
Una Vita senza funzione e la Parola senza Gesto
Scritto da Agostino Agamben il . Pubblicato in Attualità.
A cura di Agostino Agamben
Il silenzio della forma e l’inoperosità del linguaggio nel tempo della traccia
Quando il linguaggio non comunica più verità, ma resta soglia, traccia che attesta l’assenza e richiama una responsabilità che non sappiamo ancora formulare. La comunità infranta dalla politica e il volto della vita nuda. Quando la vita è ridotta a mera esistenza, la politica diventa zona d’eccezione permanente, e la comunità resta luogo di assenza che reclama la creazione di un uso diverso della vita. Tempo e memoria e tracce perdute in un presente che fugge. La memoria non è archivio, ma crepa nel tempo: dove il passato riaffiora e dischiude la potenza del possibile, sfidando l’oblio che il presente pretende padrone.
C’è un punto in cui il linguaggio si ritira. Non per mancanza di voce, né per impotenza tecnica. Ma perché la parola, svuotata del suo gesto originario, è divenuta guscio senza promessa. Non più forza che dischiude il reale, ma forma ripetuta, simulacro che rimbalza in un presente sordo. Le parole, oggi, non comunicano più verità, ma appartenenza. Sono segni di un’identità senza responsabilità, citazioni che non implicano scelta, performance che non comportano rischio.
Viviamo immersi in un linguaggio che funziona come macchina. Ogni frase è calcolata, ogni dichiarazione è branding, ogni verità è storytelling. La comunicazione — nel suo trionfo — ha divorato il linguaggio. Ha saturato lo spazio del dire, esaurito la possibilità dell’ascolto, affogato la differenza nel mare della rappresentazione. In questo orizzonte, dire è diventato sinonimo di mostrare. Parlare è diventato sinonimo di performare.
Ma nel cuore stesso di questa macchina, si apre una fessura. Un’interruzione. È la soglia della parola inoperosa, che non produce consenso, né costruisce narrazione. Una parola che non persuade, ma resta. Che non convince, ma testimonia. È qui che si manifesta ciò che Giorgio Agamben ha chiamato “inoperosità”: non inattività, ma sospensione dell’efficienza, gesto che sottrae la parola alla sua funzione utilitaria.
La parola inoperosa è quella che si rifiuta di diventare slogan, tweet, comunicato. È il linguaggio che rifiuta di essere economia. Non serve, e proprio per questo indica il possibile. È parola‑traccia, che attesta un’assenza. Non ciò che si dice, ma ciò che non si può più dire. E che tuttavia ci chiama a una nuova responsabilità del dire.
Nel tempo in cui tutto è parola, la vita è ridotta a silenzio. Il corpo, che un tempo era soggetto politico, oggi è oggetto di calcolo: biopolitica in senso stretto, dove non si governa più per rappresentare, ma per gestire la vita. Una vita che, privata della sua forma, è “nuda”: spogliata di diritti, esclusa dalla comunità, esposta al potere senza mediazioni.
La zona d’eccezione — concetto cardine del pensiero agambeniano — non è più una frattura temporanea, ma è diventata forma normale del governo. Ovunque il potere agisce attraverso la sospensione del diritto: nella sanità, nell’economia, nelle migrazioni, nella sicurezza. L’eccezione è oggi una tecnologia permanente. Un dispositivo che decide chi vive e chi può essere lasciato morire.
Nella città globale, la comunità è infranta. Non perché sia scomparsa, ma perché è stata svuotata del suo senso. La comunità non è più luogo di condivisione del destino, ma spazio neutro di coabitazione forzata. La logica neoliberale ha trasformato la cittadinanza in prestazione, l’appartenenza in contratto, la solidarietà in welfare condizionato.
Eppure, in questa assenza, qualcosa resiste. Il volto della vita nuda — quella che sopravvive ai margini — si impone come realtà che sfida la politica dominante. Non ha voce, ma ha presenza. Non ha diritti, ma è irriducibile. Ed è proprio nel suo essere senza nome, senza rappresentanza, senza protezione, che essa si fa soglia di una nuova politica.
Una politica che non parte dalla legge, ma dalla vita. Che non istituisce, ma riconosce. Che non governa, ma accoglie.
Il potere contemporaneo ha traslato il suo asse. Non si gioca più solo nei parlamenti, ma nei mercati. La sovranità è stata rinegoziata su base finanziaria. Le borse, i flussi di capitale, i rating e le previsioni sono oggi gli oracoli del nuovo tempio. L’economia non è più strumento, ma fine. E la vita — ancora una volta — è la materia prima.
