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Strategie di adattamento e crisi nella leadership dell’auto

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

A cura di Agostino Agamben

Strategie di adattamento e leadership dinamica nella gestione aziendale tra incertezze politiche, innovazione tecnologica e la necessità di ripensare la catena del valore in un contesto di transizione epocale. Riflessioni critiche sulla crisi e trasformazione dell’industria automobilistica europea e un’analisi interdisciplinare delle implicazioni strutturali, economico-produttive e delle condizioni materiali di lavoro nell’epoca della transizione energetica e tecnologica globale. Soglie di identità e metamorfosi della soggettività lavorativa nella dissoluzione degli spazi tradizionali di produzione, come il mutamento della fabbrica e l’ibridazione tra corpo, macchina e algoritmo ridefiniscono il senso di appartenenza, la temporalità esperienziale e le forme di vita nell’epoca della precarizzazione e della digitalizzazione globale.

Non c’è più un dentro e un fuori. Non c’è più un centro stabile attorno al quale si organizza l’industria dell’automobile. C’è piuttosto un’infinita soglia, un dispositivo in torsione continua, che modula il passaggio — e spesso la confusione — tra ciò che è ancora produzione industriale e ciò che è già politica della transizione. L’automobile non è più soltanto un mezzo di trasporto, ma una forma di governo dell’economia, un campo di tensioni politiche, una cartografia in continuo ripensamento. Come ogni soglia, non appartiene interamente a ciò che delimita, ma ne è l’ambiguità costitutiva, la zona intermedia in cui il confine si dissolve e ricompone incessantemente.

L’Europa osserva sé stessa non più dall’interno delle sue fabbriche, ma attraverso il riflesso delle sue crisi: crisi della domanda, crisi della logistica, crisi della sovranità industriale. Il continente che aveva fatto dell’automobile il simbolo della sua modernità — dalla Citroën DS alla Golf, dalla Fiat 500 alla BMW Serie 3 — si trova ora a rincorrere la mobilità elettrica, l’intelligenza artificiale, la catena di valore che si è spostata altrove. Ma questo “altrove” non è più distante: è già dentro, già qui. È il volto cinese che prende casa a Barcellona. È Chery che si installa dove Nissan si è ritirata, è la sigla “Omoda” che si insinua tra le concessionarie tedesche, quasi a ricordare che la storia dell’automobile è sempre stata, in fondo, la storia del capitale che muta pelle, non quella dell’identità che si conserva.

Come ogni soglia, questo passaggio è disorientante: il contorno si sfuma, le certezze si dissolvono. Non c’è più un prima e un dopo netto, ma un tempo che si dispiega come un orizzonte instabile, fatto di tensioni e potenzialità inespresse. L’auto non è più un mero oggetto industriale, ma una soglia che incarna la crisi del capitalismo stesso, la tensione tra vecchio e nuovo mondo, tra produzione materiale e informazione, tra corpo e macchina.

In questo senso, l’automobile si fa metafora del presente. Non più solo come dispositivo di mobilità, ma come figura di ciò che resta del lavoro industriale, della produzione e della politica economica. È la storia di un passaggio, di una trasformazione che non si lascia racchiudere in narrazioni lineari o semplicistiche. Piuttosto, essa si svolge sulla soglia tra ciò che si sta spegnendo e ciò che ancora deve emergere, una zona in cui le forme di vita industriale e le forme di vita politica si intrecciano e si sfidano reciprocamente.

L’Europa, da questo punto di vista, si trova in una condizione quasi paradossale. Da una parte, la necessità di mantenere una sovranità industriale, di difendere una capacità produttiva che sembra andare dissolvendosi; dall’altra, l’urgenza di innovare, di adattarsi a una nuova economia digitale e verde, che rimette in discussione i vecchi modelli di produzione e consumo. Questa doppia esigenza si traduce in un’eterna soglia, un dispositivo che obbliga a vivere nell’ambiguità, nel limite, nel margine.

Prendiamo l’esempio della Volkswagen, il gigante europeo dell’auto, che recentemente ha annunciato di voler mantenere aperti gli stabilimenti tedeschi di Dresda e Osnabrück. Questo annuncio, da un lato rassicura, conserva un’idea di continuità, di radicamento territoriale, di responsabilità sociale. Dall’altro lato, rivela un’incertezza profonda, quella stessa continuità è condizionata da una realtà che si sgretola sotto i piedi — dalla domanda stagnante, dalle pressioni normative, dall’incapacità di competere su scala globale senza un ripensamento radicale.

Questi stabilimenti non sono più solo luoghi di produzione; sono architetture di memoria, monumenti a un’epoca che si chiude. Lì, la catena di montaggio non è solo tecnologia, ma gesto umano, fatica, tradizione. Ma ora questo gesto è messo in crisi, non solo dalla crisi del mercato, ma dal nuovo paradigma produttivo che chiede flessibilità estrema, rapidità di adattamento, investimenti in ricerca e sviluppo che sono sempre più lontani dall’orizzonte di queste fabbriche. Cosa significa allora mantenere aperti gli stabilimenti? Quale funzione politica, sociale e simbolica assume questa decisione? È un modo per abitare la soglia, per resistere alla logica della cancellazione, per riconoscere la persistente importanza del lavoro umano in un mondo che tende a disumanizzarsi.

