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Templarismo e Legittimità

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in , .

a cura di Agostino Agamben

Un’indagine approfondita sulla bolla pontificia di Clemente V del 1312 come atto sovrano insuperabile, l’impossibilità giuridica e teologica di ogni rifondazione laica dell’ordine, e le implicazioni politiche e spirituali del rifiuto contemporaneo di riconoscere la legittimità esclusiva del vicario di Cristo sulla vera identità templare, con un richiamo critico alla necessità di distinguere tra autentica appartenenza religiosa e mere appropriazioni sacrileghe nel contesto moderno

Nel crogiolo incandescente della storia, le figure e le istituzioni non si danno mai come entità semplicemente date, ma come nodi di potere, autorità e verità che continuamente si rinegoziano nel tempo e nello spazio. Così avviene per l’Ordine dei Cavalieri Templari, un ente che, al di là del mito e delle leggende, si configura come un dispositivo paradossale, sospeso tra la sacralità e la temporalità, tra la giurisdizione pontificia e le pressioni politiche secolari.

Quando si invoca la figura del Papa Clemente V e la sua bolla del 1312, non si richiama semplicemente un atto giuridico. Si richiama un gesto di sovranità teologica che, per la sua natura intrinseca, non può essere subordinato a nessun altro potere terreno. Il papa, nella sua potestà esclusiva, scioglie un ordine che si era definito monaco e guerriero, cioè un ordine che viveva di una duplice e indissolubile identità: quella spirituale e quella militare. Questa doppia natura rendeva l’ordine dei Templari un’eccezione ontologica nel panorama medievale, un’entità che non apparteneva al solo piano temporale, ma si collocava nel limbo della sovranità assoluta conferita solo dal vicario di Cristo in terra.

Da qui si diparte una riflessione che attraversa il tempo fino a giungere ai fantasmi di epoche successive: la dissoluzione di un ordine pontificio non è soggetta alla ratifica o al riconoscimento di altri stati o poteri secolari. La bolla non è un accordo diplomatico, ma un atto di verità teologica che si impone nel regime di verità della Chiesa. Quindi, il processo che ha portato allo scioglimento dei Templari è, in ultima analisi, un atto sovrano che solo la Chiesa può legittimare o negare, e nessun sovrano terreno può legittimare un ordine che dipende esclusivamente da un’autorità spirituale.

In questo senso, le pretese successive, come quella di Federico II di Prussia nel XVIII secolo, di ricostituire o rifondare un ordine che non gli apparteneva, sfidano la natura stessa dell’istituzione. Federico II, uomo di potere politico e culturale, si scontra con il limite ontologico del potere laico: non può concedere un titolo o un mandato che esula dalla sua giurisdizione, poiché l’ordine è prima di tutto un’entità religiosa, un sacramento monastico, un giuramento che lega l’individuo non al sovrano temporale, ma al papa.

Questa situazione non si limita a un mero gioco di poteri, ma investe la stessa definizione di ordine, autorità, e sacralità. L’ordine dei Cavalieri Templari si configura come un paradigma della sovranità assoluta nella sua forma più teocratica: un’istituzione che si situa al di fuori della contingenza politica, ma che può esserne profondamente investita e minata, come dimostrato dal rapporto con Filippo IV detto il Bello. La sua azione, definita nel documento come “il falsario”, mette in evidenza la tensione tra sovranità laica e pontificia, tra un potere che si rivendica universale e uno che si impone localmente. Filippo IV emana ordini validi solo all’interno del proprio regno, e i processi contro i Templari, nella realtà plurale degli stati medievali, si svolgono in maniera assai differente, svelando come la legge e la giustizia possano essere piegate al volere del potente.

Dunque, quando oggi si afferma che l’Ordine dei Cavalieri Templari non esiste e non potrà esistere se non tramite una bolla pontificia, si riafferma un principio fondamentale: la sovranità religiosa non è negoziabile, non è replicabile a piacimento, non può essere scissa dal suo atto fondativo, cioè dalla proclamazione del vicario di Cristo. Qualsiasi tentativo di ricostituzione o di autoproclamazione fuori da questa cornice è dunque privo di legittimità ontologica e teologica. Si tratta di una verità che non può essere superata né raggirata da nessuna autorità laica o da nessuna filosofia alternativa, ma che impone una distinzione netta tra chi si definisce “templare” e chi lo è realmente.

È interessante osservare come la scomunica “ipso facto” si presenti come un dispositivo di salvaguardia non solo della purezza dogmatica, ma dell’integrità stessa della Chiesa e della sua autorità. Non si tratta qui di un semplice anatema, ma di una separazione netta, che delimita uno spazio teologico e giuridico entro cui l’appartenenza all’ordine è possibile. Chi professa altre religioni o filosofie, o chi si autodefinisce templare senza una bolla pontificia, si situa fuori da questo spazio, e la loro pretesa si rivela non solo errata, ma sacrilega.

