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Traiettoria minima e LICIACube

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in .

a cura Agostino Agamben

LICIACube un microsatellite italiano nell’abisso cosmico, tra l’etica dell’osservare e il senso nascosto del volo nello spazio profondo.

Non si pensa mai abbastanza alla traiettoria. L’umanità è ossessionata dalla meta, dall’impatto, dal risultato finale – un asteroide deviato, una collisione evitata, un riconoscimento ottenuto – ma ignora quasi sempre la traiettoria. Eppure è essa, invisibile e silenziosa, a tessere il vero senso del movimento. Nel caso di LICIACube, quel piccolo corpo artificiale lanciato nel vuoto a milioni di chilometri dalla Terra, è la traiettoria, prima ancora che l’obiettivo, a costituire un evento di pensiero. Esso ci parla della possibilità di un’intelligenza che si affida al minimo, che accetta la precarietà e la distanza come condizioni del conoscere.

Il microsatellite non è soltanto un oggetto tecnico, né una macchina costruita per un compito preciso: è il segno di una soglia attraversata, di un punto critico nel rapporto tra ciò che è umano e ciò che umano non è più, né lo è ancora. La sua piccolezza – 15 chili di peso, pochi decimetri cubi – non è un dettaglio tecnico, ma una qualità ontologica. Una specie di “misura dell’invisibile”, per cui lo spazio cosmico non è più esplorato da giganti meccanici, ma da entità quasi trascurabili, che sembrano più prossime all’inerzia che alla potenza.

Non è un caso, dunque, che LICIACube sia stato riconosciuto con un premio dall’AIAA. Il premio, apparentemente, celebra un successo scientifico e tecnologico – ma ciò che affiora, sotto la superficie, è un’altra cosa. È la possibilità di una delicatezza tecnologica, una forma di pensiero che si fa piccola, laterale, non intrusiva. Un satellite che non agisce direttamente sull’asteroide, ma lo osserva, da vicino, con uno sguardo che è già, in sé, una forma di responsabilità. È come se, in questa operazione, si rivelasse la condizione di una nuova etica spaziale: non l’aggressione, non il dominio, ma una prossimità attenta, un’osservazione che lascia essere.

La missione Dart, in sé, porta in sé un gesto profondamente ambiguo. Colpire un corpo celeste per deviarne il corso: un atto di difesa planetaria, ma anche un atto simbolico di controllo, di appropriazione della causalità. Tuttavia, è proprio LICIACube a riequilibrare, a correggere quel gesto. Esso non colpisce, non devia: vede. Ed è nello sguardo, non nell’impatto, che si gioca la partita più profonda. Vedere per comprendere, per accompagnare. In questo senso, il microsatellite non è un semplice complice della missione, ma ne è il controcanto poetico, la controfigura sottile che ne salva il senso.

Una civiltà che lancia piccoli satelliti per osservare le conseguenze dei propri gesti cosmici è una civiltà che ha cominciato a interrogarsi sul proprio limite. Non è più soltanto la potenza del fare, ma la necessità del sapere, che guida l’azione. Un sapere non fondato sulla presunzione dell’onniscienza, ma sull’umiltà della distanza. E allora il vero evento non è l’impatto contro l’asteroide, ma ciò che accade dopo: la nube di detriti, le 600 immagini raccolte, la ricostruzione della forma, la comprensione delle caratteristiche intime di un corpo celeste. È lì che si annida l’autentico sapere: non nell’azione risolutiva, ma nell’eco che essa lascia nel tempo.

La parola “difesa planetaria” suona quasi sacrale. Evoca un’umanità finalmente unita, che si difende come un solo corpo. Ma anche qui, bisogna vigilare sul linguaggio: chi decide cosa difendere? E da cosa? L’asteroide, in fondo, non era minaccia attuale, ma ipotesi remota. L’esperimento, pur necessario, porta con sé una tensione morale che non può essere taciuta. La tecnica si giustifica con l’ipotesi, e l’ipotesi, a sua volta, diventa reale proprio grazie alla tecnica. È una circolarità pericolosa, che solo uno sguardo vigile – come quello di LICIACube – può spezzare.

Nel suo minuscolo corpo orbitale, il satellite italiano incarna una nuova forma di pensiero spaziale. Non più il pensiero dell’espansione, ma quello della relazione. Non la conquista, ma il dialogo. La sua missione, apparentemente tecnica, è in realtà simbolica: si muove tra corpi, li osserva, li interpreta. È un messaggero che non porta ordini, ma domande. Qual è la forma dell’altro? Quali le conseguenze del nostro toccarlo? Quali frammenti lasciamo dietro di noi quando interveniamo?