La strategia finanziaria globale non è altro che una sofisticata gestione dell’incertezza. Ogni vulnerabilità umana è monetizzata: malattia, precarietà, catastrofe, povertà. Le assicurazioni diventano strumenti di scommessa. La crisi è funzionale all’accumulazione. L’instabilità è prevista, desiderata, pilotata.
In questo quadro, il corpo umano è un dato. I suoi comportamenti sono profilati, tracciati, venduti. Il suo lavoro è flessibile, spezzato, adattabile. La sua malattia è rischio da contenere, la sua morte è costo da valutare. La vita intera diventa un algoritmo. E l’economia, da scienza della gestione, si trasforma in biopolitica strategica.
Ma anche qui, qualcosa resiste. La soglia non è solo spazio di controllo, è anche spazio di sottrazione. L’inoperosità, in economia, è ciò che sfugge alla contabilizzazione. È il gesto che non produce valore di scambio, ma valore d’uso. È la cura non retribuita, l’ospitalità non normata, il dono non fiscalizzato.
Una strategia politica futura non potrà più ignorare questa tensione: o continuerà a gestire la vita come dato, o deciderà di riconoscerla come evento, come possibilità. L’alternativa è radicale: finanza della vita o politica della dignità.
Il presente si presenta come incessante. Ogni istante reclama attenzione. Ogni evento è breaking news. Ogni storia è immediatamente condivisa, commentata, archiviata. Ma in questa bulimia di presente, il tempo è diventato superficie. Liscio, scivoloso, uniforme. Il passato è spettacolo; il futuro è calcolo. Solo il presente esiste, e solo come consumo.
Eppure, ci sono crepe nel tempo. Fessure da cui riaffiora ciò che non è stato detto, ciò che è stato dimenticato, ciò che avrebbe potuto essere. La memoria non è archivio, ma traccia: un’assenza che interroga. Non dice “così è stato”, ma “così poteva essere, così potrebbe essere ancora”.
La vera memoria è politica, non commemorativa. Non serve a celebrare, ma a riaprire. Non vuole consenso, ma responsabilità. E per questo, è scomoda. Perché non si lascia ridurre a lezione scolastica, a didattica dell’orrore, a esercizio di pietà. La memoria vera chiede giustizia.
In un mondo che tende a trasformare ogni rovina in attrazione, ogni tragedia in evento, ogni testimonianza in merce, ricordare è resistenza. È sottrarre il passato al potere che lo vuole chiuso. È tenerlo aperto, ferito, pronto a riattivarsi.
La memoria non è nostalgia. Non è desiderio di ritorno. È potenza del possibile. È il punto in cui il tempo si flette, si apre, si moltiplica. Dove l’assenza non è lutto, ma gesto. E dove ogni parola che ricorda è un atto politico che dice: “ciò che è stato non basta a dire ciò che è”.
In questo paesaggio frammentato, resta una domanda aperta: è ancora possibile pensare una comunità? Non come nostalgia di un’unità perduta, né come progetto utopico, ma come uso diverso della vita. Una forma di stare insieme che non pretenda identità, ma riconosca differenza. Che non si fondi sul possesso, ma sull’ospitalità. Che non abbia bisogno di eccezioni per esistere, ma viva nella quotidianità condivisa.
La comunità che viene non è un programma politico, ma una condizione ontologica. Non si fonda su un fondamento, ma su una soglia. Non si costruisce, si lascia accadere. È la potenza che ognuno porta in sé: di parlare senza dominio, di vivere senza proprietà, di essere senza funzione.
È qui che il linguaggio, la politica, l’economia e la memoria possono tornare a incontrarsi. Non come apparati separati, ma come forme della vita. E solo se torneranno a essere tali, potranno dischiudere un altro possibile.
La parola, liberata dalla sua funzione, potrà tornare a essere gesto. La politica, svuotata della sua volontà di potere, potrà tornare a essere cura. L’economia, strappata alla finanza, potrà tornare a essere scambio umano. E la memoria, sottratta al museo, potrà tornare a essere profezia.
Nel tempo dell’accelerazione, l’unica vera rivoluzione è la sospensione. Nel tempo del rumore, l’unica vera parola è il silenzio. Nel tempo della funzione, l’unica vera potenza è l’inoperosità.
Ciò che resta, alla fine, è una traccia. Un segno che non indica, ma evoca. Un’impronta che non dirige, ma chiama. Una soglia che non divide, ma apre.
In questo spazio fragile, si gioca il nostro tempo.
E lì, forse, possiamo ancora decidere che uso vogliamo fare della nostra vita.