
un Calice antico Málaga
Scritto da Danilo Pette il . Pubblicato in Attualità.
Un percorso tra tradizione locale e un prodotto simbolo di identità e sostenibilitàIl vino non è mai stato soltanto una bevanda. In ogni goccia si intrecciano mondi diversi: il gesto antico della vendemmia, il sapere tramandato tra generazioni, la cultura materiale delle campagne, la ritualità sacra e profana, le tensioni tra tradizione e modernità, tra locale e globale. Nell’Europa di oggi – segnata da sfide ambientali, trasformazioni socio-economiche e ricerca di nuove identità comuni – il vino assume un valore simbolico e politico che va oltre il consumo. È una chiave per leggere il continente attraverso le sue radici, per comprendere come la terra possa generare non solo ricchezza, ma anche senso, comunità, visione.
All’interno di questo scenario, il vino di Málaga emerge come caso emblematico: frutto della storia mediterranea e ponte tra culture, rappresenta una sintesi affascinante tra tradizione contadina, innovazione tecnologica e cooperazione europea. Dalla Moscatel de Alejandría coltivata sotto il sole andaluso ai progetti congiunti tra famiglie e istituzioni transnazionali, questo vino dolce e solare incarna una narrazione più ampia: quella di un’Europa che, pur nella pluralità dei suoi terroir, può trovare nel calice una lingua comune, un’etica condivisa e una direzione politica possibile. Partendo da Málaga, questa riflessione si apre alla dimensione più ampia del vino come cultura e come strumento di lettura dell’Europa contemporanea.
Nel cuore assolato dell’Andalusia, tra le colline che guardano il Mediterraneo, si distilla più di un vino: si distilla un’identità. Nel vino di Málaga, come in ogni calice che attraversa la storia e la geografia dell’Europa, si sedimentano secoli di tradizioni e tensioni geopolitiche. È un liquido che sa di terra, di sole, di lavoro, ma anche di filosofia, di spiritualità, di memoria collettiva. Non si tratta semplicemente di una bevanda: il vino, e in particolare quello prodotto nella regione andalusa di Málaga, è una narrazione fluida di ciò che l’Europa è stata, è e potrebbe diventare. Il vino rappresenta un corpo organico in fermento, un prodotto della vite e della mente, un compendio liquido dell’anima europea. Ogni goccia racconta un equilibrio delicato tra passato e futuro.
Málaga, città solare e antichissima, affacciata sul Mediterraneo e forgiata dal vento e dalla luce, è il cuore di una viticoltura che unisce esperienze autoctone e influenze esterne, come dimostra l’esperienza del vino Botani, frutto di una collaborazione tra la famiglia spagnola Ordoñez e quella austriaca Kracher. Questo bianco, realizzato con uve Moscatel de Alejandría e senza invecchiamento, ha conquistato l’attenzione internazionale, non solo per la sua qualità organolettica ma per il suo valore simbolico: rappresenta un progetto di cooperazione europeo incarnato in un prodotto agricolo. È un esempio plastico di quella che si potrebbe definire “diplomazia del gusto”, in cui il vino diventa mediatore culturale, strumento di dialogo e sintesi tra diversità.
All’interno dell’Unione Europea, il vino spagnolo è sempre più protagonista, sia in termini di quantità sia di qualità. La Spagna si è avvicinata all’Italia e alla Francia sul podio della produzione mondiale, superando nel 2013 i 42,7 milioni di ettolitri. La crescita non è solo numerica: è anche qualitativa, culturale, tecnica. Si pensi alla nomina di Jerez de la Frontera come Capitale Europea del Vino 2014, riconoscimento che segue quelli attribuiti a Marsala e Pamela, e che conferma il ruolo centrale del Sud Europa nella scena enologica continentale.
Il vino, nella cultura mediterranea e in particolare spagnola, ha una valenza che travalica l’alimentazione. È legame con la terra, è rituale sociale, è offerta sacra. Come scriveva Romano Guardini, il vino è uno dei luoghi in cui l’umano incontra il divino, in un processo di trasformazione che è al contempo fisico e spirituale. Ogni bottiglia racchiude non solo il lavoro di contadini ed enologi, ma anche un sapere che si tramanda, una fede nella terra, una visione del mondo. Si tratta di una pedagogia del gusto che ci invita alla contemplazione, alla lentezza, alla comprensione. In un tempo accelerato come il nostro, bere vino diventa un atto di resistenza culturale, un esercizio di attenzione e di cura.