Nel commento del presidente dell’ASI, si legge un giusto orgoglio per l’impresa. Ma anche lì, tra le righe, si avverte la possibilità di un’altra interpretazione. Che cosa vuol dire, davvero, “successo”? È il compimento di un’azione, o l’apertura di un’interrogazione? Se la missione è riuscita, è perché ha generato un sapere che prima non c’era. Un sapere che non si lascia chiudere nella semplice efficacia tecnica, ma che si articola nei mesi, nei dati, nei pensieri che da essi scaturiscono.

Il satellite ha osservato l’impatto da una distanza di 57 chilometri. Un numero che può sembrare esiguo su scala cosmica, ma che dice qualcosa di fondamentale. Non è l’aderenza che consente la comprensione, ma lo scarto. Lo spazio tra il soggetto e l’oggetto, tra l’evento e il suo testimone. Questo spazio, infinitesimo e immenso, è la condizione della conoscenza. LICIACube si è posto in quella distanza: né troppo vicino da farsi parte dell’evento, né troppo lontano da non coglierne le implicazioni. È in quella posizione intermedia che si produce la possibilità della verità.

Un satellite italiano che opera nello spazio profondo: non è solo un orgoglio nazionale, ma un segno epocale. L’Italia, paese dell’arte, della poesia, del frammento, si affaccia al vuoto cosmico non con la forza bruta della tecnologia imperiale, ma con la finezza di un sguardo pensante. Non è secondario che dietro a LICIACube vi sia un consorzio di enti scientifici, università, centri di ricerca, e non soltanto agenzie industriali. Il sapere, ancora una volta, non si costruisce da soli, ma in comune. È un’impresa corale, fatta di voci diverse, di competenze che si intrecciano. È quasi un laboratorio etico, prima ancora che tecnico.

La missione ha attraversato un tempo lungo e rarefatto. Anni di progettazione, mesi di viaggio, secondi decisivi. Ma ciò che resta non è solo il cronometro dell’evento, bensì il tempo sospeso delle immagini. Quelle 600 fotografie non sono solo dati, ma icone di un nuovo rapporto con il mondo. Esse restituiscono la forma dell’asteroide, sì, ma anche – indirettamente – la forma del nostro sguardo. Ogni immagine è una meditazione sul reale, un’epifania geometrica che rivela ciò che la fretta dell’azione tende a oscurare.

Nel tempo delle grandi crisi – ambientali, politiche, epistemiche – la missione di LICIACube appare come un gesto controcorrente. Un’azione minima che genera un’eco vasta. Un silenzioso esperimento che sfida la rumorosa retorica del controllo totale. Essa ci dice che la difesa del pianeta non comincia con la distruzione di una minaccia, ma con la comprensione del contesto in cui essa emerge. E che la vera tecnica è quella che non chiude il mondo, ma lo rende nuovamente interrogabile.

C’è una bellezza discreta in tutto questo. Una bellezza che non si impone, ma che si scopre solo in chi sa ascoltare il tempo lungo delle missioni, il lavoro invisibile dei team, l’intelligenza distribuita che si cela dietro ogni singolo frame inviato a Terra. È una bellezza che ha a che fare con la cura, con la precisione, con la pazienza. Non è spettacolare, ma radicale. Come tutte le forme autentiche della conoscenza.

Ci si potrebbe chiedere che cosa resta, oggi, di una tale impresa. Il satellite ha completato la sua traiettoria, le immagini sono state ricevute, i dati analizzati. Ma il senso resta aperto. Forse perché il vuoto cosmico non si lascia mai del tutto riempire; forse perché ogni gesto tecnico, quando è autentico, è anche un gesto simbolico. In LICIACube si cela una metafora dell’agire umano: piccolo, fragile, ma capace di guardare. E nel guardare, trasformarsi.

Il futuro della ricerca spaziale, se vuole essere sostenibile, dovrà assomigliare più a LICIACube che ai grandi mostri meccanici del passato. Più alla precisione che alla potenza, più all’ascolto che all’affermazione. È questo il lascito, forse involontario, di una missione che ha attraversato il silenzio interplanetario per restituirci un’immagine. E in quell’immagine, non solo un asteroide – ma la nostra possibilità di pensare ancora.

 

 

 

 

 

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