
Tra Desiderio di Indipendenza e Ricerca di Sé
Scritto da Fulvio Muliere il . Pubblicato in Costume, Società e Religioni.
a cura di Fulvio Mulieri
Un’analisi profonda dei temi di indipendenza, disillusione e riconciliazione
In un’epoca segnata da crisi globali, da un’accelerazione tecnologica senza precedenti e da una condizione di iperconnessione permanente, la condizione umana sembra attraversata da una tensione costante e profonda: da un lato si manifesta con crescente intensità il desiderio di indipendenza, il bisogno di affermazione personale, di autodeterminazione, quasi una spinta interiore a distaccarsi da ogni vincolo esterno per poter affermare il proprio io nella sua unicità; dall’altro, emerge una domanda silenziosa ma persistente, un’esigenza di verità e autenticità che si declina nella ricerca di sé, nella volontà di comprendere il proprio posto nel mondo, di dare un senso all’esistenza. Questi due movimenti, che talvolta sembrano opposti, in realtà coesistono in una tensione dialettica, si sfidano e si nutrono reciprocamente, generando dinamiche esistenziali, culturali e spirituali di straordinaria complessità.
L’indipendenza, nella sua accezione più moderna, è diventata emblema di realizzazione personale. Essere autonomi, decidere da sé, costruirsi una carriera, una realtà del mondo e una vita privata secondo i propri parametri è percepito come un segno di maturità, successo e libertà. Tuttavia, questa stessa autonomia, così celebrata e desiderata, si rivela spesso ambivalente. Diventa un peso, un onere che l’individuo si trova a portare da solo, senza il sostegno di reti affettive o sociali solide. L’iper-responsabilizzazione dell’individuo – esortato a essere manager di sé stesso, artefice della propria fortuna, costruttore instancabile della propria identità e del proprio valore – genera una pressione costante. La “società della prestazione”, come la definisce Byung-Chul Han, produce soggetti esausti, prosciugati, incapaci di riconoscersi in mezzo al frastuono delle aspettative che li circondano. L’ideale di libertà si rovescia nel suo contrario: invece di emancipare, imprigiona.
In questo scenario prende corpo una sete nuova e più profonda di autenticità. Al di là del bisogno di successo, di controllo, di visibilità, emerge con forza crescente una domanda: “Chi sono io, veramente?” Una domanda esistenziale che si colloca al di fuori delle dinamiche dell’efficienza e della competizione. In un mondo in cui ogni spazio sembra occupato da stimoli, immagini, notifiche e rumori digitali, il bisogno di ascolto, di silenzio, di raccoglimento, si fa urgenza spirituale. Non è un caso che si riscoprano testi sapienziali, antichi cammini di meditazione, pratiche contemplative, momenti di preghiera. È il tentativo di tornare a sé, di ricostruire un rapporto interiore, di riappropriarsi di un’identità non fondata sull’esteriorità ma sull’essenza.
L’essere umano, in questa prospettiva, non è più solo un progetto da costruire, ma una vocazione da ascoltare. Secondo il cristianesimo, l’identità non si fonda sull’autonomia assoluta, bensì sulla relazione: con Dio, con l’altro, con il creato. È nel legame, non nella separazione, che l’uomo ritrova sé stesso. Il paradosso evangelico – “Chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 10,39) – sovverte la logica dell’autosufficienza e apre alla possibilità che il senso si trovi non nell’autoaffermazione, ma nel dono, nella gratuità, nella perdita che salva.
Questo ritorno alla profondità non è nuovo. La storia del pensiero occidentale è costellata di interrogativi simili. Da Socrate a Kierkegaard, da Heidegger a Levinas, la domanda sull’identità e sulla libertà è centrale. Non come ricerca di una verità definitiva, ma come esercizio continuo, come apertura al dubbio, come cammino interiore. Per questi pensatori, la libertà autentica non si esaurisce nella possibilità di scegliere qualsiasi cosa, ma nella capacità di orientarsi verso ciò che vale, ciò che è buono, ciò che costruisce. La vera indipendenza non è isolamento, ma scelta responsabile della relazione.
È qui che la riflessione si sposta anche sul piano collettivo, sociale, politico. La domanda su di sé non è mai un fatto puramente individuale. Risuona nelle strutture della convivenza, tocca la distribuzione delle risorse, l’educazione, l’organizzazione del lavoro, il valore delle istituzioni. Come costruire una società in cui l’autonomia individuale non si traduca in solitudine o egoismo, ma in corresponsabilità? Come educare i giovani ad essere se stessi senza perdersi, a scegliere senza disorientarsi, a osare senza distruggersi?
In questo senso, il tempo presente ci spinge a un nuovo equilibrio. Abbiamo bisogno di pensiero, di spirito, di profondità, ma anche di azione e responsabilità. L’indipendenza non può ridursi a un individualismo cinico, così come la ricerca di sé non può diventare auto-referenzialità narcisistica. L’autonomia vera è quella di chi ha imparato a pensare con la propria testa senza chiudere il cuore. È il percorso di chi si cerca non per auto-compiacimento, ma per donarsi agli altri in modo autentico. Ed è proprio in questo spazio, tra desiderio di libertà e fame di senso, che si gioca la partita del nostro essere umani.
