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“The Brutalist” un’epopea della Rivoluzione Silenziosa

Scritto da Danilo Pette il . Pubblicato in .

da Danilo Pette

Un viaggio profondo tra architettura e vita, realtà e finzione, in un’opera che ridefinisce il linguaggio cinematografico  conquistando pubblico, critica e comunità scientifica.

Nel panorama cinematografico contemporaneo, è raro imbattersi in un’opera che sappia coniugare in modo così equilibrato successo commerciale, apprezzamento critico e riconoscimento da parte della comunità scientifica. “The Brutalist”, diretto da Brady Corbet, rappresenta proprio questo straordinario fenomeno. Un film monumentale, frutto di sette anni di lavoro per ottenere i finanziamenti necessari, che si distingue per la sua capacità di fondere realtà storica e finzione narrativa, creando un’esperienza cinematografica unica e profonda.

La storia ruota attorno a Laszlo Toth, un architetto ungherese dal carattere visionario, che dopo una dolorosa separazione dalla moglie decide di emigrare in America. Qui tenta di ricostruire la propria esistenza, attraversando un cammino fatto di vittorie, fallimenti, frustrazioni e riscatti personali. Ma “The Brutalist” non è soltanto la biografia di un uomo: è anche un affresco di un’epoca e un omaggio a un movimento architettonico reale e significativo, il brutalismo.

La scelta del brutalismo come fulcro estetico e tematico del film non è casuale. Nato nel secondo dopoguerra, questo movimento si caratterizza per le sue linee nette, squadrate, per l’uso di cemento a vista e per una rigorosa razionalità nella progettazione degli spazi. Nel film, l’architettura brutalista diventa metafora stessa della vita di Laszlo: dura, essenziale, priva di orpelli e sentimentalismi, ma allo stesso tempo funzionale e resistente. Un’esistenza segnata da durezza e fragilità, da concretezza e invisibilità.

Questa tensione tra visibile e invisibile permea tutta l’opera, riflettendosi nelle scelte stilistiche di Corbet, che – come lo stesso regista ha dichiarato durante la Mostra del Cinema di Venezia – ha voluto “fare tutto quello che ci è stato detto di non fare”. Un racconto dilatato nel tempo, austero e meditativo, in cui le emozioni emergono non tanto dalle parole, quanto dai silenzi, dai gesti, dagli sguardi. Il film invita lo spettatore a un’esperienza di profonda immersione emotiva e intellettuale, più simile a un rito che a una semplice visione.

Al centro di questa straordinaria narrazione si trova l’interpretazione magistrale di Adrien Brody. Attraverso i paesaggi urbani di Budapest e le cave di marmo di Carrara, Brody incarna Laszlo con un’intensità fisica ed emotiva che supera la mera recitazione, immergendosi completamente nella psicologia del personaggio. La sua performance riesce a rendere tangibile quella duplice dimensione dell’uomo: una figura apparentemente dura e risoluta, ma al contempo intrisa di sofferenza, speranza e fragilità nascosta.

Il legame personale di Brody con il personaggio amplifica ulteriormente la profondità del suo ruolo. Provenendo da origini simili a quelle di Laszlo – sua madre Sylvia Plachy è una fotografa di fama internazionale che ha dovuto fuggire dall’Ungheria come rifugiata – l’attore ha potuto entrare con autentica empatia nelle pieghe più intime della storia. Questa connessione profonda tra vita reale e finzione ha permesso di restituire un ritratto autentico e complesso della psicologia post-bellica e delle sue ripercussioni sulla vita e sull’arte.

La realizzazione del film ha richiesto scelte produttive attente, volte a coniugare qualità e sostenibilità economica. Corbet ha optato per girare in Ungheria e Italia, dove i costi sono inferiori rispetto agli Stati Uniti, rinunciando inoltre alla stampa dei negativi per ottimizzare il budget. La scelta di girare su pellicola 70mm, oggi molto rara, è stata coraggiosa e strategica: essa conferisce alla pellicola una qualità visiva eccezionale, con una profondità di campo e una materialità delle immagini che rispecchiano perfettamente il mondo brutalista e la dimensione umana del protagonista.