E tuttavia, dall’altra parte della soglia, qualcosa di nuovo emerge. Chery, la casa automobilistica cinese, inaugura a Barcellona il suo SUV “Lepas”. Il nome stesso evoca un orizzonte di ambiguità e globalità: non è né europeo né cinese, ma una costruzione ibrida, che riflette la fluidità dei mercati e dei capitali. Barcellona diventa così simbolo di una nuova politica industriale, una frontiera mobile in cui il ritiro di Nissan non è solo una perdita, ma un’apertura a nuove forme di investimento e produzione.

Questo passaggio non è lineare né innocuo. Rappresenta una trasformazione profonda dei rapporti di forza, delle identità industriali, delle appartenenze nazionali. La Cina non è più solo un luogo di produzione a basso costo, ma un attore che progetta, investe, crea marchi che si affermano sul mercato globale, entrando nelle case e nelle strade dell’Europa stessa. Il confine si fa permeabile, la soglia si fa frontiera in movimento. E questo spostamento porta con sé non solo opportunità, ma anche domande irrisolte sul lavoro, sulla cultura industriale, sul futuro della produzione europea.

Nel frattempo, la retorica della transizione verde e digitale riempie gli spazi pubblici e politici. Horizon Europe, il programma di finanziamento dell’Unione Europea, annuncia un budget di 7,3 miliardi destinato a innovazione, sostenibilità, ricerca e sviluppo. Le parole chiave risuonano con forza: digitalizzazione, intelligenza artificiale, neutralità carbonica, economia circolare. Tuttavia, questo orizzonte futuribile si intreccia con un’assenza palpabile: quella del presente. Chi produce oggi? Dove? A quali condizioni? Qual è il volto attuale del lavoro industriale?

Qui si apre una nuova soglia epistemologica, una cesura che sfugge alle narrazioni mainstream. L’auto elettrica, spesso celebrata come simbolo del futuro, promette meno emissioni, più efficienza, ma anche una riduzione drammatica della manodopera necessaria. La manutenzione si semplifica, i processi si automatizzano, le catene di montaggio si snelliscono. È la fine di un’epoca in cui il lavoro industriale era fatto di corpi, sudore, ripetizione. Ma se il lavoro si dissolve, cosa resta? Qual è la forma del lavoro in questa nuova economia?

L’assenza del lavoro umano come presenza tangibile non significa scomparsa del lavoro, ma trasformazione radicale della sua figura. Il lavoro si sposta nei laboratori di ricerca, negli algoritmi, nelle reti di dati, in quelle nuove soglie invisibili in cui si decide il destino di intere filiere produttive. Il corpo del lavoratore non scompare, ma si trasforma in un soggetto ibrido, sospeso tra il fisico e il digitale, tra la fabbrica e lo schermo.

In questo senso, la crisi della produzione industriale europea è anche crisi di una forma di vita, di un modo di abitare il mondo che si definiva attraverso la fabbrica, il territorio, la comunità di lavoro. La fabbrica come spazio politico e sociale si dissolve, si trasforma in hub tecnologici, centri di ricerca, poli logistici. Ma la soglia tra vecchio e nuovo resta aperta, ambigua, incerta.

La questione doganale si inserisce in questa trama come una delle più evidenti manifestazioni della nuova geopolitica industriale. Quando Mazda sospende la produzione di modelli destinati al Canada a causa di frizioni doganali, non si tratta più solo di una decisione aziendale, ma di un dispositivo che incide sulla configurazione stessa del sistema produttivo globale. Le tariffe, i dazi, le barriere commerciali diventano leve di potere, strumenti di negoziazione politica, che plasmano in modo immediato e concreto le rotte produttive.

La logica della sovranità industriale si scontra così con la fluidità dei mercati globali. La sovranità, concetto tradizionalmente legato a confini territoriali e controllo politico, si mostra fragile, in ritardo, insufficiente. Le fabbriche sono lente, la finanza è veloce; la strategia richiede tempi lunghi, il mercato risponde in modo immediato. Questa dissonanza apre una soglia di vulnerabilità, che è anche una zona di potenzialità.

La politica industriale europea, con i suoi piani, i suoi investimenti, le sue regolazioni, deve allora assumere una nuova forma, un nuovo dispositivo che non cerchi la chiusura e la difesa, ma la gestione delle soglie, l’abitare il confine come luogo di apertura e trasformazione. Non più un’arcaicità sovranista, ma un’arte politica della soglia, in cui si riconosce l’ambiguità, la fluidità, la mediazione.