Una parabola antica, che affonda le sue radici nel Vangelo, sembra anticipare e sintetizzare tutte queste dinamiche. È la parabola del Figlio Prodigo, un racconto che inizia con un gesto apparentemente banale ma carico di significato: un figlio minore chiede al padre la propria parte di eredità prima ancora della morte di quest’ultimo. Non si tratta soltanto di una richiesta materiale: è un atto che rompe il legame, che rifiuta l’appartenenza, che infrange l’ordine familiare e sociale. Nella cultura biblica, la famiglia non è solo unità affettiva, ma rete di sostegno, solidarietà, interdipendenza. Chiedere l’eredità in anticipo è come dire: “Tu per me sei già morto”. È un gesto di estrema autonomia, che si configura come rottura, ribellione, volontà di camminare da soli.
Eppure, il padre non si oppone. Accetta la richiesta e divide i suoi beni. È un atto che ha conseguenze non solo economiche, ma pedagogiche e teologiche. Il padre non reagisce con rabbia, né con il desiderio di punizione. Compie invece una scelta di grande fiducia: lascia che il figlio vada, pur sapendo che potrà sbagliare. In una società patriarcale, questa rinuncia al controllo è rivoluzionaria. Il padre non trattiene, non protegge con la forza, ma educa lasciando liberi. Offre una libertà che è anche responsabilità. Si fida del processo di crescita, anche quando questo passa attraverso l’errore. Nietzsche affermava che “ogni vero cammino è un errore”: solo attraverso la caduta si può imparare a rialzarsi con consapevolezza.
La parabola diventa così uno specchio della libertà umana secondo la prospettiva cristiana: una libertà rispettata, anche a costo del dolore. Dio non obbliga, ma attende. Lascia che l’uomo sperimenti la finitezza, il limite, il fallimento, perché solo così può desiderare veramente il ritorno. La scelta del padre è un’anticipazione della logica della grazia: non si fonda sul merito, ma sull’amore che lascia spazio, che non impone, che perdona.
Il figlio parte, cerca l’autonomia, vive una vita dissoluta. In questa caduta c’è un passaggio necessario: la libertà astratta, se non è guidata da un senso, si svuota. Kierkegaard insegna che la vera libertà nasce solo nel momento della responsabilità. Scegliere è assumere il peso delle conseguenze. Il giovane, dopo aver sperperato tutto, tocca il fondo, sperimenta la fame, la solitudine, l’umiliazione. E solo in quel momento inizia a ripensare sé stesso. L’emancipazione, se svincolata da un’etica interiore, conduce al disorientamento. Ma è proprio lì, nella notte del fallimento, che si apre uno spazio nuovo: quello del ritorno, della riconciliazione, della consapevolezza.
Il padre, ancora una volta, non punisce. Accoglie, corre incontro, abbraccia. L’amore che perdona supera ogni calcolo. Non conta più l’errore, ma la relazione. Questo amore sovverte ogni logica meritocratica: il figlio non viene accolto perché ha “imparato la lezione”, ma perché è tornato. È questo il cuore della parabola: non la punizione dell’indipendenza, ma la riscoperta del senso nella relazione, nel legame, nella casa che resta aperta.
La richiesta del figlio, dunque, non è solo desiderio di libertà, ma ribellione, rottura, affermazione radicale dell’individualità. E tuttavia, questo gesto di emancipazione contiene anche il seme della solitudine. La libertà, se intesa come rifiuto di ogni legame, può condurre al vuoto. Sartre parlava della libertà come condanna: siamo liberi, ma questa libertà è un peso, una responsabilità totale. Nessuno ci può dire cosa fare. Eppure, senza un orientamento, senza una relazione che dia senso, l’autonomia si trasforma in smarrimento.
Camus, con il concetto di “rivolta”, riconosceva il valore della libertà come affermazione della dignità umana. Ma aggiungeva che questa rivolta, per non essere sterile, deve riconoscere i propri limiti. La libertà ha bisogno di legami, di solidarietà, di comunità. Altrimenti diventa prigione, alienazione, rincorsa infinita di piaceri vuoti. La parabola del Figlio Prodigo ci ricorda che la libertà non è solo un diritto, ma un compito. Non è solo possibilità, ma vocazione.
Il diritto di chiedere l’eredità è legittimo. Ma esercitarlo senza attenzione alla relazione, senza rispetto, senza amore, rivela una realtà distorta della libertà. La legge giuridica può permettere, ma non guida al bene. Le leggi morali e affettive, invece, insegnano la reciprocità, la cura, il rispetto. Ed è proprio questo conflitto tra diritto e relazione che attraversa l’esperienza moderna dell’individuo: fino a che punto posso affermare me stesso senza distruggere ciò che mi tiene in vita?
Nel cuore di questa parabola si gioca tutta la complessità dell’esperienza umana contemporanea. Il desiderio di indipendenza, la ricerca di sé, la tentazione dell’isolamento, la necessità della relazione, il fallimento e il perdono, il diritto e l’amore. Tutto converge in un racconto che è insieme esistenziale, spirituale, politico. E ci interpella: che cosa significa essere veramente liberi? Come possiamo costruire un’identità che non si fondi sulla negazione dell’altro, ma sulla sua accoglienza?
Essere umani significa abitare questa tensione. Cercare un sé che non sia egoismo, desiderare una libertà che non escluda la responsabilità, coltivare l’autonomia senza perdere il legame. È in questa dialettica, fragile e potente, che possiamo riscoprire, ogni giorno, il significato più profondo della nostra esistenza.