
TRUMP: DISTRUGGERE per RICOSTRUIRE
Scritto da Gabriele Felice il . Pubblicato in Esteri, Diplomazia e Internazionalizzazione, Voci Aperte.
TRUMP: DISTRUGGERE per RICOSTRUIRE. Svela la logica spietata dietro al caos: un piano per demolire l’ordine globale e rifondare l’America.
Quella che per quattro anni durante la prima presidenza Trump è apparsa a molti come una politica estemporanea, contraddittoria e a tratti infantile, ha in realtà una coerenza strategica spietata. Oggi è chiara (almeno questo è come vedo la situazione che stiamo vivendo).
L’amministrazione Trump non ha agito e non agisce a caso.
Ha seguito un disegno preciso, la cui logica non è quella della diplomazia tradizionale, ma quella del costruttore che, per edificare un nuovo palazzo, deve prima demolire dalle fondamenta quello vecchio e (a suo avviso) fatiscente ma magari parliamo di una villetta liberty che andrebbe profondamente ristrutturata e varrebbe la pena salvarla. Ma questo è un mio punto di vista.
Il suo nome è Realpolitik, spogliata di ogni ipocrisia.
La missione è una: distruggere per ricostruire.
Le modalità sono tre, inscindibili: una internazionale, una interna e l’altra economica.
L’approccio è olistico: la guerra culturale interna, la politica economica dei dazi e la strategia geopolitica delle sfere di influenza.
Non sono tre cose diverse, ma un unico, grande progetto di ristrutturazione del potere americano e globale.
DISTRUGGERE
- La fase internazionale distruttiva globale: far esplodere i “bubboni”
La prima mossa del disegno è spietatamente semplice: demolire l’ordine liberale emerso dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Un ordine che, nella visione trumpiana, si era trasformato in un sistema di vincoli e costi che avvantaggiava tutti tranne gli Stati Uniti. I pilastri di questo ordine erano diventati “bubboni” da far esplodere.
- Il bubbone del multilateralismo: Istituzioni come l’ONU, l’UNESCO, l’OMC e accordi come quello di Parigi sul clima o sul nucleare iraniano. Considerati teatri di parole dove alleati “approfittatori” e rivali strategici imbrigliavano la potenza americana. L’attacco è stato frontale: ritiri, definanziamenti, paralisi degli organi decisionali.
- Il bubbone della globalizzazione: il libero scambio, incarnato dal TPP o dal NAFTA, visto come la causa della deindustrializzazione della classe media americana a favore della Cina. La risposta: una guerra dei dazi, protezionismo e la rinegoziazione bilaterale di ogni accordo.
- Il bubbone della sicurezza collettiva: la NATO, descritta come un club dove gli europei ricchi non pagano il conto della propria difesa. La pressione costante per il 2% del PIL non era un capriccio, ma il tentativo di trasformare un’alleanza di valori in un accordo transazionale: pagate per la protezione, o la protezione cesserà.
- Lo specchio interno: “purgare” la Nazione
Questa logica demolitrice ha trovato la sua più violenta applicazione all’interno.
Per poter ricostruire un’America forte, era necessario prima far deflagrare le tensioni che la stavano, a suo avviso, indebolendo.
L’obiettivo: “ridare l’America agli americani” e forgiare una nuova omogeneità culturale.
I nemici interni erano altrettanto chiari: la cultura “woke”, il politicamente corretto, le teorie gender, il “Deep State”, i media “fake news”, l’antiamericanismo sempre più diffuso e strisciante.
Ogni dichiarazione incendiaria non era un errore di comunicazione, ma un colpo di piccone mirato a polarizzare, a costringere a una scelta di campo, a demolire il consenso culturale progressista per ricostruire sulle sue ceneri una nazione unita attorno a valori tradizionali, patriottici e giudaico-cristiani.
- I dazi
I dazi da “strumento di politica economica” ad “arma strategica multifunzione”.
Non si tratta di un protezionismo ottocentesco, ma di qualcosa di molto più sofisticato e dirompente.
