Skip to main content

Storie di Donne tra Gesto della Cura e Fair Play

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura Agostino Agamben

Nel tempo della prestazione e della rappresentazione, la X^ Edizione di “Storie di Donne” si offre come un’interruzione simbolica: non celebrazione dell’identità femminile, ma esposizione di vite che disattivano la funzione, restituendo al corpo ferito, all’azione silenziosa e alla cura condivisa lo statuto di forma di vita. Tra apparizioni, assenze e musica, si apre lo spazio del possibile, del gioco leale, della politica senza potere.

Non vi è gesto più sovversivo di quello che porta alla luce ciò che è sempre stato presente ma inudibile, ciò che esiste in uno spazio comune e tuttavia resta escluso dalla rappresentazione. Parlare oggi di “donne” non significa semplicemente fare l’elogio del femminile o celebrare una ricorrenza. Significa piuttosto interrogarsi su ciò che nel femminile eccede ogni contenuto, ogni ruolo, ogni figura: ciò che nel femminile resta eccedente rispetto alla forma stessa dell’identità.

“Storie di Donne”, giunta alla sua decima edizione, non è una narrazione – ma un dispositivo. Non racconta le donne, le espone. E in questa esposizione, che non è spettacolo ma atto politico, le singolarità si sottraggono alla logica della rappresentazione, emergendo come forme di vita. Il luogo che ospita l’evento – la Sala Giunta del CONI – è essa stessa una soglia: il confine tra lo sport e il potere, tra il corpo e la legge, tra il gioco e la regola.

Ma è il concetto di Fair Play a segnare questa edizione come decisiva. Nella retorica sportiva, fair play è la grammatica del rispetto, della misura, della giustizia. Ma nell’epoca del disordine e della prestazione infinita, dove ogni atto sembra autorizzato dal diritto di esserci, cosa significa ancora “gioco leale”? Si potrebbe dire: è la sospensione dell’utile. È l’arte di agire senza voler vincere. Ed è forse proprio questa sospensione che accomuna le vite esposte nella rassegna: donne che hanno agito senza cercare il primato, ma rendendo il loro agire un luogo di apparizione dell’altro.

Eleni Sourani, ambasciatrice della Repubblica Ellenica, non è soltanto una diplomatica. È l’incarnazione del linguaggio come gesto politico. La diplomazia, nella sua essenza, è l’arte di mantenere aperto uno spazio di parola dove la parola è già in crisi. Il suo ruolo, in questa prospettiva, è soglia tra due mondi: il mondo del conflitto e quello della comunicazione, tra ciò che si può ancora dire e ciò che deve essere taciuto per non diventare barbarie.

Il Tenente Colonnello Giulia Cornacchione, donna e soldato, è un’immagine liminale. La sua figura rompe l’opposizione fra vulnerabilità e forza. Combattente contro la malattia, organizzatrice di gesti collettivi per la ricerca, mobilita 3000 commilitoni non per la guerra, ma per la cura. In lei, la disciplina militare si converte in etica della prossimità. La sua militanza è una pratica della soglia: tra il dolore e la resistenza, tra il corpo ferito e il corpo politico.

Ginevra Barboni, artista del visibile, lavora con le immagini. Ma le immagini non sono ciò che vediamo, bensì ciò che ci guarda. Ogni fotogramma, ogni fotografia che ella produce, è un’interrogazione sulla superficie. Dove finisce la visione e inizia la contemplazione? Dove si arresta il documento e inizia l’icona? La sua opera è un’intercessione tra il visibile e l’invisibile, tra il reale e il possibile. Ed è in questa intercessione che la donna, da oggetto della rappresentazione, diviene soggetto di visione.

Michela Perrotta, biologa e manager, occupa il punto cieco della modernità: il luogo in cui sapere e potere si confondono. In lei, la conoscenza scientifica non è dominio sull’organico, ma possibilità di cura. La salute non è qui un bene da difendere, ma un campo di forze. La sua esperienza nel marketing della salute – in quanto sapere sul desiderio e sulla norma – ci obbliga a pensare non solo ciò che è sano, ma anche ciò che viene escluso come malato. You Emergency, You Donna, You Persona: ogni nome che impiega è già un’affermazione ontologica, un’epifania dell’essere.

Grazia Urbano, stilista, lavora con la pelle delle cose. La moda, in quanto forma più visibile del tempo, è anche il luogo della metamorfosi. In lei, l’abito non è solo vestito, ma paradosso: copre per svelare. Le sue sfilate con donne oncologiche disinnescano il dispositivo della bellezza come dominio: rendono il corpo ferito un corpo glorioso. Ciò che era stato occultato – la malattia, la perdita – si espone come forma, come vita che ha attraversato la morte.

E tuttavia, le assenze – Laura Berti, Annalisa Minetti – non sono mancanze. Sono, piuttosto, presenze in forma di promessa. Esse attestano che la soglia tra l’esserci e il non esserci non è mai definitiva, che ciò che conta in un evento non è solo chi vi partecipa, ma anche chi lo eccede. La vera comunità non si fonda sulla presenza, ma sul comune. E il comune è sempre ciò che manca, ciò che non ha volto né nome, ciò che eccede ogni lista.