Ma oggi l’Europa del vino vive una profonda ambivalenza. Da un lato, l’enorme ricchezza culturale, sensoriale e spirituale custodita nella produzione vinicola tradizionale; dall’altro, la pressione standardizzante del mercato globale, con le sue regole di scala, la sua omologazione dei gusti, la sua esigenza di efficienza. Il rischio è quello di schiacciare le piccole produzioni, le denominazioni storiche, i vitigni autoctoni sotto il peso di un’industria che guarda più al profitto che alla memoria.
Il paradosso europeo è evidente: mentre l’Unione promuove il libero mercato e l’export, finanzia al tempo stesso la salvaguardia del terroir, la biodiversità viticola, le pratiche sostenibili. Le politiche della PAC, i fondi strutturali, i progetti di valorizzazione territoriale agiscono in una logica bifronte. Da una parte sostengono l’industrializzazione della filiera vitivinicola; dall’altra cercano di preservarne la dimensione culturale, artigianale, paesaggistica. Questa tensione si riflette anche nelle strategie di etichettatura geografica (DOP, IGP), nelle regolamentazioni sull’uso di pesticidi, nei disciplinari di produzione, nell’adozione di tecnologie green e nella digitalizzazione delle cantine.
Nel caso di Málaga, la sfida si gioca anche sulla capacità di integrare il passato e il futuro. Il vino dolce, fortificato, ricco di storia e legato alla tradizione ottocentesca, è stato riscoperto attraverso nuove pratiche colturali, strumenti tecnologici avanzati e strategie di marketing internazionale. Si pensi agli investimenti del PNRR, dei fondi FEASR e PSRN, che hanno finanziato la riqualificazione dei vigneti, l’ammodernamento delle cantine, l’adozione di energie rinnovabili e l’apertura ai mercati esteri. Ma il cuore pulsante del progetto resta la connessione tra vino e identità locale: una bottiglia di Málaga non è solo un prodotto agricolo, è anche un paesaggio in forma liquida, un racconto storico, un messaggio culturale.
La storia materiale della viticoltura europea si legge nei gesti degli agricoltori, nei solchi dei terrazzamenti, nelle botti annerite dal tempo, nelle cooperative nate nei paesi rurali per resistere all’esodo urbano. Dalle colline toscane alle pendici dell’Etna, dalle valli ungheresi al Douro portoghese, il vino ha plasmato i sistemi sociali, il diritto fondiario, le istituzioni locali. Ha dato lavoro, ha creato cultura, ha ispirato poeti e rivoluzionari.
L’attuale scenario vinicolo è influenzato da fattori profondamente interconnessi: il cambiamento climatico, la rivoluzione digitale, la crisi energetica, le trasformazioni sociali. La vite è diventata un campo di sperimentazione scientifica e politica. La selezione genetica di cloni resistenti, i progetti di ricerca sostenuti da Horizon Europe, la collaborazione tra università e startup agricole (come quelle di Siviglia, Firenze, Dijon o Lisbona), hanno creato un nuovo ecosistema del vino. Un ecosistema che parla il linguaggio della genomica, dell’epigenetica, dell’agronomia di precisione.
Il vino di Málaga, come tanti altri, è coinvolto in questa transizione. I sistemi di irrigazione a goccia, l’utilizzo di droni per monitorare la maturazione, i biosensori nel suolo, i pannelli solari integrati nei tetti delle cantine, la tracciabilità blockchain che segue ogni grappolo dalla vigna al bicchiere: tutto questo definisce un nuovo paradigma produttivo. Un paradigma che mira a ridurre l’impatto ambientale, a garantire la qualità, a raccontare una storia autentica anche al consumatore di Tokyo o di New York.
Chi lavora oggi nelle vigne europee? Quali diritti, quali salari, quali condizioni? Il calice europeo deve essere anche un luogo di giustizia sociale: le cooperative femminili, le aziende agricole inclusive, i progetti di reinserimento lavorativo, la viticoltura montana, la formazione dei giovani sono parte di un nuovo lessico del vino. Bere consapevolmente significa interrogarsi su chi ha prodotto quel vino, in quali condizioni, con quale impatto sulla comunità locale.
L’identità europea si gioca anche qui: nel riconoscimento del vino come bene comune, come prodotto culturale, come segno di una “cittadinanza delle radici”. Un vino locale, bio, certificato, tracciabile diventa simbolo di un’Europa che vuole prendersi cura dei suoi territori, delle sue storie, delle sue persone. Non si tratta solo di evitare la standardizzazione dei gusti, ma di costruire un’economia che tenga conto della biodiversità, dell’equità, della memoria.
Nel vino si gioca anche una partita di soft power. La diplomazia culturale europea ha spesso utilizzato la produzione vinicola come elemento di identità e rappresentanza. Le delegazioni diplomatiche accompagnano le fiere del vino, i festival di vendemmia diventano occasioni di dialogo interculturale. Il vino europeo è simbolo di uno stile di vita, ma anche di un sistema di valori: qualità, sostenibilità, bellezza, tradizione, innovazione.
La strategia Farm to Fork e il Green Deal europeo, pur non citando esplicitamente il vino, lo includono nella loro visione sistemica dell’agricoltura: filiera corta, trasparenza, impatto ambientale, promozione della
dieta mediterranea. In questo quadro, il vino di Málaga, prodotto con uve coltivate senza pesticidi chimici, fermentato secondo pratiche artigianali, distribuito in circuiti equi, può diventare modello. Non solo per l’Andalusia, ma per tutta l’Europa mediterranea che cerca nuove strade per uno sviluppo integrato, territoriale, resiliente.
Il calice diventa così spazio di riflessione politica. Non è un caso che nei movimenti eco-rurali, nelle manifestazioni contro la grande distribuzione, nelle battaglie contro l’agroindustria, il vino sia spesso presente: come simbolo di un’altra economia possibile, come bandiera di una cultura resistente, come memoria da preservare. Il ritorno alla terra, la riscoperta dei vitigni dimenticati, le cantine sociali, i gruppi d’acquisto, le fiere contadine sono fenomeni che intrecciano ecologia, economia e spiritualità.
Bere un vino come il Botani non è solo un piacere sensoriale. È un atto di partecipazione a una storia comune, è un modo per dire “sì” a un’Europa plurale, rurale, solidale. È scegliere un modello agricolo diverso, è investire nella qualità invece che nella quantità, è accettare la complessità invece che cercare scorciatoie industriali. Ogni etichetta racconta una storia; ogni sorso può essere un atto politico.
Eppure il rischio di banalizzazione è sempre dietro l’angolo. Il turismo enogastronomico, le guide stellate, la spettacolarizzazione del vino possono svuotare il prodotto del suo significato profondo. Possono trasformare la cultura contadina in folklore da esposizione. È necessario invece un approccio critico, capace di distinguere tra marketing e autenticità, tra storytelling e verità. Serve un’educazione al gusto che sia anche educazione civica.
Ci dice chi siamo, da dove veniamo, che mondo vogliamo costruire. Nell’epoca della crisi climatica, dell’insicurezza alimentare, delle disuguaglianze crescenti, ogni scelta produttiva diventa una dichiarazione di intenti. L’Europa del vino ha una responsabilità: mostrare che è possibile un’agricoltura che nutre senza distruggere, che unisce senza omologare, che conserva senza rinunciare a innovare.
Ci insegna la pazienza della crescita, l’importanza della cura, la bellezza della complessità. È un’arte lenta, che non tollera scorciatoie. È un messaggio politico che parla di equilibrio, di armonia, di attenzione. In un continente frammentato, attraversato da crisi identitarie e conflitti geopolitici, il vino può diventare un linguaggio comune, un atto di riconciliazione.
L’Europa del vino è anche Europa delle voci, dei dialetti, delle cooperative, delle feste di paese, delle sagre, delle vendemmie collettive. È un’Europa che si costruisce dal basso, che sa coniugare il locale con il globale, la memoria con l’innovazione. Il vino di Málaga, in questo senso, è una metafora potente: nato da una terra arida ma fertile di cultura, cresciuto nell’incontro tra tradizioni e innovazioni, affermatosi grazie alla cooperazione internazionale, è simbolo di un’Europa che sa farsi vino.
©Danilo Pette