Si pongono due obiettivi, uno interno ed uno esterno.
- L’Obiettivo interno: ricostruire la fortezza America
“Riportare produzione e domanda in Patria” è la traduzione economica del motto “Make America Great Again”. La logica è ferrea:
Identificare il “bubbone”: la globalizzazione ha svuotato la base industriale americana (la Rust Belt), delocalizzando la produzione in Cina e altrove, e creando una dipendenza strategica da potenziali avversari.
Azione distruttiva (i dazi): i dazi rendono le merci d’importazione più costose. Questo attacca direttamente il modello di business basato su supply chain globali e manodopera a basso costo. È un colpo al cuore del sistema che ha arricchito le multinazionali e le élite finanziarie, a scapito (nella narrazione trumpiana) del lavoratore americano.
Obiettivo ricostruttivo: reshoring, incentivare le aziende a riportare la produzione negli Stati Uniti per evitare i dazi e servire il mercato interno.
Sicurezza nazionale: Ridurre la dipendenza dalla Cina per beni essenziali (dai farmaci ai semiconduttori). Una nazione non può essere sovrana se il suo nemico produce le sue medicine e i suoi chip.
Rilancio della domanda interna: Se i prodotti sono fatti in America da lavoratori americani, i salari (in teoria) restano nel paese e alimentano un circolo virtuoso di domanda interna.
Questo crea quella “nuova America unita e coesa” di cui parlavamo: una nazione economicamente più autosufficiente, meno vulnerabile agli shock esterni e con una classe lavoratrice industriale a cui viene restituita dignità e potere d’acquisto.
- L’Obiettivo esterno: affossare il sistema globale con l’Incertezza
Il danno maggiore dei dazi non è tanto il costo aggiunto, quanto l’incertezza che generano.
L’incertezza è un’arma strategica potentissima.
Paralisi degli investimenti e degli scambi commerciali: il capitalismo globale si basa sulla prevedibilità. Un imprenditore in Germania o in Corea del Sud investe miliardi per costruire una fabbrica basandosi su catene di approvvigionamento e regimi tariffari che si presume siano stabili per anni. Se un tweet può imporre un dazio del 25% da un giorno all’altro, ogni calcolo salta. L’investimento viene congelato. Il business globale si ferma.
Disintegrazione delle Supply Chain: l’incertezza costringe ogni CEO a porsi una domanda fondamentale: “La mia catena di approvvigionamento globale è un asset o una vulnerabilità?”. La risposta diventa “una vulnerabilità”.
Le aziende sono quindi forzate a cercare alternative: non più la catena più efficiente ed economica, ma quella più sicura e resiliente. Questo significa accorciare le filiere, preferire il near-shoring (Messico) o il friend-shoring (paesi alleati affidabili), e idealmente l’on-shoring (in patria).
Sabotaggio del multilateralismo: usando i dazi come arma unilaterale, Trump bypassa e di fatto distrugge l’autorità dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Dimostra che il potere di un singolo stato forte è superiore a qualsiasi accordo multilaterale.
“Affossare il commercio internazionale prima ancora che con i dazi, con l’incertezza”. È come gettare sabbia negli ingranaggi perfettamente oliati della globalizzazione. Il sistema non si rompe, semplicemente smette di funzionare perché nessuno si fida più a farlo girare.
In conclusione, la politica tariffaria non è una parentesi o una mossa tattica. È lo strumento pratico, il martello pneumatico, con cui si persegue il duplice obiettivo: demolire l’ordine economico globale basato sul libero scambio e ricostruire le fondamenta di una fortezza economica nazionale.
RICOSTRUIRE
La fase ricostruttiva: un Nuovo Ordine Sovranista
Ma la demolizione è solo il preludio.
Il fine ultimo è la ricostruzione di un nuovo assetto, sia interno che esterno. Un disegno sovranista basato non sui valori universali, ma sul potere e sull’interesse nazionale.