In tal senso, l’accoglienza di tali figure da parte di prelati cattolici diviene essa stessa un atto sacrilego, un’inversione del sacramento, un rovesciamento della sovranità spirituale che dovrebbe governare la comunità ecclesiale. Questo tema, apparentemente marginale, tocca il cuore stesso del potere simbolico e della giurisdizione religiosa: l’accoglienza implica riconoscimento, e quindi legittimazione; riconoscere chi non ha legittimità significa sovvertire l’ordine delle cose e minare il principio stesso della Chiesa come corpo mistico.

Per questo si suggerisce la lettura del testo “Templari e Templarismo” di G. Ventura, riedito dopo cinquant’anni dalla casa editrice Atanor con la cura di Luciano F. Sciandra, come un’opera che conduce oltre la superficie delle leggende, scendendo nel profondo della storia e della teologia. Un’opera che illumina le pieghe di un fenomeno che si ripropone ciclicamente nella cultura e nella politica, e che deve essere compreso non solo come un fatto storico, ma come un evento di pensiero che investe la relazione tra potere e verità.

Nel vortice di questa riflessione si apre uno spazio per interrogare la natura stessa della sovranità, in cui il potere pontificio emerge non semplicemente come un’autorità religiosa, ma come l’incarnazione di un dispositivo che ordina il mondo attraverso un atto di verità. La bolla di Clemente V non è un documento tra altri, ma il luogo dove si decide la possibile esistenza stessa dell’ordine. Come nel caso di ogni dispositivo sovrano, essa determina ciò che può essere e ciò che non può essere, tracciando confini che non ammettono mediazioni.

D’altra parte, l’esistenza dell’ordine dei Templari appare come una manifestazione storica di quella che Agamben avrebbe definito “vita nuda”, ovvero una condizione di eccezione in cui l’individuo si trova sospeso tra diritto e violenza, tra esistenza politica e esclusione radicale. L’ordine dei Cavalieri, monaco e guerriero, si muove in questa zona liminale, essendo allo stesso tempo parte dell’autorità ecclesiastica e una forza armata autonoma. La sua scioglimento e condanna rappresentano non solo un atto giuridico, ma la sospensione di un paradigma esistenziale e politico.

Dunque, ciò che permane nel tempo non è il semplice nome o il mito dei Templari, ma la domanda inquietante su chi detenga il potere di definire la realtà, la verità e la legittimità. Non è una questione di nostalgia storica, ma una domanda radicale sul potere che si manifesta nella forma dell’atto sovrano, che ha la capacità di trasformare il possibile in reale, di far esistere o far scomparire un ordine.

Ecco allora che ogni tentativo di reviviscenza o di appropriazione del nome “templare” fuori dal contesto pontificio si configura come una sfida non solo alla storia, ma alla teologia e alla politica. Non è un semplice fraintendimento o una scaramuccia simbolica, ma un problema che investe la natura stessa del potere e della sua giurisdizione. Essere “templari” significa essere soggetti a una sovranità che non può essere definita in termini mondani o semplicemente umani, ma solo in relazione al “legittimo” vicario di Cristo.

Se questa è la dimensione del problema, allora ogni discorso che ne ignori la profondità rischia di perdere il senso, precipitando nella mitologia o nel folklore. Il rischio, come ben si comprende, è quello di trasformare ciò che era un ordine monastico-cavalleresco in una mera “filosofia” o ideologia priva di fondamento, svuotata della sua radice sovrana e religiosa.

Nel campo del contemporaneo, dove le forme di potere si moltiplicano e si frammentano, dove la sovranità appare più sfuggente e disperata, il problema si fa ancora più acuto. La crisi della legittimità, la moltiplicazione delle forme di appartenenza, la fluidità delle identità politiche e spirituali, mettono in discussione i confini tradizionali. Tuttavia, proprio per questo, la distinzione netta tracciata dalla bolla di Clemente V e dal magistero ecclesiastico mantiene la sua importanza, come un monito a non disperdere la capacità del potere di decidere e di fondare.

A tale proposito, appare necessario non solo un richiamo storico, ma un esercizio di pensiero critico e meditativo, capace di leggere l’evento templare nel suo contesto più ampio, senza farsi distrarre dalle apparenze o dalle mistificazioni. Il problema è quello dell’autorità che si fonda non sulla forza bruta, né sul consenso instabile, ma sull’atto che dà realtà all’ordine stesso, un atto che, nella sua ambiguità e nella sua forza, rimane un tema centrale per chiunque voglia comprendere la storia del potere.

Ad Majorem Dei Gloriam – che concludono il chiarimento, assumono un significato più profondo: esse non sono un semplice sigillo o un’affermazione di fede, ma la dichiarazione di un ordine che si fonda su una verità che trascende la storia e che ne ordina il senso.

L’esistenza o meno dell’Ordine dei Cavalieri Templari si rivela così non solo una questione storica o giuridica, ma un problema metafisico, politico e teologico. Come accade per ogni fenomeno che si situa all’incrocio tra sacro e profano, il suo destino rimane sospeso tra la presenza e l’assenza, tra il fondamento e la dissoluzione, e ci invita a meditare sulla natura del potere e della legittimità in un mondo che, pur cambiando forma, continua a interrogarsi sul suo fondamento ultimo.

 

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