
Tra Radici Antiche Il Vino Rosso Italiano
Scritto da Danilo Pette il . Pubblicato in Attualità.
Dalla vigna al calice, un viaggio tra cultura che racconta l’identità del Made in Italy.Un bicchiere di rosso italiano, la sua origine, la sua struttura, il suo viaggio culturale ed economico da un vigneto fino a calici sparsi nei continenti racconta una storia che si intreccia con la materia, l’antropologia, il conflitto, l’economia e la geopolitica. Dentro questo bicchiere c’è la civiltà del suolo, l’esperienza del contadino, l’ingegno imprenditoriale, i rapporti internazionali e un’idea dell’Italia come ponte tra tradizione e modernità, tra locale e globale, tra produzione e consumo. La storia materiale del vino rosso italiano va osservata attraverso l’evoluzione delle tecniche di coltivazione, della vinificazione, dei modelli proprietari e della filiera, ma anche delle leggi, dei paradigmi del mercato, delle alleanze e delle strategie di potere, fino al modo in cui ogni bottiglia diventa veicolo di significati, identità, gusti e valore simbolico nel mondo.
Le radici del fenomeno vanno ricondotte al paesaggio agrario italiano e alla biodiversità delle sue varietà autoctone. In quel mosaico di microclimi e terrori, dal clima alpino alla Sicilia mediterranea, l’Italia custodisce una ricchezza genetica di uve – dal Montepulciano al Nebbiolo, dal Sangiovese al Primitivo – che è espressione di secoli di selezioni spontanee o colturali, di pratiche contadine adattive, di scambi e fusioni geografiche. La storia materiale del vino è una storia di innesti, di clone, di vitigni resistenti, di strade. È storia antropologica perché racchiude saperi locali, trasmessi in famiglia, in comunità, con feste, gilde, confraternite; è storia economica perché al centro di filiere territoriali che hanno generato capitale, lavoro, reti di distribuzione e forme associazionistiche come le cooperative, immaginando un rapporto fra produzione agricola e scala industriale. È anche storia dei conflitti: dei brogli nella regolazione dei vini (le truffe del Brunello), delle guerre economiche sulle esportazioni (tra Bordeaux ed enologi italiani), delle tensioni tra consorzi oppositori, delle controversie su denominazioni e identità territoriali che coinvolgono tribunali comunitari e governi, delle resistenze della viticoltura biologica all’uso di pesticidi o della biodinamica alla monocultura.
Quando il vino passa da bene locale a prodotto globale, si attiva un processo di astrazione economica e geopolitica, di finanziarizzazione e di immagine di marca nazionale. Il vino non è più solo mosto fermentato nel tino, ma diventa asset che innesca investimenti, M&A, quotazioni in borsa (es. alleanze tra grandi gruppi vinicoli italiani e fondi d’investimento esteri), e leva diplomatica: cantine italiane entrano nei palinsesti di ristorazione per ambasciate, eventi fieristici, fiere internazionali, export management governativi. Così discorso geopolitico e accesso ai mercati si intrecciano: democrazie o autocrazie allentano o restringono quote d’importazione, regolano certificazioni organolettiche, impongono dazi, stimolano alleanze. Nel 2023, scegliere se incrementare le vendite in Cina o Danimarca non era solo questione di gusto statistico, ma di asset strategici, di normative UE, di accordi commerciali, di campagne politiche e di rapporti extracontinentali (per esempio: negoziati UE–Cina, sanzioni russe sull’Italia, adesione di paesi terzi al sistema di controllo europeo sulle DO/IGP).
Dietro ogni bicchiere di vino italiano consumato all’estero ci sono dunque scelte economiche e politiche: strategie di branding, politiche di prezzo, campagne su enoteche, GDO, horeca; accordi con consorzi o interprofessionali; incentivi regionali per vini di montagna o collinari, per coltivazione biologica, per lotta ai cambiamenti climatici. Importano la concorrenza, spesso dall’Atlantico (USA, Canada), dal nuovo mondo (Australia, Cile, Sud Africa), ma anche dai confratelli all’interno dell’Italia – il ruolo dell’Italia nel mondo come paesi di terroir è duplice: esportatore di materie e di immagine. I vini piemontesi o toscani, spesso interpretati come lusso, contribuiscono a fare del paese un grande marchio “Italy”. L’enologo diventa storyteller, capace di assemblare tecniche trad nell’innovazione produttiva, di progettare vendite, collaborazioni internazionali, e di valorizzare identità specifiche. Il marketing enogastronomico si salda all’industria turistica: degustazioni, wine routes, cantine luxury, ed inoltre musei del vino e azioni educational verso consumatori, professionisti del settore, foodies, generation Y/Z.
Nel 2023, il bicchiere di rosso italiano porta con sé le urgenze ambientali e climatiche la siccità in Toscana, le infezioni da patogeni nella valle dell’Adige, l’aumento delle temperature in Sicilia hanno spinto produttori a ripensare pratiche colturali (irrigazione tecnologica, nuova selezione cloni resistenti, cambiamento delle densità d’impianto, vendemmia anticipata, limitazione delle rese), oltre a investimenti in sostenibilità e certificazioni come VIVA, organic, biodynamica (numerose cantine oggi tendono all’ipossia-fermentazione o uso di lieviti indigeni; investono in energie rinnovabili e riciclo dell’acqua). Vi è consapevolezza che la reputazione mondiale del vino italiano sarà sempre più legata alla capacità di rispondere a impatti climatici, pressione ambientale e alla richiesta di trasparenza e qualità del consumatore contemporaneo.