La musica che ha aperto l’evento – Tema d’amore, Libertango, Il canto degli Italiani – non è semplice accompagnamento. È un dispositivo di risonanza. La musica, diceva Wittgenstein, non comunica nulla – eppure dice tutto. Nella Banda dell’Esercito diretta da una donna, il suono si è fatto corpo. Il corpo militare si è fatto carne poetica. E ciò che era addestrato alla marcia si è convertito in canto.

Ogni evento, se lo si ascolta nella sua potenza più radicale, è epifania del tempo. Eppure, il tempo di “Storie di Donne” non è cronologico. È kairologico. È il tempo dell’occasione, della soglia, del possibile che irrompe nell’attuale. Ogni donna premiata non è stata premiata per ciò che ha fatto, ma perché in ciò che ha fatto ha mostrato un’altra possibilità del fare. Una possibilità che non si misura col successo, ma con la verità.

L’evento ha ospitato personalità del mondo accademico, istituzionale, artistico. Ma è proprio questo concetto di “ospite” che merita un’ultima riflessione. In latino, hospes significa insieme “colui che accoglie” e “colui che è accolto”. È parola bifronte, come bifronte è ogni forma di comunità reale. L’evento culturale non è mai un contenitore: è un soggetto che accoglie ed è accolto. In esso, non si danno spettatori e protagonisti, ma soltanto partecipanti. E partecipare, in senso radicale, è esporsi.

Nel gesto silenzioso della Contessa Luciana Marcellini Gaddi, nella parola del prefetto De Marinis, nella presenza della cantante Gio’ Di Sarno, dell’accademica Giovanna Del Vecchio Blanco, dello scrittore Marco Tullio Barboni, dell’imprenditore Daniele Losquadro, si riconosce l’unità di ciò che è irriducibilmente molteplice. In ciascuno di essi, la presenza non è identità, ma apertura.

Oggi, mentre la soglia tra umano e post-umano si assottiglia, e il corpo diviene sempre più un campo di battaglia semantico e tecnologico, “Storie di Donne” non ci consegna un’idea del femminile, ma la sua inoperosità: la sua capacità di sottrarsi a ogni funzione per diventare pura esistenza. Ed è in questa inoperosità che forse si cela la vera politica – non più come gestione del potere, ma come apertura all’altro, come gioco leale con l’invisibile.” e che si apre continuamente a riflessioni più ampie sul tempo, sul corpo, sull’identità, sullo spazio dell’azione.

 

Ciò che rende “Storie di Donne” un evento irriducibile al genere della commemorazione, è l’intervallo che riesce ad aprire tra il presente e la sua narrazione. In quell’intervallo non si tratta di dare voce a chi non ne ha mai avuta, né di rendere visibili le invisibili. Tutto questo, per quanto nobile, resta prigioniero della logica della restituzione: la logica secondo cui l’identità si conferma solo attraverso il riconoscimento.

Ma se si prende sul serio la lezione dell’estetica – e non quella dei musei, ma dell’aisthesis, del sentire puro – allora ogni identità è ciò che appare in quanto appare. Le donne premiate non sono rappresentanti di una categoria, ma apparizioni di un’interruzione. Sono vite che infrangono la continuità dell’indifferenza, sono nomi propri che disattivano il nome comune. E non è forse questo il gesto politico più radicale?

In ogni edizione della rassegna, qualcosa sfugge. Un gesto, uno sguardo, un nome che non viene pronunciato. Ma è proprio questo sfuggire che costituisce la sua verità. Il potere vorrebbe che tutto fosse detto, esposto, contabilizzato. Ma il senso dell’umano si custodisce in ciò che sfugge. Ed è in questo margine che si può ancora parlare di donna senza ridurre la donna a una funzione sociale, a una posizione culturale, a una figura dell’emancipazione.

Non c’è infatti nulla di più pericoloso dell’uso ideologico della vulnerabilità. Ogni volta che la sofferenza viene mostrata per legittimare un ruolo, essa perde il suo potere di interpellazione. Ma quando la vulnerabilità resta nuda, quando non si offre come giustificazione ma come enigma, allora si fa evento. È questo il caso del corpo esposto nella malattia, della voce che parla a partire dalla ferita, del canto che non cerca consenso ma confessione.

Annalisa Minetti, atleta e artista, è una figura paradossale. La cecità non la definisce, la trasfigura. Essa interrompe il dominio della visione e restituisce il corpo all’ascolto. La corsa – attività votata alla meta – in lei diventa azione pura. Il canto – attività del visibile – diventa vibrazione dell’invisibile. E in questa vibrazione si produce la soglia tra arte e testimonianza, tra presenza e vocazione.

