione locale,

rendiamo economicamente più conveniente coltivare avocado o ananas per l’Europa che riso o legumi per il popolo.

 

Questa logica perversa si regge su un’unica, brutale verità:

le vacche del Nord hanno un potere d’acquisto superiore ai contadini del Sud.

 

Così si crea un doppio crimine:

si affama il Sud, che esporta calorie ed importa dipendenza;

si avvelena il Nord, con alimenti iperproteici, impoveriti e malsani, che producono obesità, carenze nutrizionali e malattie croniche.

 

Nel mezzo, contadini sfruttati, terre impoverite, pascoli abbandonati, allevamenti in batteria, antibiotici e concimi chimici che inquinano le acque e degradano i suoli.

L’agroindustria globale ha vinto la guerra dei prezzi. Ma ha perso, ovunque, la guerra della sostenibilità: ambientale, sociale (contribuisce non poco alle migrazioni di massa), economica.

Conclusione

La macroregionalizzazione, se vuole essere un’alternativa credibile alla globalizzazione selvaggia, deve porre al centro l’autonomia alimentare. Non come protezionismo, ma come giustizia redistributiva, come salute collettiva, come riscatto umano e culturale.

 

Coltivare il proprio cibo non è arretratezza: è libertà.

Smettere di sfruttare le terre altrui per alimentare i nostri eccessi non è rinuncia: è etica del limite e del rispetto.

E restituire ai popoli il diritto a nutrirsi in pace, sul proprio suolo, con i propri frutti, è forse il primo vero passo verso uno sviluppo dal volto umano.

 

La grande mistificazione del libero scambio globale

“I vantaggi del libero scambismo mondiale non possono essere considerati superiori ai pericoli che, per contro, risultano dall’instabilità politica ed economica del mercato-mondo. Il libero-scambismo mondiale è l’applicazione inesatta di una teoria corretta: la teoria di Ricardo sui vantaggi comparativi. Una colossale mistificazione.”

— Maurice Allais, 1999

Ed eccoci all’ultimo punto, forse il più delicato: la necessità di uscire dal dogma ideologico del libero scambio globale per dare vita a un mondo più stabile, giusto e sostenibile.

È tempo di abbandonare la retorica delle “frontiere aperte a tutto”, per costruire insiemi regionali economicamente e politicamente associati, tra Paesi con livelli di sviluppo comparabili. È dentro questi insiemi — che chiamo macroregioni — che gli scambi possono davvero essere liberi, equi e utili, perché regolati da preferenze reciproche su basi liberali, non da forzature imposte da interessi esterni.

Maurice Allais lo afferma con chiarezza:

“Non può esserci vera liberalizzazione degli scambi se non tra blocchi regionali coesi, omogenei per struttura politica, sociale e produttiva”.

Occorre ripensare radicalmente i principi della globalizzazione promossa dalle grandi istituzioni internazionali — in particolare l’Organizzazione Mondiale del Commercio — le cui politiche hanno prodotto disoccupazione, disuguaglianze, miseria, e persino mortalità infantile, tanto nei Paesi ricchi quanto in quelli poveri.

 

Verso un nuovo paradigma

Queste non sono posizioni ideologiche, ma presupposti realistici. Sono le condizioni necessarie per poter finalmente parlare di uno sviluppo dal volto umano:

  • che riduca la povertà endemica nel medio periodo,
  • che restituisca dignità agli Stati e ai popoli,
  • che rimetta l’uomo, la comunità e la vita al centro delle scelte economiche.

 

La globalizzazione, così com’è stata attuata, ha tradito la sua promessa.

La macroregionalizzazione etica, al contrario, può ridarle senso.


Foto autore articolo

Gabriele Felice

Gabriele Felice Founder & CEO ISW Italian Store World | Connecting the Best of Italy with the Western Market | https://www.italianstoreworld.com https://medium.com/@Gabriele.Felice https://www.italiareportusa.com/author/gabriele-felice
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