Questa dinamica si riflette anche nelle tensioni politiche più ampie. L’industria automobilistica è teatro di una competizione che si gioca tra potenze mondiali, tra modelli di sviluppo differenti, tra visioni del futuro in conflitto. La Cina, con il suo piano “Made in China 2025”, ambisce a diventare leader nell’auto elettrica e nelle tecnologie digitali, mentre l’Europa cerca di non perdere il treno della trasformazione, investendo in ricerca e regolamentazioni. Gli Stati Uniti, con politiche protezionistiche e incentivi all’innovazione, cercano di riconquistare una leadership che rischia di sfuggire.

In questo quadro, il ruolo delle aziende private si intreccia con quello degli Stati e delle istituzioni sovranazionali. Elon Musk, simbolo della Silicon Valley e del futuro tecnologico, diventa una voce che interpella le politiche doganali, chiedendo una revisione dei dazi che rallentano l’espansione di Tesla. È un segnale emblematico di come, anche in un mondo digitalizzato e globalizzato, la materialità dell’auto, il bisogno di risorse, di lavoro, di infrastrutture, non possa essere ignorato.

Non si può scaricare l’auto come un’applicazione, perché essa rimane un oggetto complesso, stratificato, che necessita di metalli rari, di catene di montaggio, di circuiti integrati, di competenze tecniche. E dietro questi materiali, questi processi, questi saperi, c’è sempre un corpo, una vita, una comunità di lavoro che si forma e si disgrega sulla soglia mobile della produzione.

La questione del lavoro, allora, si fa più urgente che mai. Non si tratta solo di preservare posti di lavoro, ma di ripensare il lavoro stesso. La mobilità elettrica, la digitalizzazione, l’intelligenza artificiale modificano le condizioni materiali e temporali del lavoro industriale. La fabbrica del futuro non è un luogo, ma un insieme di reti, di flussi, di dati. Il lavoratore diventa un operatore cognitivo, un manutentore di sistemi, un attore ibrido tra fisico e digitale.

Questo passaggio non è lineare né indolore. C’è un’erosione della comunità di lavoro tradizionale, una frammentazione dei tempi, un’incertezza crescente. Il tempo della fabbrica non è più scandito dalla catena di montaggio, ma dalla programmazione degli algoritmi, dai cicli di innovazione, dai ritmi imposti dalla domanda globale. Il lavoro si fa flessibile, precario, mobile. La soglia tra lavoro e non lavoro si fa più labile, la distinzione tra vita professionale e vita privata si dissolve.

Ma in questa dissoluzione si apre anche una possibilità di ripensare il lavoro come forma di vita, come esperienza politica, come pratica di trasformazione. La crisi dell’industria automobilistica europea diventa allora un’opportunità per ripensare non solo il modo di produrre, ma il modo di vivere insieme, di abitare il tempo e lo spazio.

La politica europea, attraverso programmi come Horizon Europe, tenta di costruire un ecosistema in cui innovazione, sostenibilità e ricerca siano integrate. Ma anche qui la soglia è doppia: da una parte, l’investimento in capitale umano, in ricerca, in formazione; dall’altra, la fuga dei cervelli, la difficoltà di trattenere i talenti, la competizione globale per le competenze. La mobilità dei ricercatori diventa una cifra della soglia contemporanea: il ritorno diventa strategia, il partenariato una necessità, la circolazione una condizione.

Nel contempo, il finanziamento alla ricerca scientifica si fa leva politica. L’Europa investe non solo per sviluppare tecnologie, ma anche per affermare una leadership politica e culturale, per consolidare alleanze strategiche, per rispondere a crisi che travalicano i confini nazionali. L’aiuto a Ucraina e Gaza, la cooperazione internazionale, si intrecciano con la politica industriale, con la ricerca, con la mobilità scientifica, trasformando la scienza in un dispositivo politico e simbolico.

Si può dunque vedere l’industria automobilistica europea come una metafora del tempo presente: un tempo fatto di soglie, di dispositivi ibridi, di tensioni irrisolte. Non è più possibile pensare la produzione come un luogo chiuso, né come un processo lineare. Essa si articola su più livelli, intrecciando materiali e immateriali, lavoro e capitale, territorio e reti globali.

La soglia diventa allora la chiave ermeneutica per comprendere questo tempo. Non più un semplice confine da superare, ma un luogo di tensione, di mediazione, di resistenza e di trasformazione. La soglia va abitata, non superata. È qui che si gioca la posta più alta del futuro: non chi vincerà tra Est e Ovest, ma quale forma assumerà il lavoro, la produzione, la mobilità, e con esse il modo stesso di abitare il mondo.

Non ci sarà a questo racconto, perché non c’è una fine netta del ciclo produttivo né una linea che separa passato e futuro. C’è un continuo rimodellarsi, un fluire ininterrotto di forze e relazioni che rendono l’industria automobilistica un dispositivo mobile, una soglia in movimento. E forse è proprio questo che ci insegna l’automobile oggi — non come simbolo di libertà individuale o di progresso lineare, ma come figura complessa di un tempo in cui tutto cambia prima ancora di essere compreso, in cui le forme di vita si plasmano attraverso dispositivi ambigui, fluttuanti, aperti.

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