Nonostante le tensioni politiche e le crisi logistiche (mareggiate nei porti liguri, blocchi navali nel Mediterraneo, aumento del prezzo dei container post‑Covid, guerra in Ucraina), i dati Istat e OIV segnalano nel 2022‑2023 un export che mantiene un saldo positivo, con valore in crescita nei mercati tradizionali UE ma anche nuovi, in Nord America, Asia orientale (Corea del Sud, Giappone), nel Middle East e diaspora italiana in Australia. L’orizzonte si fa transnazionale: la cultura italiana del vino risuona anche laddove risiede la collettività italiana; i produttori italiani aprono affiliate estere o collaborano con cantine locali (joint venture). Gli investimenti nel settore vedono protagonisti fondi infrastrutturali, fondi ESG, attori globali interessati a catene più resilienti, garantite economicamente e ambientalmente. La filiera diventa premiale: il consumatore è disposto a pagare di più per un vino tracciabile, con packaging sostenibile, con emissioni di CO₂ compensate, che promuove la biodiversità. Contro il modello mainstream si fa strada l’artigianato radicale (vini naturali, pet nat, low intervention) e l’agricoltura contadina, rete dimostrativa contro le logiche finanziarie.
Le guerre culturali è palpabile vive nel contrasto tra enologia tradizionale e postmodernista, tra grandi brand e piccoli produttori, tra produzione di massa e comunità locali. Nel quadro socio-antropologico convivono tensioni: chi vuole difendere la denominazione, i disciplinari storici, le pratiche collettive; chi sostiene l’autonomia creativa dell’enologo-artista (leggi critica di Gambero Rosso e Vinitaly sui vini arancioni, sui rossi macerati); chi denuncia la finanziarizzazione predatoriale, che acquisisce cantine storiche con debito e poi riduce biodiversità e assorbe l’identità del territorio; chi esalta piuttosto la rete dei piccoli, opache per definizione, ma resilienti e custodi di identità. Dal punto di vista dell’analisi culturale, in ogni bottiglia c’è conflitto e sintesi tra tradizione, innovazione, locale, globale, uomo, impresa, ambiente.
Un calice verso il futuro continua la partita politica la decisione di puntare su una strategia “premium accessible” in Cina senza incorrere nelle sanzioni o dazi europei, la firma dei protocolli UE‑Sudafrica su riconoscimento delle denominazioni, le storie di successo delle cantine italiane in Canada che beneficiano del Ceta, le sfide logistiche nei paesi africani, le importazioni interne statunitensi monitorate dal Department of Commerce su pratiche rispettose del lavoro, indicano come il vino non sia solo bevanda ma componente dei sistemi globali multilaterali. Le strategie future devono confrontarsi con i giganti che strizzano l’occhio al Cile o all’Australia, che offrono vini premium “coming from” terzi paesi, ma giocano sul packaging ed export italiano, su foto di vigneti italiani, su promesse di tracciabilità italiana; su come sfruttare la reputazione del made in Italy senza investire. Ciò obbliga l’Italia a rafforzare i disciplinari, la sorveglianza sui falsi, l’azione diplomatica, la cooperazione consortile e l’innovation hub per piccoli produttori.
Implìcito nel prossimo capitolo del rosso italiano c’è come verranno affrontate le diseguaglianze interne tra regioni (Veneto contro Toscana, Puglia contro Piemonte), tra realtà familiari e capitali finanziari, tra filiera corta e GDO internazionale, tra vendite online e retail fisico. L’innovazione non sta solo nei vigneti, ma nell’agire digitale—blockchain per la tracciabilità, vendite tramite DTC (direct‑to‑crowd), marketing immersivo con AR/VR in cantina, storytelling identitario. Si tratta di strategie aziendali collegate a governance pubblica: regolazioni regionali sulla valorizzazione del patrimonio agro-culturale (etnobotanico), leggi su agriturismi o wine tourism, visite rurali integrate alle comunità, trasmissione del patrimonio immateriale e panorami paesaggistici.
Quel bicchiere di rosso italiano, svuotato sul palato dell’Europa, delle Americhe o dell’Asia, assorbe e rigurgita materia, cultura e economia. È emblematico del concetto di “matrice dei beni culturali”: l’identità collettiva (di paese, di comunità rurali) traduce capitale simbolico in economia reale, e viceversa. Dentro ogni sorso si legge una storia complessa fatta di artigiani, viticoltori, enologi, esportatori, burocrati, consumatori; una narrazione stratificata che attraversa la Lombardia dei Nebbioli, l’Umbria del Sangiovese, la Sicilia del Nero d’Avola, la Puglia del Primitivo; e che anela a dialoghi nuovi con consumatori eterogenei, sovranità alimentare, equità e sostenibilità ambientale.
Il vino rosso italiano, primo fra i beni materiali-colturali, rimane centro di conflitti – commerciali, climatici, culturali – e occasione di sviluppo, se sapremo farlo evolvere in chiave inclusiva. Occasione di trasformazione quando agricoltura, industria culturale e tecnologia si compongono in una rete relazionale che va oltre una bottiglia, ma consente una rinascita dei territori in simbiosi con la comunità globale. Ogni calice è allora non un consumo fine a se stesso, ma un progetto culturale, economico e politico. Se, come analisti, guardiamo al 2023, capiamo che il rosso italiano non è un artifizio del passato, ma una strategia viva in cui la storia materiale incontra le sfide del nostro tempo.
©Danilo Pette