Con una durata di tre ore e quaranta minuti, inclusi quindici minuti di intervallo, “The Brutalist” si presenta come un’esperienza cinematografica che richiede attenzione e dedizione, invitando lo spettatore a un viaggio che attraversa tempi, spazi ed emozioni in modo immersivo e rituale.

Il film ha ottenuto un successo straordinario, raccogliendo ben nove nomination agli Oscar 2024, oltre a premi prestigiosi come il Leone d’Argento alla Mostra di Venezia. Ma il vero valore di “The Brutalist” va oltre il mero riconoscimento commerciale o critico: la comunità scientifica ha infatti riconosciuto il valore storico, culturale e antropologico dell’opera, sottolineando come il film rappresenti uno strumento di riflessione profonda sulla memoria, la diaspora, l’identità e le trasformazioni sociali.

La colonna sonora, affidata a Daniel Blumberg dopo la scomparsa di Scott Walker, utilizza strumenti d’epoca per creare un’atmosfera minimalista e suggestiva, che non sovrasta mai le immagini, ma ne amplifica il respiro emotivo. Il suono, come la sceneggiatura e la regia, evita sentimentalismi facili, preferendo un linguaggio essenziale e rigoroso, in perfetta sintonia con l’estetica brutalista.

 “The Brutalist” è dunque un viaggio complesso e articolato: un’indagine sulle tracce invisibili che compongono la memoria e l’identità, un confronto con le contraddizioni di un’epoca e con le ferite che si nascondono dietro le fredde mura di cemento. Attraverso la storia di Laszlo, il film esplora anche il tema universale della migrazione, della perdita e della speranza di riscatto, raccontando con partecipazione le tensioni e le solitudini che caratterizzano l’esperienza di chi lascia la propria terra per un mondo nuovo e spesso ostile.

In questo senso, “The Brutalist” rompe le barriere tra linguaggi artistici diversi: il cinema si fonde con l’architettura, la musica e il teatro, creando un’esperienza multisensoriale e multidimensionale. La scelta del formato 70mm diventa poetica oltre che tecnica, restituendo al pubblico la monumentalità degli spazi e la materialità delle superfici, costruendo un dialogo visivo intenso tra il personaggio e il suo ambiente.

La lunga gestazione del film testimonia la passione e la determinazione di Corbet, che ha trasformato una sfida quasi impossibile in un capolavoro internazionale. La collaborazione con la moglie Mona Fastvold, co-autrice della sceneggiatura e partner artistica, ha dato vita a una visione originale, capace di superare i confini tradizionali del cinema narrativo, generando un racconto che è al tempo stesso personale e universale, storico e contemporaneo, realistico e simbolico.

 “The Brutalist” segna una svolta importante nel cinema contemporaneo: un film che osa esplorare territori poco battuti, proponendo un’estetica nuova fondata su un equilibrio tra rigore formale e intensità emotiva. Grazie a una sceneggiatura raffinata, una regia visionaria, una recitazione intensa e una colonna sonora evocativa, l’opera coinvolge profondamente lo spettatore, lasciando una traccia indelebile ben oltre la visione.

Non stupisce che abbia conquistato pubblico, critica e comunità scientifica, affermandosi come un punto di riferimento imprescindibile per chi desidera comprendere la complessità del nostro tempo attraverso il linguaggio universale dell’arte.

Un film che invita a guardare con occhi nuovi, a scoprire la bellezza nelle forme più dure, a riconoscere l’umanità nascosta dietro ogni architettura, dietro ogni esistenza. La più grande lezione di questo capolavoro è forse proprio questa: il cinema può andare oltre la superficie delle cose per raccontare le storie invisibili che abitano ogni pietra, ogni sguardo, ogni silenzio.

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