Laura Berti, giornalista e curatrice della rubrica Medicina 33, porta con sé la soglia tra sapere e comunicazione. In un’epoca in cui l’informazione si è trasformata in rumore, il suo lavoro è un esercizio di silenzio. Raccontare la salute non significa enumerare patologie, ma interrogare il corpo sociale. La salute, nella sua dimensione pubblica, è lo specchio oscuro di ogni democrazia: essa mostra quanto siamo disposti a prenderci cura dell’altro senza ridurlo a paziente.

È nel concetto di cura che la rassegna trova la sua cifra profonda. Non la cura come terapia – ma come cura di sé e dell’altro, secondo la definizione più antica e più radicale della filosofia. Ogni premiata, in modi differenti, ha esercitato la cura come forma di resistenza. Resistere, infatti, non significa opporsi frontalmente: significa non lasciarsi catturare dalla funzione. Significa continuare a essere, anche quando tutto attorno impone di fare.

Ma se vi è un significato ultimo dell’evento, esso si coglie forse nel gesto della direzione musicale di Antonella Bona. La figura del direttore d’orchestra – o della direttrice – è sempre ambigua. Non produce suono, eppure ne è responsabile. Non parla, eppure guida. Essa incarna quella forma di autorità che non impone, ma espone. La Banda dell’Esercito, sotto la sua direzione, non è più una macchina armonica. È una comunità in tensione. È il suono dell’obbedienza che si fa libertà.

Anche il presentatore, Anthony Peth, nel suo ruolo di coordinatore, mostra l’ambivalenza dell’apparire. Il conduttore – come il filosofo – non deve spiegare, ma attraversare. E la sua presenza, discreta e necessaria, è il filo invisibile che tiene insieme le molte vite, i molti racconti, le molte traiettorie. Essere conduttori oggi, nel tempo della frammentazione, è un atto politico. È l’arte di non essere al centro pur restando nel cuore dell’evento.

Tra i presenti, si muovono volti che appartengono ad altre genealogie: diplomatici, medici, artisti, ex olimpionici. Ognuno porta con sé una porzione di memoria collettiva. Ma non c’è memoria senza interruzione. È solo l’interruzione – la breccia – che consente di accedere al tempo. Il tempo dell’evento non è mai lineare. È ciò che si coagula attorno a una parola, a un silenzio, a una lacrima trattenuta. È l’impercettibile che si fa irripetibile.

Il “fair play”, allora, non è solo il tema dichiarato dell’edizione. È il nome cifrato di una tensione etica che attraversa ogni gesto autentico. Nel fair play, il soggetto rinuncia alla vittoria per onorare il gioco. Ma non è forse questo l’atto più profondamente umano? Saper perdere, saper cedere, sapersi trattenere. Il fair play non è morale: è forma di vita. È il gesto che disattiva la volontà di potere, che restituisce il senso del limite, della misura, del rispetto.

Ma ciò che più colpisce, alla fine, è la discrezione dell’evento stesso. Non vi è clamore, né eccesso. Tutto è mantenuto in una soglia di eleganza sobria, come se il vero significato non stesse in ciò che si vede, ma in ciò che si lascia intravedere. È questa etica dell’allusione che distingue ogni forma alta di comunicazione. Non si tratta di esprimere, ma di lasciare affiorare.

Ed è forse proprio qui che il lavoro di Lisa Bernardini – ideatrice e organizzatrice – assume il suo significato più alto. Non si tratta solo di creare uno spazio, ma di proteggerlo. E proteggere, non è escludere il pericolo, ma esporre al rischio ciò che ha valore. Ogni evento che vale espone chi lo genera alla possibilità del fallimento. Ma è solo nel rischio che si produce la verità del gesto.

La collaborazione tra l’Associazione Occhio dell’Arte, il CNIFP guidato da Ruggero Alcanterini, e l’ACSI presieduta da Antonino Viti, non è una semplice sinergia. È il tentativo, raro, di tenere insieme il simbolico e il concreto. Di unire il pensiero all’azione. Di fare del tempo un luogo, e dello spazio un tempo. È in questa alchimia che ogni rassegna può diventare rituale, e ogni premio può diventare domanda.

Ma nessuna riflessione sarebbe completa senza tornare al titolo stesso: Storie di Donne. La parola storia viene dal greco historein, che significa “indagare”, “conoscere attraverso la testimonianza”. Non vi è storia senza testimoni, e non vi è testimone senza ferita. Ogni donna premiata è una storica in senso radicale: non perché racconta, ma perché mostra. Non perché ricorda, ma perché espone ciò che resta.

E allora, forse, questo decennale non è celebrazione ma soglia. Una soglia tra ciò che è stato e ciò che può ancora essere. Tra la donna come soggetto storico e la donna come evento ontologico. Tra il corpo che lavora e il corpo che appare. In questa soglia, la politica si ritrae, la morale si sospende, e resta solo la possibilità del gesto.

Un gesto che non cerca giustificazione, che non chiede consenso, che non vuole essere esempio. Ma che – proprio in quanto tale – resta come traccia. E ogni traccia, se la si sa leggere, è già promessa di un’altra vita.

Condividi su: