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Un nuovo shutdown negli Stati Uniti? Sovranità frammentata

Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in , .

a cura Agostino Agamben

Lo shutdown negli Stati Uniti come manifestazione della crisi strutturale della sovranità democratica, tra frammentazione politica, rinvio perpetuo della decisione e l’incapacità del potere di esercitarsi pienamente nell’era attuale.

Nella tessitura lenta e ambigua del potere statale, il governo americano si trova ancora una volta sul filo del rasoio, sospeso tra il mantenimento di una funzionalità minima e l’imminente rischio di un’interruzione totale delle attività federali, uno shutdown che si configura non solo come una crisi amministrativa, ma come un evento paradigmatico della paradossale natura del politico e del giuridico contemporaneo. L’“Antideficiency Act”, la legge che impone il blocco delle funzioni “non essenziali” in assenza di una risoluzione di bilancio, si erge qui come sintomo emblematico di una condizione in cui il potere si autolimita, si imbriglia, rivelando, con una sorta di ironia tragica, la propria impotenza strutturale di fronte al conflitto interno che lo attraversa.

Il presidente Biden, che dichiara con un tono di rassegnazione quasi tautologica che “niente è inevitabile”, si trova a rimandare all’orizzonte remoto di una possibile azione ciò che invece sembra condannato all’immanenza dell’inazione. Il suo discorso non si configura tanto come una presa di posizione politica netta, quanto come un gesto che testimonia l’impossibilità di una volontà univoca nel campo del potere governativo, sottolineando un’esitazione che si manifesta come nodo inestricabile di responsabilità distribuita e incombente paralisi decisionale. La contrapposizione con i repubblicani della Camera, in particolare con l’ala trumpiana che rigetta l’accordo di maggio, rende evidente come la frammentazione interna del corpo politico statunitense non sia solo una battaglia parlamentare, ma un dispositivo che produce instabilità sistemica, un dispositivo che sospende la governabilità stessa.

Il sistema legislativo americano, con la sua complessa architettura procedurale, si mostra qui nella sua doppia natura: da un lato come macchina della rappresentanza, dall’altro come struttura che si autoriproduce attraverso una catena di condizioni formali e sostanziali, che non sempre garantiscono un governo effettivo. L’approvazione del bilancio federale, condizionata al consenso simultaneo di Camera e Senato, nonché alla promulgazione presidenziale, incarna una forma di potere che si manifesta come negoziazione incessante e mai definitiva, producendo così uno stato di eccezione permanente. La legge di finanziamento “ponte” negoziata al Senato, che estende la vita amministrativa fino al 17 novembre, si presenta come un tentativo di sospendere il conflitto per non far deflagrare la crisi, ma in questa sospensione si insinua la consapevolezza di un limite strutturale: la politica si riduce a gestione temporanea e frammentaria, negando ogni disegno di lungo termine.

Il pensiero critico, riprendendo alcune intuizioni del politico in quanto spazio in cui l’inevitabile e il contingente si confrontano, riconosce in questo teatro la riproposizione della tensione costante tra decisione e norma, tra potere sovrano e legittimità democratica. Lo shutdown, che paralizza le attività “non essenziali”, si configura come un’interruzione che sospende la norma stessa dell’amministrazione pubblica, eppure non la abolisce completamente, creando così una zona liminare in cui il governo è presente nella sua assenza. Questo stato di sospensione ricorda il concetto di “stato di eccezione” teorizzato in passato, ma qui l’eccezione si fa routine, e la normalità si confonde con la crisi continua.

L’impatto economico di questo shutdown, valutato da istituti come Goldman Sachs, traduce in termini numerici e di previsione ciò che è essenzialmente una frattura politica e simbolica: la riduzione del PIL, il rallentamento delle attività essenziali, il ritardo nella produzione di dati economici cruciali, tutto ciò rivela come il potere economico sia strettamente intrecciato con il potere politico, e come il dissenso interno alle istituzioni metta in crisi non solo la funzionalità amministrativa, ma la stessa capacità di controllo sull’economia globale. La crescita che rallenta, i salari sospesi dei lavoratori federali, la paura di un aumento dei costi di finanziamento, segnalano la fragilità di un sistema che si regge su equilibri instabili, fragili e contingenti.

Da una prospettiva filosofica, il governo americano si pone dunque come un dispositivo che si produce e si consuma nel suo stesso funzionamento, un apparato che si autoriproduce attraverso l’alternanza di decisioni e sospensioni, di accordi e rotture. Il ruolo delle forze politiche che si contrappongono all’interno della stessa maggioranza parlamentare, le dinamiche di negoziazione fra rami del potere, e il peso delle fazioni interne, mettono in evidenza come la sovranità statale non si eserciti più attraverso un comando univoco e indiscusso, ma si disperda in una pluralità di centri di potere in conflitto, ciascuno dei quali agisce per rivendicare la propria legittimità e la propria capacità di indirizzo.

Il discorso di Biden, che denuncia il disimpegno degli avversari e invita alla responsabilità, si iscrive in questo orizzonte come una richiesta di restaurazione dell’unità politica, ma questa richiesta si scontra con una realtà in cui l’unità stessa è impossibile se non come artificio temporaneo. La frammentazione della rappresentanza e la crisi delle procedure legislative appaiono come espressioni di una società divisa, di una cultura politica che ha perso la fiducia nella capacità del potere di governare, e che si rifugia in pratiche di delegittimazione reciproca e di rifiuto dell’accordo.

Nel parallelo tra le diverse posizioni politiche, si colgono elementi di un conflitto simbolico che va oltre la mera contesa per il potere materiale. L’ala trumpiana che insiste su ulteriori tagli alla spesa per finanziare il muro al confine con il Messico incarna un’immagine di politica che si alimenta di paura, di esclusione, e di un’idea di sovranità basata sulla chiusura e sulla separazione. Questo si contrappone alla visione più tradizionale di una governance che tenta di mediare e di mantenere una qualche forma di ordine istituzionale, pur nella consapevolezza dei limiti e delle tensioni.

Questa contrapposizione si traduce in una crisi di rappresentanza che si fa crisi di legittimità, e che mette in luce il nesso intrinseco fra economia politica e forme di vita democratica. Lo shutdown diventa così un evento che rivela la contraddizione tra l’esigenza di continuità dello Stato e la frammentazione della comunità politica che esso dovrebbe incarnare. In questo senso, lo shutdown non è solo una crisi temporanea, ma una manifestazione visibile della crisi strutturale del moderno governo democratico.

La dinamica che emerge da questa situazione richiama, in maniera quasi drammatica, le riflessioni sul limite del potere, sul suo carattere performativo e sull’insufficienza della norma a garantire una stabilità permanente. Il governo appare come un dispositivo fragile, esposto alle contingenze, incapace di assicurare una guida certa e duratura. La “politica del tempo sospeso”, la “gestione dell’emergenza permanente”, si configurano come strategie di sopravvivenza di un sistema che vive di un equilibrio precario tra decisione e rinvio.

L’intervento del Senato, con la sua proposta di legge “ponte”, manifesta un tentativo di evitare l’esplosione immediata della crisi, ma al tempo stesso mostra come la politica si riduca sempre più a un’attività di negoziazione tattica, priva di visione strategica. Questa precarietà si riflette anche nella percezione internazionale, dove il segnale di una crisi politica americana contribuisce a incrinare la fiducia nel sistema economico globale, evidenziando come la crisi interna di una potenza statale abbia ripercussioni oltre i confini nazionali.

L’invito bipartisan di Schumer e McConnell a trovare un accordo diventa così un appello a una forma di responsabilità condivisa, che però si scontra con la realtà di un conflitto di potere che trascende la logica del compromesso. Le differenze ideologiche e strategiche tra le fazioni repubblicane e democratiche non possono essere semplicemente superate da un atto di volontà politica, ma riflettono un mutamento più profondo nella composizione del corpo politico americano.

La prospettiva offerta dagli analisti economici, che prevedono un impatto significativo sul PIL e un possibile rallentamento del ciclo di rialzi dei tassi Fed, traduce in termini materiali le conseguenze di un conflitto che è prima di tutto simbolico e istituzionale. Il rischio che la crisi si trasformi in una vera e propria paralisi amministrativa si intreccia con la dinamica economica globale, mettendo in crisi la capacità dello Stato di influenzare positivamente il corso degli eventi.

Si potrebbe allora pensare che il governo americano si trovi a vivere un paradosso: da una parte la necessità di mantenere un’apparenza di controllo e funzionalità, dall’altra l’impossibilità di esercitare una sovranità effettiva e coerente, costretta a negoziare la propria esistenza in termini di rinvii e sospensioni. Questa condizione di “sovranità delegata” o “sovranità dispersa” mette in crisi le categorie tradizionali del potere politico, aprendo la strada a riflessioni più ampie sul destino delle democrazie contemporanee.

Il rapporto fra decisione politica e potere economico si configura quindi come nodo cruciale di questa crisi. Lo shutdown, in quanto interruzione delle funzioni governative, si traduce in un segnale di debolezza che investe l’intero sistema capitalistico globale, mostrando come le crisi politiche interne possano avere effetti destabilizzanti su scala planetaria. La necessità di un accordo bipartisan diventa allora non solo una questione interna, ma un imperativo che coinvolge l’ordine economico internazionale.

Nel gioco delle responsabilità, le figure di Biden, McCarthy, Trump e Christie si muovono come parti di un dispositivo complesso che si autoriproduce, in cui ciascuno esercita la propria funzione in un sistema di potere che sembra al contempo inevitabile e sempre rinviato. Il loro confronto, spesso ridotto a uno scontro di strategie comunicative, nasconde una dialettica più profonda che riguarda la natura stessa del governo come pratica e come dispositivo simbolico.

Questo scenario esemplifica la tesi che il potere non si esercita mai pienamente, ma si manifesta come equilibrio instabile tra decisione e rinvio, tra presenza e assenza, tra norma e eccezione. L’“Antideficiency Act” si rivela così come la cifra di un potere che si limita da sé, che si inchina davanti alle proprie contraddizioni, producendo una forma di crisi permanente che si impone come nuova modalità di governo.

In questa luce, lo shutdown non è soltanto un fallimento amministrativo o politico, ma diventa un fenomeno paradigmatico per comprendere la crisi della sovranità moderna, l’instabilità delle istituzioni democratiche e la complessità della relazione fra potere politico, economia e società contemporanea. La politica americana, più che esprimere una volontà sovrana, sembra attraversata da un processo di decostruzione che mette in discussione la possibilità stessa di governare attraverso le forme tradizionali della rappresentanza e della norma.

Infine, questa condizione di sospensione permanente e di rinvio incessante della decisione pone una domanda fondamentale: come può il potere oggi ritrovare una forma di unità e di efficacia senza rinunciare alla sua complessità interna, senza tradire la pluralità che lo attraversa? È forse questo il vero nodo della crisi contemporanea, il punto in cui la riflessione politica e filosofica deve confrontarsi con la realtà mutevole di un mondo che non si lascia più governare con le categorie di ieri.

 

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