All’esterno, si disegna un mondo di macroaree, un “concerto di grandi potenze” dove ogni player dominante gestisce la propria sfera di influenza.
L’America di Trump non vuole più fare il gendarme del mondo, ma il padrone del proprio emisfero.
La sua sfera d’influenza va dalla Groenlandia a Panama. In questo schema, si riconosce implicitamente alla Russia il suo “estero vicino” e alla Cina il suo ruolo di potenza regionale (purché non bari sul piano economico).
Gli Accordi di Abramo ieri, le guerre di Israele oggi, sono il manifesto di questa politica: bypassare l’irrisolvibile bubbone palestinese per creare un’alleanza pragmatica (Israele e Golfo) in funzione anti-iraniana, con gli USA come mediatori e garanti esterni, non come gestori diretti.
All’interno, l’obiettivo è una nazione coesa, purgata dalle sue divisioni. Un’America unita e forte, non più paralizzata dai sensi di colpa post-coloniali o dalle guerre culturali, pronta a esercitare il suo dominio senza remore nel proprio “giardino”.
La deflagrazione: il ritorno della storia
Se questa interpretazione è giusta, le conseguenze sono catastrofiche. In questo nuovo mondo, l’Occidente come alleanza politica e di valori è finito.
- L’Europa, privata dell’ombrello americano, diventerebbe un vaso di coccio. Non si farà fagocitare passivamente, come dimostra la reazione all’invasione russa. E proprio qui sta il dramma: la sua resistenza, in un mondo senza arbitri, potrebbe innescare una guerra continentale.
- Nel frattempo, la Cina, più scaltra, non usa i carri armati ma erode dall’interno, comprando infrastrutture, creando dipendenze, trasformando il continente in un vassallo economico.
- L’Asia-Pacifico (Giappone, Corea del Sud, Australia) si troverebbe sola di fronte al Dragone, costretta a scegliere tra un accomodamento umiliante e una disperata corsa al riarmo, forse persino nucleare.
- Il Medio Oriente diventerebbe, è un’arena per le potenze regionali (Israele, Turchia, Iran, Arabia Saudita), libere di regolare i conti senza mediazioni esterne.
Il colpo di grazia a questo fragile equilibrio è il ritorno delle guerre di annessione, (che hanno poco di ideale ma molto di economico legato all’accaparramento di risorse) tornate drammaticamente “di moda” con l’Ucraina e la logica territoriale di Gaza.
Il tabù fondamentale del dopoguerra è infranto.
L’Afghanistan 2.0 è l’azione di demolizione: il taglio netto, il ritiro, la distruzione degli impegni e delle alleanze considerate un costo netto.
Il Monroe 2.0 è il progetto di ricostruzione: la Fortezza America che si concentra sul proprio dominio regionale dopo aver abbandonato le postazioni avanzate non più difendibili.
Il pragmatismo isolazionista, nato per evitare i conflitti, finisce per creare le condizioni ideali per una deflagrazione senza precedenti.
Il disegno è grandioso, nella sua brutale coerenza. Un tentativo di fermare il declino americano strappando via le fondamenta di un mondo che non si ritiene più vantaggioso, per costruirne uno nuovo, più piccolo, più gestibile, più americano. Ma le fondamenta del mondo, una volta divelte, possono scatenare un terremoto capace di inghiottire anche il demolitore.
FONTI
- Stephen K. Bannon: Generation Zero (2010) – Film
- Peter Navarro: Death by China
- Michael Anton: The Flight 93 Election
- Peter Zeihan: The End of the World Is Just the Beginning
- Walter Russell Mead: POTERE, TERRORE, PACE E GUERRA. La strategia degli USA in un mondo instabile.
- Robert Kagan: The Jungle Grows Back
- John Mearsheimer: La grande illusione. Perché la democrazia liberale non può cambiare il mondo
- Bruno Maçães: The Dawn of Eurasia
- Trump il rancoroso
- Tradimento o realpolitik?
- Gli americani si sono alleati con i russi
- TRUMP: la rivoluzione del buon senso
- La linea rossa
